Capitolo uno.

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C'ero io;
una diciassettenne persa nel suo mondo, una delle tante,
distinta dalla società solo per la sua apparente stranezza.

Una ragazza qualunque, non di certo la classica ragazza che si nota per strada, che in mezzo a migliaia di persone che camminano indisturbate ci si gira a guardare.

Non avevo nulla di speciale, nulla di particolare, e nessuno mi conosceva realmente.
Nessuno aveva mai provato ad andare fino in fondo, nessuno aveva mai provato ad arrivare al punto da anche solo sfiorare con le dita, la mia anima.
No, neanche lontanamente.

Forse non mi conoscevo realmente nemmeno io,
forse non ero andata fino in fondo nemmeno io,
forse la mia anima, non l'avevo toccata nemmeno io.
D'altronde perché sorprendersi?
Avevo una passione innata per non portare a termine i miei obbiettivi, e lasciare tutto a metà.

E probabilmente pensavo fosse meglio così,
che mai nessuno avesse provato a conoscermi fino in fondo,
e che al contrario, avessero deciso tutti di scappare al primo cenno d'instabilità all'interno della mia vita.
Perché una volta che si conosce una persona, e la si conosce fino in fondo, fino al baratro,
è la fine.
Per entrambi.

La ragazza dalle sigarette spente sulla mano, dalle cicatrici nell'anima, dalle voragini nel petto.

Mi sentii sempre a disagio, sempre fuori dagli schemi, sempre fuori dal mondo,
come se tutto ciò che esistesse non fosse adatto a me, come se tutto ciò non fosse adatto al caso mio;
al caos mio.

La mia vita non era per niente perfetta, ma era pur sempre una vita, e la vita è perfettamente perfetta nelle sue imperfezioni.

Insomma, pensateci un attimo.

Un bambino che nasce, un fiore che sboccia e cresce mostrando il suo splendore a tutti,
gli uccellini che cinguettano,
tutto questo non è forse fantastico?
tutto questo non dovrebbe forse essere un motivo per vivere?


Immaginai che questa tipologia di pensieri, non stessero nemmeno lontanamente sfiorando, quelli del ragazzo che in quell'esatto momento continuava ripetutamente a colpire lo sportello dell'autobus, e che, nonostante stesse pregando l'autista di farlo salire; esso proseguì comunque per il suo percorso, senza batter ciglio.

Una di quelle ragazze che apprese in fretta che i "per sempre" erano destinati a finire;

sempre.

Che "ti amo" era una frase priva di significato che nella maggior parte dei casi non veniva usata nel modo in cui essa meritava, e che spesso e volentieri non equivaleva realmente al sentimento ad essa associato.

Tanti, l'amore lo scambiavano per un gioco.

Un gioco fatto di illusioni, delusioni, di ferite che se rimaste aperte più del dovuto, sono destinate a non chiudersi mai.

Un gioco fatto di bugie, di coscienze sporche e di conflitti interiori.

Persone che si divertono ad usare altre persone.

Un gioco del tutto privo di fascino, ma che noi tutti in cuor nostro desideriamo ardentemente, più di ogni altra cosa.

Una di quelle persone che sa di cosa parla, anche se non parla mai.

Una di quelle persone che resta sempre in silenzio, ma resta.

Una di quelle persone piene di timidezza;

timidezza ed insicurezza che purtroppo la bloccava spesso,

e che sovente la faceva sentire a disagio ed ancora più sola al mondo.

Una di quelle persone che si accorge di tutto, ma allo stesso tempo di niente.

Una di quelle persone che sul pullman non sale con gli amici, ma con la sola compagnia della musica, di un libro e dei suoi pensieri.

Ed i pensieri erano talmente tanti che non si distinguevano nemmeno più l'uno dall'altro.

Specialmente, ero una di quelle persone a cui basta una crepa sul vaso per farla andare in confusione.

Semplicemente, ero quella che gli altri chiamavano "Sfigata."

Io, il mio più grande nemico, anche se effettivamente; non avevo amici.

Con l'avvicinarsi della fermata alla quale sarei dovuta scendere iniziai ad invidiare quel ragazzo al quale l'autista non aprì, perché se fossi stata al suo posto avrei avuto sicuramente un altro po' di tempo per prepararmi all'inevitabile rientro a scuola, del quale il solo pensiero riusciva a creare in me così tanta ansia da voler semplicemente sparire nell'oblio.

Scesi dall'autobus ed arrivai di fronte alla mia scuola, giusto al suono della campanella che segnalava a noi studenti il fatto che fosse giunta l'ora di entrare, ma non volevo.

Ero così terrorizzata, il solo pensiero di dover varcare la soglia di quel cancello mi fece salire il volta stomaco.

In preda al panico rimasi bloccata lì davanti; una mandria di studenti nella foga di non far tardi alle lezioni iniziò a spingermi, costringendomi così a farmi da parte, e senza nemmeno che me ne rendessi conto, spinta dalla folla, mi ritrovai in un angolino a qualche metro da esso.

Dopo qualche minuto di lotta interiore con la mia ansia decisi di aspettare che il logorante senso di nausea si placcasse prima di entrare, dunque mi accesi una sigaretta.

Poco tempo dopo, improvvisamente si fermò di fronte a me un ragazzo che mi chiese un accendino, alzai lo sguardo e riconobbi in lui un volto già noto,

era il ragazzo che aveva perso l'autobus.

Non mi sembrava di averlo mai visto all'interno della scuola che frequentavo, ma non ci feci troppo caso e gli porsi ciò che mi aveva chiesto senza proferire parola.

Solo nel momento in cui me lo restituì mi resi conto di star tremando, noncurante, mi spostai una ciocca di capelli dal viso e cercai di contenere la mia ansia mista a nervosismo, nella speranza che non si notasse, e quando rialzai lo sguardo verso di lui, ancora fermo davanti a me, fortunatamente non sembrava aver notato nulla.

I nostri sguardi si incrociarono e lui mi porse la mano per presentarsi, che io non accettai.

<< Federico, sono nuovo >> disse evidentemente un po' imbarazzato dal mio rifiuto alla sua ricerca di contatto.

Non gli risposi, ed una volta finita la mia sigaretta iniziai ad avviarmi, un po' incerta, verso il cancello, ma la sua voce mi fermò.

<< Com'è questa scuola? >>

Senza pensarci due volte risposi sinceramente << un vero schifo >>, era nuovo e non volevo incentivare la sua speranza di trovarsi in un bel posto, anche se immaginai che non avrebbe avuto particolari problemi, al contrario mio.

Una volta entrata nella mia classe mi recai all'ultimo banco, che nessuno prendeva mai perché era malridotto, e mi sedetti, incurante dei soliti fischi e dei soliti sguardi sbilenchi da parte dei miei compagni, alle quali ormai ero abituata.


Fragili come petali di rugiadaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora