Capitolo 4

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"Ancora tanti auguri!" pronunciò Anna appena le aprii la porta di casa. Mi invase un freddo improvviso, tipico degli androni dei palazzi che si stagnava sulle pareti e fin sotto le mattonelle. Lei apparve con un sorriso marcato, gli occhi allegri e grandi, con quel loro color cioccolato dal quale si leggeva un intrinseca dolcezza. Erano schiacciati dal basso dalle guance piene e rosse che nascondevano quasi del tutto quel neo sotto l'occhio destro, il quale cadeva nella linea che incideva lo zigomo.

Mi stava porgendo un pacco regalo piuttosto morbido ed irregolare, ma non mi soffermai troppo su quello perché un'altra cosa stava catturando la mia attenzione sul suo viso e "Ma cos-" non feci in tempo a dire che mia madre piombò come un uragano, spostandomi a lato e tirandola dal braccio per farla entrare.

"Wow sei bellissima! Come stai bene" pronunciò con entusiasmo non accorgendosi dell'imbarazzo che le causò non appena le filò il cappellino di tessuto, prendendole il viso tra le mani. La perquisii con lo sguardo e, giusto per metterla un po' più al centro dell'attenzione, lo stavo facendo anche io, mentre chiudevo la porta di casa.

"Grazie" sussurrò con guance colorite e occhi costretti in quelli della donna. Parlò a fatica dato che Betta le stavano schiacciando i lati del viso così tanto da obbligarla a tenere la bocca a pesce. Non appena fu libera arrossì, grattandosi la testa, e parlò: "Non sono troppo sicura che sia venuto un bel colore, mi vergogno parecchio a farmi vedere in giro" si mordicchiò il labbro, intimorita.

Dovetti per un attimo confrontare la sua immagine attuale con quella invisibile, nel senso metaforico del termine, alla quale ero abituata, quel viso che sembrava facesse di tutto per nasconderla alla gente con quello che vedevo. Era stata da sempre una persona fin troppo timida, di quelle che si vergognavano non appena gli veniva rivolta parola, che stavano sempre con lo sguardo basso e non iniziavano mai un discorso. Era molto emotiva e non era facile farla stare più di un giorno tranquilla e senza pensieri. Ci conoscevamo dalle elementari e ricordavo ancora il primo giorno di scuola, quando, dopo esserci presentate, lei rimase attaccata a sua madre per tutto il tempo, facendo qualche sorriso ogni tanto, non spiccicando parola. Io non ero stata da meno, da piccola non ero mai stata tanto chiacchierona, e mi ero limitata a salutare e chiedere quanti anni avesse. Fu abbastanza istintivo per entrambe trovare posto vicine, così, durante l'intervallo, e con qualche parola a lezione, iniziammo a fare conoscenza. Un giorno non troppo lontano dal primo, la vidi andare avanti e indietro, camminando sul fondo della classe vicino agli attaccapanni. Aveva lo sguardo a terra e sembrava parecchio concentrata, così, mi avvicinai a lei e le chiesi: "Cosa stai facendo qui da sola?".

Senza aspettare un attimo e, per la prima volta, con sicurezza impagabile mi disse: "Conto le mattonelle".

"Di tutta la classe?" mi sorpresi, io che di matematica non ero mai andata bene tanto che facevo fatica persino nel conto fino a dieci.

"Sì" si concentrò sul suo lavoro svolto fino a poco prima del mio arrivo, alternando i piedi dentro ogni mattonella e facendo attenzione a non pestare la riga che separava una dall'altra, come giocare a Campana.

La seguii per qualche secondo con lo sguardo, poi domandai: "E quante sono?".

Si fermò e, dandomi ancora le spalle, si mise a contare sulle dita: "Vediamo, sono una, due, tre, cinque, dieci, trenta, ottanta... cento, nove, mille" finì, alzando il decimo dito.

"Sei bravissima a contare!" esclamai, fidandomi ciecamente del resoconto. Ero davvero estasiata dalla sua capacità e lei lo fu per il complimento, così da quel momento un filo invisibile legò i nostri cuori, facendoci diventare amiche. Ovviamente più avanti capii che non potevano di certo essere mille le mattonelle della classe, ma Anna col passare del tempo diventò un vero genio in matematica, io invece avrei mantenuto la mia bravura nella media dello zero. Lei aveva molte sfaccettatura del suo carattere diverse rispetto alle mie, ma non ci era mai stato difficile andare d'accordo in tutti quegli anni mano a mano che imparavamo a conoscerci, persino dopo i cambiamenti che trasformano i bambini in adolescenti. Lei diventò una ragazza intelligente, ordinata, bella e con un eccezionale altruismo verso gli altri, ma ciò che la rendeva debole era la poca fiducia nelle sue capacità. Chi l'aveva però? Non era quello il problema, ma il non far nulla per nasconderlo, non crearsi una maschera per placarlo perché si lasciava troppo scoperta e ciò la rendeva vulnerabile. Era sempre stata etichettata come quella da prendere in giro nei primi anni di scuola, poi quella troppo silenziosa e strana e per finire buona, facilmente malleabile e verifica da cui copiare. Aveva collaborato al giudizio generale anche il modo in cui si vestiva con abiti di qualche taglia in più che nascondevano il corpo più che coprirlo, in più ci si mettevano quei capelli neri, leggermente ondulati sul fondo e lunghi fino quasi al didietro che permettevano di nascondere gli occhi dietro una frangetta spessa. Tale realtà spiegava il mio intenderla "invisibile" al mondo, ma io la conoscevo troppo bene per far valere a qualcosa quel giudizio, sapevo che le sue buone qualità erano più forti di quelle che voleva mostrare. All'inizio non riuscivo a fare nulla per aiutarla, mettendomi a piangere con lei quando aveva delle delusioni poi pensai di confortarla a parole, soprattutto nel periodo dell'inizio della Medie, pensai allora di sostenerla col conforto, poi facendo quattro chiacchiere animate con altri, per infine concludere i tre anni con qualche zuffa. Arrivavo a casa fiera di me nonostante qualche capello esportato dalla radice o schiaffo in faccia e la telefonata dei professori a mia madre, ma anche in quel modo non la avevo mai veramente sostenuta.

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