Capitolo 2

1K 110 125
                                    

Alessandro

<<Tu chi sei?>>
Il giovane che accompagnava Carla mi guardò come se gli suscitasse una gran pena essersi dimenticato di presentarsi. Riuscì a mormorare il proprio nome, poi indicò la macchina fotografica che gli ballonzolava sul petto. Con un vago gesto della mano, Carla mi fece cenno di non avanzare domande, quasi a sottolineare l'irrilevanza di Javier. Sarebbe stato come un soprammobile solamente per quella serata, mi comunicò con lo sguardo.
Sarei sembrato rincuorato, alleggerito dell'enorme incombenza di cenare con i miei genitori, se loro non avessero assunto uno sguardo distante e difensivo, come se fossero appena entrati degli invasori. C'era sempre un piccolo particolare in ognuno dei miei amici che lo qualificava come fuori posto ai loro occhi. Tutto veniva giudicato in termini di apparenza, e Riccardo fu il primo sfortunato bersaglio della loro incessante analisi. D'altronde, erano stati i loro impieghi lavorativi ad abituarli ad una capillare e sollecita osservazione, ma di questo Riccardo non sembrò minimamente accorgersi: appoggiò il cartone di pizza sul tavolo e prese a camminare con disinvoltura lungo il bancone della cucina, sprigionando un intenso odore di tabacco e facendo notare l'accendino arancione che, nel movimento, si affacciava dalla tasca come un luminoso distintivo. Sembrava sul punto di sfoderare un malriuscito complimento.
<<Con tutti i posti che hai visitato, mi aspettavo almeno una collezione di magneti sul frigorifero>> disse. <<Oppure un po' di sabbia del Marocco contenuta dentro una boccetta. Sai che spasso far credere a tutti che sia una nuova forma di droga colorata che viene dall'Arabia?>> Sentii i tacchi di mia madre colpire in uno scatto involontario la gamba del tavolo: la sua stabilità era vacillata un poco prima che si alzasse. Non era così alta come diede a vedere, ma era imperiosa e autorevole alla stessa maniera, sebbene ad una prima, veloce considerazione la scrupolosa cura con cui si spalmava il rossetto sulle labbra e si pinzava le onde bionde in una crocchia sulla nuca la facesse sembrare una donna mite e quieta. La ruga che le tagliava la fronte ora si era ispessita e, dietro gli occhiali, lo sguardo pareva infastidito e minaccioso. Se qualcuno avesse ribattuto, Riccardo si sarebbe profuso in un'aperta risata, ma nessuno lo fece, e sul suo volto calò una cappa di consapevolezza che lo fece tacere. Il suo sguardo era però ancora attraversato da una certa ironia, e mio padre, gli occhi furbi, li notava sempre.
Rientrò in cucina con la sua giacca rosso lacca, il viso affilato e la barba ordinata attorno alla bocca liscia e rosea, che curava con lo stesso amore con cui mia madre si dedicava alle proprie pellicce di visone. Non credevo riuscisse a parlare, con quella gola scorticata che doveva ritrovarsi dopo essersi affaticato in un lungo monologo munito di elaborate tesi che avrebbero dovuto suggestionarmi. Indicò il tavolo: <<Dovremmo sparecchiare. Porta i tuoi amici in salotto>> suggerì perentorio, economizzando il più possibile il dispendio di parole. Feci come mi chiese e percepii sulla pelle la fretta con cui chiuse la porta alle nostre spalle. Poco più tardi, lo sentii discutere con mia madre.
Fra gli altri dettagli che dovevano aver notato, c'erano sicuramente il vestito troppo corto di Carla e il bizzarro cilindro ottocentesco che Emanuele calcava in testa. Non meno degli altri, anche Maddalena, per i miei genitori, doveva possedere almeno una caratteristica biasimevole, ma, pur con un notevole sforzo, non mi venne alla mente alcuna ipotesi: era neutrale, ferma, asciutta, sempre immersa in una paccottiglia di pensieri tutti suoi. Non parlava molto e, quando lo faceva, si impegnava più che altro in risposte dirette e taglienti. Però si percepiva nell'aria la sua presenza: era un silenzioso giudice, una burattinaia che amministrava la scena, che decideva con lo sguardo chi dovesse muoversi, chi dovesse parlare.
<<È un panorama desolante>>, esordì Carla, <<trascorrere il proprio diciottesimo compleanno da soli.>> Si sedette sul divano del salotto e con un veloce sguardo valutò il mio umore. <<Ma sei felice almeno di vederci?>> Poi, rivolgendosi a Javier: <<Scattagli una foto e poi mostragliela, così vede con i suoi occhi quanto sembra depresso.>>
<<Sto bene.>>
<<A diciott'anni Mozart aveva certamente una vita più brillante: lavorava alla corte di Salisburgo>> fece notificare la propria presenza Emanuele.
<<A diciott'anni oggi si va a donne>> si intromise Riccardo, sfogliando senza leggere alcune riviste sopra il tavolo. <<Non ti sembra giunto il momento di fare qualche esperienza, Alessandro? Posso immetterti nel settore...>>
<<Sta' zitto>> lo rimbeccò Maddalena. Lei e Riccardo si guardarono con occhi molto eloquenti, un tacito dialogo che non riuscii a decifrare. Alla fine, sembrò che lui distogliesse lo sguardo con una sbuffata afflitta, il sorriso che, lentamente, si sfarinava.
Sul momento non successe nulla: Riccardo seguitò a guardarsi attorno con un'attenzione spulciante, un'ammirazione quasi idolatrica, accendendo la televisione, allontanandosi dai canali di cultura preimpostati, e chiedendo se le console di gioco sistemate lì accanto fossero di ultima generazione; Carla continuò ad invitarmi a sedere con loro, ma rimasi impettito vicino agli stipiti della porta, tentando costantemente di affettare imperturbabilità, ma spostando con frenetico disagio l'equilibrio da una gamba all'altra.
Emanuele teneva il mento alzato a guardare gli attestati di laurea e di specializzazione di mia madre incorniciati e appesi alle pareti. <<... in Medicina e Chirurgia... Università cattolica del Sacro Cuore... Roma...>> lesse assorto, poi si destò: <<Ma perché non Bologna? Il più antico centro del sapere occidentale... il regno della conoscenza che si tramanda da oltre novecento anni. Oh, novecento... sembrano molti, ma non in termini storici. Dev'essere quasi un ritiro spirituale studiare a Bologna: immaginatevi l'effetto poderoso che deve fare il suo ingresso... e sulle pareti i contorni scuri della Storia...>>
Tra il serio e il faceto, Riccardo rispose: <<Credo che abbiano un po' modernizzato la struttura, sai?>>
<<Ma l'atmosfera! È l'atmosfera! Quella permane!>>
<<E questo cos'è?>> domandò Riccardo.
<<Un orologio a pendolo astronomico.>>
<<E che diavolo c'è dentro?>>
<<Argento e ghisa. E un pendolo d'acciaio.>>
<<E questo?>>
<<Una barca a vela in cristallo. È un soprammobile che piace a mia madre. A me no.>>
<<Cazzo, ma sei ricco sfondato. E poi c'è un centrino per ogni aggeggio. Persino per il telecomando.>>
Lo squillo nervoso del telefono di casa ci fece trasalire. Mi avvicinai al mobile e sbirciai il numero. Sentii la gola strangolata dalla nausea: udire la voce all'altro capo della linea sarebbe stato come avere le orecchie pungolate da gelidi aghi. Non ero mai riuscito ad esprimermi attraverso una drammatica fisicità, ma in un angolo recondito della mia mente baluginò un'immagine di me mentre mi turavo le orecchie.
<<Che fai? Non rispondi?>> disse Carla.
<<No. Sarà sicuramente uno di quei falsi operatori che ti propongono di cambiare tariffa telefonica. Truffatori.>> Alzai l'apparecchio e feci cadere la linea. <<Ora usciamo>> proposi.
<<E le pizze?>>
<<Le mangeremo fuori.>>
<<Ma piove>> osservò Emanuele.
<<Non importa. Useremo gli ombrelli. Usciamo, però. Non volevate riempire la serata? È il mio compleanno, no?>> Il telefono squillò di nuovo. Lo tacitai un'altra volta.
Distinsi Maddalena sobbalzare, nell'atteggiamento di chi rialza di scatto il capo durante un attacco di sonno. Dal suo profilo filtrò una nitida perplessità. Poi si alzò e, con le mani insaccate nelle tasche della felpa nera, si diresse verso di me, guardandomi a lungo, la testa inclinata verso la spalla, come se volesse ripulirmi dalla sporcizia che le mie menzogne dovevano avermi recato in viso. I suoi occhi azzurri disegnarono una veloce traiettoria verso il telefono.
Sostenni il suo sguardo, impaziente che il mio corpo riprendesse la propria consistenza.
Lei annuì. <<Facciamo presto, allora.>>
<<Vado a sistemare gli appunti di greco e arrivo.>>
In un attimo, svoltai nel corridoio, illusi l'auditorio in salotto che stessi salendo le scale calpestando qualche gradino, ma subito ridiscesi. Mi appostai davanti alla camera di mio fratello. Neppure uno sforzo spaventoso mi avrebbe riempito del coraggio di allungare la testa e di dare un'occhiata al suo interno. L'aria però sembrava calma e pacata, riempita del frusciante riverbero di sussurri solitari e di sospiri melanconici –quasi lamenti- che producevano uno strofinio.
Quella sera, gli appunti di greco rimasero lì dove erano: sulla scrivania, abbandonati in anonimi fogli graffiati di inchiostro uno sopra l'altro. Alla fine uscimmo muovendoci alla spicciolata, verso il gorgo palpitante della luce dei lampioni di Monte Mario.
---------------------------------------
Feci scivolare il computer dritto davanti agli occhi di mio padre. Puntai il dito contro lo schermo. <<È questa l'Accademia di cui ti parlavo. A Modena.>>
La luce artificiale gli disegnò uno specchietto argentato sugli occhiali da vista. Mentre leggeva, teneva il mento alto, continuando a brandire il suo mandrino per anelli come una frusta. Quando riconobbe l'entità della mia ricerca, posò l'attrezzo sul rotolo di velluto con un sospiro, e prese ad avvoltolare tutto insieme con un senso di vaghezza. Un tintinnio pervase l'aria. Due bracciali tennis in oro e rubini caddero sul pavimento come rigidi serpentelli. Si chinò a raccoglierli. Poi mi prese il polso e lo studiò per un istante. <<Dov'è l'orologio che ti ho regalato?>>
<<È dentro lo zaino.>>
<<Dentro lo zaino? Infilato come una bottiglia d'acqua?>> Fece slittare la testa in avanti, lo sguardo rapace. <<È un Rolex. Quegli amici tuoi si farebbero amputare una gamba per averlo.>>
<<Ma non stavamo parlando di questo.>>
<<Va' subito a prendere quell'orologio.>>
Obbedii e, quando ritornai, mio padre avvicinò il Rolex alle lenti degli occhiali e passò con accurata premura le dita su ogni maglia. Poi lo depositò con delicatezza sul tavolo, come fosse un occhio di vetro. <<Bisogna lucidare lo schermo.>>
<<Vorrei studiare Scienze Strategiche. Così diventerò un ufficiale dopo la laurea.>>
<<Guarda questa nuova collezione di Arcadia. Che ne pensi di questi anelli a scudo? Li ho presi ieri da un fornitore di Arezzo. Belli, vero? Stanno iniziando ad avere più gusti del solito quei disegnatori lì.>>
<<Io non voglio diventare un grossista di oreficeria.>>
Mi squadrò in volto, sorpreso che non riuscissi a guardare con la sua stessa sconfinata venerazione i monili dalle curvature elaborate disposti su rotoli e carte veline sul tavolo. Aveva sempre cercato di introdurmi nel suo mestiere, impegnandosi a plasmare il mio gusto affinché fosse il quanto più possibile simile al suo. Non dovevo sfogliare le riviste americane di oreficeria che lui lasciava in alte pile sopra la scrivania del suo studio: la loro moda era arretrata e conservava ancora quell'aspetto volgare e pacchiano di quarant'anni fa. Sin da bambino ero stato educato come un discepolo–solitamente ogni sabato pomeriggio, il suo unico giorno libero durante la settimana- a riconoscere il vistoso contrasto tra quelle che lui chiamava <<le cafonate americane>> e la sobria e bianca bellezza dei suoi gioielli. D'altra parte, dovevo avere le mani giuste per toccare quelle eleganti rarità che adornavano le più raffinate vetrine delle gioiellerie di Roma: non dovevo impugnare con troppa forza la penna o provare a sollevare le buste della spesa, perché l'oro andava <<maneggiato con cura>>, con una presa morbida e con dita delicate. Non si infervorava mai quando ponevo obiezioni, quasi come se fosse concesso che un ragazzo della mia età contestasse le decisioni dei propri genitori in quei <<brevi periodi di indipendenza filiale che venivano solamente una volta nella vita>> e lui sapesse quale linea adottare per inforcare le mie ambizioni e sgretolarle senza ingaggiare spossanti battaglie familiari. Solamente tutto ciò che interferiva con il suo guadagno andava sistemato all'istante con rigore e tenacia, ma la causa di suo figlio poteva aspettare: sarebbe svanita da sé, credeva.
<<Non farmi ripetere cose già dette. Sai che odio essere barboso. Non hai argomenti più fantasiosi?>> disse senza guardarmi, soppesando alcune perle e annotandone il peso su un blocco d'appunti.
<<È il tuo continuo e sottaciuto dissenso che mi costringe ad essere monotono.>>
<<Tu non ti arruolerai, Alessandro.>>
Avevo vissuto l'attesa di quella risposta come un momento d'apnea. Ora sentii che ritornavo a galla boccheggiando, con un nuovo e angosciante senso di sconfitta. Era un dolore diverso dai precedenti, intriso di una spinta energica che non faceva affondare le mie speranze: era piuttosto un dolore rancoroso. Avevo il cuore a martello. Mi ero inoltrato nel folto, e ne uscivo senza vittorie né forze.
<<Cosa c'è che non va nell'Accademia Militare?>>
Ogni volta che mi accingevo ad insistere, a buttare fuori quelle parole, tutto mi sembrava inutile e insensato.
Sentendo di aver già parlato troppo, mio padre si abbandonò ad un lazzo: mimò una pistola che veniva caricata e, piegando l'indice ad uncino, un grilletto premuto.
<<È una scelta di vita di ampio respiro. La carriera di un ufficiale abbraccia tanti aspetti, non solo armeria, guerre e sangue.>>
<<Non mi sembra il caso di diventare un soldato di questi tempi. Non si sa come andrà ad autodistruggersi questo mondo. Non fomentare e anticipare la sua decadenza.>> Poi si inumidì la linea innevata dei baffi bevendo un sorso d'acqua, deciso a non lasciare che le mie parole lo portassero verso un'angoscia esistenziale. Stavo per uscire dalla stanza con il computer tra le mani, quando mi comunicò che mia madre aveva invitato a cena il primario del reparto oculistico del Gemelli con sua moglie e sua figlia.
<<Non che mi interessi. Sai che cosa penso dei dottori: tutti boriosi e superbi. Basta che guardi tua madre. Ma settimana prossima mi rivolgerò comunque ai Nardi con qualche parola di degnazione. Tu, piuttosto... ai Nardi piace la poesia.>>
Gli dissi che non stavo capendo.
<<Ripassa qualcosa su Leopardi.>>
<<Perché dovrei?>>
<<Tua madre vuole che tu entri in risonanza con i suoi ospiti d'onore.>>
Lei entrò in salotto appena la si nominò, le chiavi di casa che oscillavano ancora sulla piega del suo dito indice: in bilico sugli stiletti rossi, stretta nei suoi pantaloni elasticizzati e con la scura pelliccia di visone , si presentò alla soglia facendo schioccare, come un dardo, lo sguardo su di me. C'era una facciata quasi carnivora in lei, un durezza che le scontornava il volto. Teneva il cellulare appoggiato all'orecchio.
<<Perché ieri hai riattaccato alla nonna?>> Prima che potessi rispondere, distolse per un breve momento lo sguardo e si concentrò sulla voce metallica della nonna all'altro capo. Le borbottò un: <<No, mamma, non si vergogna di te. So io qual è il problema.>> E mise fine alla conversazione. Camminò verso di me dopo aver afferrato qualcosa sul mobile accanto alla porta. Fui travolto dalla raffica rabbiosa delle sue parole: <<Questo l'hai guardato? Oppure fai l'orecchio da mercante?>>
Davanti ai miei occhi volteggiò, stretto tra le dita di mia madre, un biglietto di volo diretto a Londra.
<<È un regalo di compleanno della nonna. L'Imperial College è una delle più prestigiose facoltà di medicina al mondo. Devi visitarla assolutamente. Ora richiamala e ringraziala.>> Mi passò il cellulare.
Disturbato dalla presenza della moglie, mio padre raccolse le proprie cose e, con un lamento trattenuto che gli increspò le labbra, decise di cambiare stanza, continuando a ripetere tra sé e sé quanto la possibile carriera medica mi avrebbe traviato. Lui e mia madre si scambiarono un'occhiata impregnata di acredine, lei sulla soglia della polemica, lui un poco spigoloso. I loro tentativi di dislocare la mia volontà, confinandola, come tra due binari, in un punto remoto affinché non si giustapponesse nell'intervallo delimitato dalle diverse vedute che avevano del mio futuro, rendevano la loro relazione inquinata.
Presi il cellulare. <<La chiamerò per pregarla di farsi rimborsare la spesa. Io non parto.>>
Lei mi guardò con la stessa perizia che utilizzava nel suo reparto, con la stessa freddezza di mente che la portava a stimare la speranza di vita dei pazienti. Immaginai, dal suo movimento del capo, che per me avesse diagnosticato una tremenda malattia degenerativa. Non era padrona dei suoi nervi e mi urlò contro.
<<Sei un bambino disgraziato che è d'impaccio.>> Lanciò la borsa sul divano e si sfilò con agitazione la pelliccia. Mi parlò mentre usciva dal soggiorno, la voce che sfumava in lontananza: <<Sei peggiore di tuo fratello. Almeno i suoi ritardi mentali sono giustificati.>>
Deprecai l'insensibilità delle sue parole. Mi augurai che, prima o poi, quella sera, mia madre venisse investita da uno strabordante desiderio di essere perdonata. Con scoramento, guardai il biglietto di volo che aveva lasciato sul tavolo: chissà se, in una situazione diversa, ad Edoardo sarebbe piaciuta almeno una delle due strade che i miei genitori avevano spianato per me. Magari, una delle due sarebbe stata la sua inclinazione dominante. Ma lui non era capace di dirlo, neppure con gli occhi: la sua sindrome di Angelman aveva sottoposto mia madre e mio padre ad un insostenibile sforzo di diventare genitori.
***********
Spazio autrice:
Come vedete, dietro la facciata di ragazzo distante e un po' altezzoso, c'è un ragazzo frustrato, il cui sogno viene ostacolato da quello che i genitori vorrebbero per lui. Su di lui, l'unico figlio "sano", vengono riposte alte aspettative.
I prossimi capitoli faranno il focus sulla vita degli altri tre personaggi, poi, invece, ci saranni più punti di vista in un unico capitolo. Vi comunico inoltre che pubblico quasi sempre una volta ogni tre giorni. Mi auguro che la storia vi interessi. Secondo voi, chi sarà il prossimo personaggio ad essere descritto?
Fatemi sapere cosa ne pensate del capitolo nei commenti e, se vi è piaciuto, votate!
Felice anno nuovo!

I cinque nomi di Roma Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora