Il 280

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"Bene, perfettamente in orario", pensò Giosuè guardando il suo orologio Casio.
Erano le ore 06:58, non un minuto in più né un minuto in meno. Non poteva arrivare tardi. Doveva incrociare i suoi occhi. Quegli occhi cadenti, all'ingiù, in un'eterna espressione di tristezza.
Premette il comando per aprire le portiere dell'autobus della linea 280 e fece salire le due persone in attesa alla fermata. Le osservò dal grande specchio retrovisore. C'era l'avvocatessa, con un cappotto grigio in feltro di lana, capelli tinti di bianco lunghi fin sotto alle spalle, valigetta ventiquattrore, in mano una brioche già morsa. E poi lui, capo cantiere, con le sue silenziose scarpe antinfortunistiche e la tuta blu. L'istante in cui sparirono dalla sua vista richiuse le portiere e ripartì.
Finalmente qualcosa nella sua vita andava per il verso giusto: era riuscito ad avere tutti i turni di mattina, all'alba, quando le strade sono vuote e poteva portare a termine la corsa in perfetto orario. Antonio, il suo collega, gli aveva chiesto di prendersi anche i suoi turni perché la moglie non poteva più accompagnare il bambino all'asilo. Giosuè fece finta di doverci pensare, non voleva si pensasse che Antonio gli avesse fatto un favore, anzi, il contrario.
"Senti, devo vedere un attimo" gli aveva detto.
Ma doveva vedere che cosa? A quarantadue anni era solo come un cane, abitava nella casa della povera Concetta, sua mamma, che non faceva passare nemmeno un giorno per ricordargli che doveva muovere quel culo e trovarsi una fidanzata. Lo aveva detto al padre, sì, glielo aveva detto che gli piacevano gli uomini. Sperava che fosse lui a dover affrontare sua moglie e i suoi rosari che incrociava tra le dita anche per andare dal panettiere. Ma il padre era morto, troppo presto, portando con sé, nella bara, il suo segreto. Erano passati dodici anni da allora e aveva tentato non una, ma ben due volte, ad entrare nella camera della mamma e dirle semplicemente: "Mamma sono frocio, e che cazzo".
Una volta c'era andato davvero vicino. Era accaduto quando in tv si parlava di un gay pride finito in tragedia: ragazzi e ragazze massacrati di botte. La mamma aveva commentato quasi con le lacrime agli occhi: "Che possono farci poverini, Dio li ha fatti così, non è colpa loro". Fu alla fine di quella frase che Giosuè, tremante e sudato, aprì la bocca per bisbigliarlo: "Mamma..."
Ma lei non sentì nemmeno di essere stata chiamata, era mezza sorda e quindi riprese la parola: "Però poverini anche i genitori. Pensa a tuo zio Franco... il figlio, pure lui è... beh, hai capito no! Quella cosa lì, fa le fetenzie con gli uomini. Sarebbe una delusione troppo grande, mi si spezzerebbe il cuore."
Dopo aver visto il brivido che correva lungo tutto il corpo della madre, il suo unico briciolo di coraggio venne spazzato via e dato in pasto ai pesci del Tevere.
In tutta la sua vita aveva amato solo tre uomini: suo nonno, suo padre e Marco. Questo era stato il suo primo e ultimo vero amore. Lo aveva conosciuto su una chat di incontri e si erano visti a Trastevere, in vicolo di Santa Margherita, in quel buco dell'unico bar friendly. Anche col navigatore avevano avuto difficoltà a trovarlo. Fortunatamente Marco abitava da solo e quindi nel dopo serata riuscirono ad avere anche un po' di intimità, e non ebbero bisogno del navigatore per cercare altri posti, ben più nascosti di quel bar.
Dopo essere ripartito dalla fermata dell'avvocatessa e del capo cantiere, aveva accelerato. Doveva arrivare almeno con tre minuti in anticipo a quella successiva, dove ci sarebbe stata la signora Immacolatina. Una vecchietta ingobbita di ottant'anni, i capelli grigi con sfumature gialle tenuti fermi da una molletta rossa, gonna monacale, maglioncino bianco – sempre lo stesso – e un bastone, forse del suo defunto marito. Lo si capiva dalla lunghezza – le arrivava al collo – e dal manico di bronzo a forma di testa di leone. Con cinque passi percorreva cinquanta centimetri e quando saliva sull'autobus, aggrappandosi all'asta di ferro, sembrava stesse scalando il monte Everest. Poteva vederla già da lontano. La gobba costringeva il suo busto ad essere chino, quasi in posizione orizzontale e la faccia ad essere rivolta sempre al pavimento. Era stata dal fruttivendolo e tra le dita sottili reggeva una busta di plastica con tre mandarini. Tutte le mattine li mangiava, tre esatti. Li sbucciava infilzando l'unghia appuntita dell'indice e accumulava i pezzi di buccia nel palmo della mano; i pezzi di buccia di tutti e tre i mandarini e non ne faceva cadere nemmeno uno. 
Ore 07:05, non un minuto in più, non un minuto in meno.
Il capolinea del 280 è Partigiani, dove Marco ogni mattina aspettava il suo autobus che lo portava a lavoro, il 719; partiva esattamente quattro minuti dopo l'arrivo dell'autobus di Giosuè. Quattro minuti che per lui erano preziosi come l'aria. Quattro minuti che gli permettevano di guardare quei folti capelli e quel ricciolo che Marco volontariamente portava sulla fronte e quelle labbra rosse che coprivano denti bianchi come la neve. Riusciva perfino a sentire il suo profumo agrumato.
Aprì le porte dell'autobus. Giosuè alzò gli occhi allo specchio e vide la vecchietta muovere i primi passi, poi guardò l'orologio contando i tre minuti che separavano Immacolatina dal sedile del mezzo. La vecchia poggiò il bastone all'interno del veicolo, allungò il braccio con la lentezza di un bradipo e impugnò l'asta di ferro per scalare il monte. Impiegò sessantatré secondi per mettere un piede all'interno del veicolo. Fece un enorme sforzo per sollevarsi, lo si poteva vedere da come aveva stretto le gengive; di denti ormai non ne aveva più.
In quell'istante, un susseguirsi di eventi stravolsero totalmente la vita di Giosuè.
La busta, che la vecchietta teneva nella stessa mano con cui si era aggrappata all'asta, si ruppe e ne fuoriuscirono i tre mandarini che rotolarono, uno sul pavimento dell'autobus e gli altri due sull'asfalto della strada. Giosuè fu invaso da un improvviso e insopportabile prurito e le orecchie gli diventarono rosse. Cominciava ad avere caldo.
"Cazzo!" esclamò Giosuè, guardandosi intorno per accertarsi che nessuno l'avesse sentito.
Le 7 e 7 minuti. Sperò che la signora Immacolatina salisse e lasciasse i mandarini lì dove erano finiti, ma non lo fece. Il piede che aveva poggiato sul veicolo lo riportò sull'asfalto.
"Aspetta" urlò la vecchietta a Giosuè.
Fortunatamente il capo cantiere scese dall'autobus per darle una mano.
"Signora, stia tranquilla. Ci penso io."
07:08. Una gocciolina di sudore bagnò la fronte di Giosuè. A quell'ora avrebbe dovuto richiudere le porte e ripartire per andare alla fermata successiva, Lungotevere Marzio, e far salire i due strambi studenti del liceo artistico di via di Ripetta. Tutti i giorni spaccava il secondo e seduto nel suo autobus ammirava un meraviglioso paesaggio, quel miracolo che era Marco. Il giorno precedente aveva notato che il piede destro di Marco sporgeva leggermente all'infuori e questa cosa gli aveva sciolto il cuore. Marco non si era mai girato a guardarlo, se non una volta e forse per sbaglio. A Giosuè sembrò quasi che i loro occhi si fossero incrociati; un fuoco si era impadronito di lui e iniziò a tremare e a grattarsi forte per far sparire quel fastidioso prurito. "Dermatite da stress" era stata la diagnosi.
Il capo cantiere raccolse i due mandarini e li diede alla signora Immacolatina che li strinse forte nella sua mano. Si fece aiutare a salire e prese posto, non prima di aver chiesto, sempre al capo cantiere se avesse visto il terzo mandarino.
"Dovrebbe essere sotto il sedile di quella signora. Eccolo, sì sì, che uomo gentile. Grazie!"
Nel frattempo, Giosuè aveva chiuso le porte. Erano le ore 7 e 11 quando ripartì.
"Cazzo!" esclamò di nuovo.
Il semaforo nelle immediate vicinanze della fermata segnalò luce rossa. Spostò lo sguardo sul semaforo dei pedoni, in attesa che diventasse giallo.
Giosuè aveva portato Marco a casa, presentandolo alla mamma come un amico. La signora era quasi contenta, "Finalmente Giosuè si è aperto e vuole farmi conoscere un po' della sua vita" aveva pensato. Preparò un pranzo come non lo preparava da anni, almeno da quando era morto il marito. Carciofi alla Giudìa, polenta con le spuntature, vino, amaro e addirittura le ciambelline all'anice. Fu un pranzo felice e la mamma trattò Marco come uno di famiglia.
La loro relazione terminò qualche giorno dopo. Era stato Marco a voler troncare e smisero di vedersi. Giosuè non riusciva a farsene una ragione, anche se Marco aveva provato a spiegargliela. "Non posso cominciare un'altra battaglia contro la tua non accettazione" gli aveva detto Marco, "Ho impiegato trentatré anni per essere libero e non posso rinchiudermi nella tua prigione." Per Giosuè fu un fulmine a ciel sereno e non riuscì a dire nemmeno una parola, non dopo aver creduto di aver fatto un atto di estremo coraggio portandolo a casa, al cospetto di sua madre.
Prese il cellulare e scrisse un messaggio; ne scriveva uno al giorno, così nessuno avrebbe potuto accusarlo di molestie. "Mi manchi." Premette invio.
Il semaforo dei pedoni si illuminò di giallo. Era tardissimo e per colpa della signora Immacolatina non ce l'avrebbe mai fatta a recuperare quei minuti persi; e come se non bastasse, aveva perso anche l'onda verde. In quell'istante vide un uomo correre sulle strisce pedonali, sbracciando in direzione di Giosuè.
"E' impazzito?" pensò, "Non vorrà mica salire?". L'uomo arrivò alla porta dell'autobus, guardò l'autista e bussò al vetro. Il semaforo dei pedoni si illuminò di rosso. Giosuè lo guardò. Trent'anni, pelato, alto almeno un metro e ottanta, occhi scuri, robusto... molto robusto. Fuori era novembre, ma lui indossava una maglietta bianca a mezze maniche, le braccia tatuate. Distolse lo sguardo, cercando di fingere di non averlo visto. L'uomo bussò di nuovo al vetro, questa volta più forte. Giosuè, senza voltarsi fece segno di no con il dito indice. Spinse il piede sulla frizione, era verde, doveva ripartire.
"Aò mi apri?" gli disse l'uomo.
Fece di nuovo segno di no.
Stava ripartendo, quando qualcuno nell'autobus disse: "Apri, altrimenti questo ti sfonda la porta."
Giosuè vide che l'uomo stava cercando di infilare le mani all'interno delle due ante della porta, cercando di forzarle.
"Non posso aprire, aspetta il prossimo" gli disse Giosuè.
"Apri, o sfondo tutto" minacciò l'uomo.
Giosuè stava sudando, e il prurito che era quasi scomparso, tornò più forte che mai; la faccia paonazza.
"E apri" gli urlarono dall'interno.
L'uomo diede un pugno fortissimo al vetro dell'autobus e Giosuè vide una crepa. Le gambe cominciarono a tremargli così forte che non riusciva ad accelerare, il piede sinistro si era inchiodato sulla frizione. Si trovò incastrato tra la sua immobilità e l'ira del pazzo criminale che stava sfondando il vetro.
Aprì le porte.
L'uomo rimase fermo per alcuni secondi, guardando fisso negli occhi Giosuè; poi salì.
"Lei è uno scostumato, non può salire!" disse all'uomo.
Non poteva farsi sopraffare dalla violenza di quel tizio, non poteva essere ancora una volta la vittima. Ormai era grande e grosso... anche se il coraggio di dirlo alla mamma proprio non l'aveva.
L'uomo gli sferrò un pugno sul naso, dritto al centro degli occhi. Sentì un crack e vide le stelle.
"Che sei coglione? Ma vaffanculo!"
Un altro pugno, anzi, una scarica di pugni. Tutti sulla faccia. Gli colpì prima lo zigomo destro, poi il sinistro. Mirò alla testa, alle tempie. Giosuè accusava e sentiva che stava per perdere i sensi. Chiazze di sangue si sparsero sulla sua divisa. Erano di un rosso intenso, come il sugo che aveva preparato la mamma, quello con le spuntature da mettere sulla polenta. Lo aveva preparato per Marco.
La vista gli si offuscò, c'erano solo ombre scure. La scarica di pugni terminò e riuscì a respirare, a racimolare un po' di aria con un rantolo. Un po' di ombre sparirono e vide l'uomo muscoloso disteso a terra, c'era altro sangue. Giosuè non riuscì a capire se fosse il suo o del tizio. L'uomo era immobile, come morto.
"Giovanotto stai bene?"
"Chissà se Marco ha letto il messaggio", pensò. Non aveva avuto modo di vedere se le due spunte di WhatsApp fossero diventate blu. Marco non rispondeva mai ai messaggi, ma li leggeva tutti. La sola immagine del suo volto illuminato dal display gli dava un briciolo di speranza. Ti amo Marco!
"We giovanotto, stai bene? Ti serve un medico?"
Giosuè riuscì finalmente a vedere chi avesse parlato. Sentiva un forte odore di mandarini. Era Immacolatina, la vecchietta gobba.
"Ma che voleva quello? Lo conoscevi?"
Reggeva il bastone nella mano destra e notò che la testa di leone, una volta di color bronzo, era diventata rossa: rosso sangue.
"Ti voleva ammazzare" gli disse battendo le gengive.
Giosuè guardò dietro la vecchietta e vide le facce sconvolte dei passeggeri. Erano le 7 e 23. Troppo tardi. Giosuè sentì un vuoto allo stomaco. Quel giorno non l'avrebbe visto.
Il cellulare nella tasca di Giosuè vibrò. Lo prese e il cuore cominciò a battere più forte di quanto già non battesse. Era un messaggio di Marco.
"Per colpa tua oggi faccio tardi a lavoro. Non ti ho visto arrivare e non potevo mica salire sul mio autobus senza guardare la tua faccia buffa?! Mi manchi tanto anche tu. Ti sto aspettando."

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