Una storia

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Il corpicino di Jessica veniva trasportato nella barella, e i volontari del pronto soccorso già dicevano che la ragazza aveva un trauma cerebrale. Cercavano di rianimarla, ma sembrava morta... Io la guardavo, e pareva non reagire minimamente agli interventi delle persone; decisero di portarla al pronto soccorso il prima possibile. Mi voltai verso Aaron, che mi aveva raggiunto.

<<Non posso andarmene>>, dichiarai <<ha bisogno di me. Voleva fare la dura, ma è troppo fragile. Ed io non posso permettere che accada tutto questo. Lei non può morire! >>, esclamai quasi con le lacrime agli occhi. In fondo, era colpa mia se si trovava in bilico tra la morte e la vita,  ed era una grande responsabilità. Forse, più grande di me.

Mi diede una pacca sulla spalla <<A quanto pare, noi esseri umani ci rendiamo conto sempre troppo tardi dell'importanza di una persona>>, disse <<forse prima ho esagerato. D'altronde, veniva anche pagata per i giochetti che mi faceva... La prostituta che si faceva chiamare amore. E pensare che volevo ridurti in polvere solo per questo>>, mi consolò facendomi morire in un abbraccio.

<<Ora ci sarebbe bisogno di un miracolo... chi ha il coraggio di dirlo alla zia?>>, pensai a voce alta. Era la persona più vicina a lei.

Appena pronunciai quelle parole, la porta si spalancò mostrando le forme di zio Jack e della donna appena pronunciata. Erano allarmati, visibilmente preoccupati per la povera ragazza che giaceva sul piccolo lettino, dove veniva trasportata verso l'ambulanza. Alexandra fermò un volontario chiedendogli cosa fosse successo. Le disse solo una parola. Trauma. La donna distrutta, si accovacciò a terra scoppiando in un pianto disperato. Zio cercò di consolarla come meglio poteva attraverso una carezza o qualche frase di conforto, mentre il suono dell'ambulanza si propagò per le vie di Los Angeles. Senza pensarci mezza volta, presi le chiavi dell'auto avviandomi verso la porta, ma il braccio di mio zio mi fermò poco prima dell'uscita, chiedendomi spiegazioni torvo. <<Scusami, ma non c'è tempo per le spiegazioni>>, tagliai corto spostando il suo corpo di lato. Non si oppose più di tanto perché Alexandra voleva a tutti i costi seguire l'autolettiga, come mio cugino d'altronde. Andammo tutti in una macchina partendo a tutto gas. La vita della persona più importante della mia vita era appesa a un filo, ed io avevo appena scopato con un'altra. Mi facevo schifo da solo.

Un medico pronunciò il cognome <<Albert?>>, e a sua zia per poco non le veniva un colpo dallo spavento. Eravamo immobili come statue da ormai qualche ora. Ne avevo perso il conto, ormai. <<Sua figlia si è ripresa. Più o meno. A causa della forte caduta, ha subìto un trauma cranico moderato, ma non grave. Vi consiglio di venire a trovarla domattina, dato che ora  è in coma farmacologico. Poteva avere anche quello naturale, ma è più richioso e non si sarebbe saputo quando si fosse svegliata. Ora è incerto, e preparatevi. Ha subìto diverse lesioni alla testa in differenti zone>>, ci informò con un'invisibile preoccupazione. Era un medico, d'altronde era abituato ad assistere a scene del genere.

<<Posso vederla attraverso lo specchio? La prego>>, chiese Alexandra. Vedeva il suo viso particolarmente disperato, e accettò senza troppi giri di parole.

Eravamo di fronte al vetro, il corpo della ragazza era irriconoscibile dalla quantità di tubi che le attraversavano il corpo. Ebbi una morsa al cuore appena realizzai che si trovava così solo per colpa mia; sua zia appoggiò una mano sulla parete  trasparente. La guardava sconsolata, senza proferire parola o accennare qualche cedimento fisico, come il far versare una lacrima. Era immobile. Vuota. Assente. Forse, non aveva mai vissuto una situazione del genere, oppure era talmente scioccata da non rendersene ancora conto. Il medico ci lasciò soli, eravamo come statue. Forse, non volevamo interrompere il momento di Alexandra oppure, volevamo solo raccogliere il nostro dolore. <<Sapete, lei è così forte. Mio fratello diceva sempre che è una leonessa, e io gli credo. E' stata davvero molto male quando ci ha lasciate, ma si è data da fare sorridendomi, dicendo che andava tutto bene, anche se mi era crollato il mondo addosso. La famiglia Albert è stata sempre... sfortunata? Sì. Probabilmente è così>>, ruppe il ghiaccio sconsolata.

<<Forse, parlarne ti farà star meglio>>, le consigliò zio. Annuì come un robot prima di aprire bocca.

<<Avevo un marito. Era molto amorevole all'inizio, mi regalava rose, mi portava spesso a cena fuori e non mi faceva mai mancare nulla. Poi, un giorno, il destino ha deciso di cambiare le carte in tavola. Ero incinta, avevo fatto il test e quando glielo comunicai, iniziò a dare di matto. Il suo umore cambiava radicalmente, dalla felicità assoluta alla rabbia più pura senza un particolare motivo. Passai così i primi cinque mesi, la gravidanza stava andando piuttosto bene, anche se lo stress e la tensione erano all'ordine del giorno, e lui mi riempiva di insulti dandomi della grassa buona a nulla. Diverse volte mi aveva schiaffeggiata, ma quel giorno fu particolarmente brutale>>, fece una pausa per riprendere fiato. Ricordare, di certo non la faceva sentire meglio <<ero al settimo mese di gravidanza. Purtroppo, non lavoravo più per via dello stato avanzato, e lui iniziava ad ubriacarsi. Un giorno, uno qualsiasi, decise di violentarmi. Così, come se fosse normale, ma per me non lo era affatto e cercavo di allontanarlo scappando dalle sue grinfie>>, serrò le labbra, i suoi occhi si umidirono e qualche lacrima le scese dalla guancia <<prese un ferro. Mi prese a mazzate, colpendo diverse volte la pancia>>, finì con tono smorzato iniziando a piangere disperatamente. <<Jessica per me è come una figlia, sua madre l'ha partorita dopo qualche mese dalla perdita del mio Steven, ed ero spesso a casa loro. Non voglio che se ne vada anche lei. Non potrei sopportarlo>>.

Il sangue mi ribollì dalla rabbia per l'azione che aveva commesso quell'uomo e di certo, non poteva definirsi tale per il comportamento merdoso avuto. Mi vergognavo. Strinsi forte i pugni facendo colorare le nocche di un bianco lattaceo, avrei voluto darne uno in faccia a quello... oppure a me, perché a causa del mio ragionamento contorto, lei stava morendo per mano mia. Per il mio egoismo. Quando si sarebbe svegliata, chissà che potrebbe succedere. Sicuramente di tutto. Dopo dieci lunghi, interminabili minuti, venne un ragazzo alle nostre spalle. Sembrava sconcertato.

<<Salve. Sono Shawn>>, si presentò <<ho passato la serata con lei, ho appena saputo del suo incidente>>, sembrava sconcertato. Poi, appena incrociò il mio sguardo, sembrò congelarsi.

<<Grazie per essere venuto>>, mormorò Aaron.

<<Io ringrazio voi per avermi dato l'opportunità di essere con voi. Come sta?>>, chiese avvicinandosi al vetro.

<<Non lo vedi? E' in coma, idiota!>>, sputai pieno di collera.

<<Certo... è evidente>>, sussurrò guardando di fronte a lui.

<<E' per colpa tua se lei ora sta così. Perché le hai confuso le idee? Perché sei ancora presente nella sua vita nonostante ti abbia cacciato?!>>, chiesi urlando. Sembrò spaventato dalla mia reazione.

<<Credo che lei meriti di meglio. Non vedi la sua vita com'è? Un uragano. E io, voglio tenerla accanto a me, prendendomi cura di lei>>, si giustificò a petto gonfio. Lo odiavo, e se avrei potuto, l'avrei ridotto a brandelli. La mano di mio zio mi toccò la spalla.

<<Justin. Finiscila>>, pronunciò severo.

<<Sì>>, bofonchiai fulminando Shawn con lo sguardo.

<<La colpa non è di nessuno. Finitela tutti! Anzi, andatevene. Lasciatemi sola con mia nipote>>, sibilò Alexandra appoggiando entrambe le mani allo specchio. Silenzioso, lasciai l'ospedale, dirigendomi in auto. Aaron e Shawn mi seguirono dopo un po'.

E ora che volevano?

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