Capitolo 9

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Emanuele

Scesi dalla metro guardando basso per fuggire dagli sguardi dei passeggeri che, ancora ammassati lì dentro come pillole dentro una boccetta, premevano svogliati le teste contro i finestrini. Tutti camminavano o correvano sui marciapiedi in maniera superba e prepotente, chiedendo spazio, e io li accontentavo facendomi da parte quando i miei occhi catturavano un piede che si avvicinava a passo sbrigativo. In una Roma fremente e brulicante di vita, mi sentivo solo. Nell'energia cittadina che non mi sfiorava, io assaporavo la mia solitudine.

Solo et pensoso i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti...

Risuonando silenziosa nella mia mente, era una delle poesie più umane che avessi mai letto. Petrarca cercava la fama e il riconoscimento nella solitudine. Di questo paradosso ne aveva parlato il mio professore durante una lezione di storia della poesia, ma vedevo che per lui le parole assumevano i tratti di una spiegazione, non di una rivelazione. Ci parlava di Petrarca perché doveva farlo, ma preferiva Dante, quindi non gesticolava come era solito, non camminava in maniera forsennata, non aveva alcun lume di esaltazione negli occhi durante la recitazione.
Io però preferivo Petrarca, senza alcuna ombra di dubbio. E non riuscivo a capacitarmi di come solo pochissimi –quasi persone elette- concordassero con i miei gusti. Il dissidio che lo dilaniava era anche il mio. Mi pareva scrivesse anche di me ai suoi tempi, di un'anima di cui neppure la futura esistenza era stata tratteggiata in un qualche libro del destino, ma Petrarca doveva avermi predetto in un certo senso. Come lui, sentivo un piede nel passato e uno nel presente, e nessuno dei due tempi, tirando in un gioco alla fune, riusciva a farmi perdere lo strambo equilibrio. Rimanevo fermo e in conflitto. Come lui, volevo essere visto, ma senza essere del tutto notato: avrei voluto che gli altri registrassero la mia presenza e la commentassero con ammirazione e piacere, ma dovevano lasciarmi solitario e in disparte affinché io fiorissi.
Per la strada si chiedevano chi fossi e dove andassi con quel cappello, se fossi un musicista pazzo o un delinquente con quel pastrano nero d'altri tempi, ma nessuno davvero si avvicinava ad una plausibile descrizione. Servivano occhi saggi che si elevavano a visioni profonde.
Oltre un tappeto di macchine parcheggiate, i contorni del palazzetto risultavano sfumati nella sera. Un turbinio di gente si accalcava davanti all'entrata, fumando e ridendo, andando e tornando, come una corrida di formiche nervose e impazzite prodotte in serie. Tastai dentro la mia valigetta alla ricerca dell'inalatore.
Avevo sotto l'altro braccio una piccola pila di libri rilegati in pelle e un taccuino, che qualcuno, urtandomi, mi fece cadere.
<<Ah, Manfredi. Se arrivi così fornito qualcuno penserà che ti abbiano pagato come arbitro corrotto. Ma qui dentro hai solo poesiole, non calcoli e statistiche.>>
Alzai lo sguardo. Era Riccardo, che soppesava tra le mani uno dei miei libri. Ne sfogliava alcune pagine, annuendo con fare assorto. Poi lo mostrò a Maddalena, dietro di lui. Le chiese se le piacessero poesie del genere. Quando lei annuì, lui scrollò le spalle sospirando.
Salimmo sugli spalti e rimanemmo ad aspettare con le mani infreddolite strette tra le cosce, osservando i bagliori scuri che trasparivano dai finestroni in alto e andavano affievolendosi. Carla arrivò poco più tardi, guardandosi attorno, impaziente. Allungò la propria borsa a Maddalena e si ravvivò i ricci.
<<Secondo te, può essere qui?>> domandò con voce strozzata.
<<Chi?>>
<<Gianmarco.>>
Riccardo uggiolò. Maddalena le rispose che si trattava di una competizione di scherma e che lui non avrebbe potuto esserci.
<<Lo so bene. Ma anche in questo palazzetto lui si è allenato a pallavolo molte volte. Magari chi si interessa a uno sport, si interessa a tutti.>>
<<Come un lottatore di sumo che scommette a golf>> replicò Riccardo.
Carla lo ignorò. <<Ho come l'impressione di incontrarlo. Ho anche messo l'ombretto nuovo. E la matita anche. Natasha si trucca sempre così nelle occasioni importanti.>>
Riccardo si sporse per guardarla in viso. <<Ma è verde. Tu hai gli occhi scuri. Non ti può stare bene.>> E continuarono a dibattere a lungo con la mediazione pacifica di Maddalena fino a che le luci non calarono sulla pista, lasciando la platea nella penombra. Gettai uno sguardo a Carla: sospirava lentamente, monotona, senza afflato. Talvolta tirava fuori dalla borsa un piccolo specchietto e vi esaminava la propria immagine riflessa. Vestiva in maniera unica e originale, con la sua giacca di camoscio, la gonna lunga e i camperos alti, ma aveva in viso un non so che di strutturato e conosciuto, che la rendeva diversa da ciò che realmente poteva essere. Quello che era un presentimento divenne conferma poco dopo: voleva essere un paragone di successo, una di quelle immagini stereotipate e imperanti per le strade sui cartelloni pubblicitari, con lo stesso tipo di trucco, con lo stesso tipo di falsificazione.
Sentii di dover intervenire. Mi allungai verso di lei. Il mio cappello le sfiorò il naso facendola sussultare e ridere.
<<Sii una donna da poesia. So che è la cima delle tue ambizioni. Ti faccio vedere come fare>> le dissi. Le toccai una guancia solcandola con il dito. Ciò che mi rimase sul polpastrello fu un denso velo di unto. Dopodiché tentai di toccarle la palpebra.
<<No, fermo lì>> ribatté inacidita. <<Quale donna da poesia? Io son donna di mondo. Una musa non posso proprio esserlo.>>
<<Ti sbagli! Vedi... non ce l'ho qui... questo è Petrarca, poi c'è Boccaccio... Tasso...>> Aprii i miei libri sfogliandoli convulsamente. <<Ma qui da qualche parte c'è Shakespeare. Ah, Guglielmo Scuotilancia! Sai che qualcuno suppone che la sua famiglia fosse in realtà italiana emigrata in Inghilterra? Tu proprio saresti stata la sua mystress. Eccolo, il sonetto centotrenta. Guarda come stravolge i canoni.>>
Scosse la testa e mi chiuse il libro attorno al dito. <<Non fare come Alberto! Non cercare di farmi annegare nel tuo universo di cultura. Io non sono fatta per questa roba qui, Emanuele.>>
Annuii. Finché avesse fondato la sua morale e la sua ottica del mondo e di se stessa sull'estetica, il suo cambiamento e il suo appagamento avrebbero tardato ad attuarsi.
<<Prima hanno cantato l'inno d'Italia>> mi disse Riccardo con scherno. <<Dovevi vedere come stava Alessandro: diritto e fiero. Che ci vuoi fare? È un soldato.>>
Teneva in mano il fioretto e lo accarezzava con i guanti, avvolto nella giubba e nei pantaloni bianchi, Alessandro. Facendo avanti e indietro per la pista, scoccando fendenti in aria, i suoi tratti apparivano agghiacciati e tesi. Un uomo gli veniva dietro, probabilmente il suo maestro e, posandogli una mano sulla spalla, gli si rivolgeva con tono appassionato: lo stava incoraggiando, ma quel bel fiorettista non sorrideva, né annuiva. Teneva le labbra dischiuse e talvolta portava pollice e indice congiunti sopra il naso e poi si spianava le sopracciglia, e scendeva con le stesse dita a disegnare il contorno di tutto il viso, per poi tornare a toccarsi la punta del naso, in una primordiale concentrazione. Sembrava un Alessandro di cui avevo già sentito parlare: Alessandro Magno, lungimirante e belligerante davanti al campo di Gaugamela. Poi improvvisamente lo vidi parlare piantandosi le mani sui fianchi.
<<Chissà che starà dicendo...>> feci, ma era più un pensiero tra me e me espresso ad alta voce.
<<Sta dicendo al suo maestro che è un'occasione per mostrare ai suoi genitori il valore che ha nei combattimenti, e che questi sono confronti armonici e leali>> replicò Maddalena. <<Vuole mettere a tacere le loro opposizioni.>>
<<E tu come fai a sentirlo da qui?>> La voce di Carla svettò di un'ottava.
Maddalena sembrò risucchiarsi il respiro. Si strinse nelle spalle. <<Io... io lo suppongo e basta. Lo conosco Alessandro. Immagino che dica così, no?>> E poi cercò affannosamente la propria bottiglietta d'acqua dentro lo zaino.
Quelle parole mi fecero tremare perché avvertivo i primi cenni di una profondità inaudita. Era marmoreo e attorno a lui c'era il vuoto, come se vivesse in un etere astrale. Una volta Maddalena, in circostanze che non ricordavo, aveva detto che lui era irraggiungibile e che pulsava lontano come una stella che appare e scompare, costantemente. Quando trascorreva del tempo con noi, i suoi amici, era sempre serio, equilibrato e compiacente, ma ora lo vedevo scomporsi e sgelarsi, urlando di avere un obiettivo da raggiungere con furore e incandescenza: questa era l'altra parte di Alessandro! La scoperta mi affascinò e mi fece frizzare tutti i pori.
Alessandro si avviò verso la pista con prontezza e slancio. Si calò la maschera retata sul viso e subito mi sembrò la sagoma di d'Artagnan saltata fuori dal romanzo di Dumas. Si esprimeva in complicati fendenti, finte, affondi e flèche, piegandosi e ritirandosi, come una molla bianca. Scattava sulle gambe lunghe procedendo sul tappetino grigio a volte come un militare, a volte quasi danzando, e mai avevano tremolii le sue ginocchia. Quando segnava un punto esultava senza urlare, con un leggero movimento del braccio e una rapida chiusura del pugno. Quando veniva toccato, rimaneva fermo e mai dava all'avversario la possibilità di toccarlo una seconda volta di fila.
Più volte Riccardo discese verso le transenne urlando con impeto in direzione dell'amico e gesticolando animatamente, ma veniva allontanato dalle guardie e dagli addetti all'ordine. Dagli spalti, gli Altieri lo guardavano con avversità, con aspro distacco dal mondo. Neppure gli esulti del figlio li rendevano meno austeri e superbi.
Alessandro vinse abbastanza, quella sera, contro molti avversari, ma non tanto quanto avrebbe dovuto per aggiudicarsi la medaglia d'oro. Con i guanti tra le mani e un piglio cimiteriale, quasi si fosse trafitto con il suo stesso fioretto, salì, deluso e amareggiato, sul secondo gradino del podio: certo in alto, ma sempre un poco più in basso di un altro vittorioso. Vedevo passare sul suo viso miriadi di emozioni umane, miriadi di tribolazioni e sofferenze, che pitturavano il suo sguardo di abbattimento e rabbia. Era un Achille abbattuto, un vulcano in stato di quiescenza. Quando guardava la medaglia di cui doveva accontentarsi e della quale non era avvezzo, -lui che primeggiava negli scontri-, serrava la mascella e sembrava sempre in procinto di scagliarla contro il pavimento in un oscuro istinto animale. Inoltre, l'argento non gli donava, tutto di lui emanava oro: capigliatura, posa ieratica, compostezza, voce pacata e nobile.
Terminata la premiazione, sotto una musica troppo alta che sfrigolava dalle casse del palazzetto, genitori e amici di vincitori e di perdenti si riversarono dabbasso, chi gongolando parole di trionfo, chi mormorando frasi di conforto. Ma da Alessandro non andò nessuno, né lui aspettò alcuno. Gli Altieri rimanevano lì seduti, distanti da tutti, abbottonati. Non vedevo bene da lontano, ma mi pareva quasi sorridessero.
Alessandro corse negli spogliatoi grattando il pavimento con il fioretto.
Fu Maddalena a seguirlo correndo, e poi vennero Riccardo e Carla e infine anche io. Maddalena si trasse indietro davanti agli spogliatoi maschili con sconforto. Stringeva le mani in grembo, torcendosi le dita e stuzzicandosi le unghie fino a sfaldarsele. Con gli occhi turchesi tristi, si allontanò assieme a Carla.
<<Vedi come fate voi viziati? Siete sempre abituati a vincere, a vincere, a tagliare il traguardo per primi e a sbarrare la strada agli altri partecipanti.>> Riccardo prese tra le mani il fioretto che Alessandro aveva lasciato poggiato sulla panca e ne sfiorò la lama. <<Non vuoi quella medaglia? Dalla a me. Vedila come tra i banchi di scuola: il secondo posto è come un nove.>>
<<Ma non è un dieci.>> Alessandro si sfilò la giubba con veemenza e aggressività.
<<Io non rientro neppure nei canoni della sufficienza. E tu ti lamenti per non aver raggiunto una vittoria piena.>>
<<Perché tu non ambisci! Ti accontenti dell'indispensabile. Forse anche del necessario. Ma non ti accaparri mai quello che vuoi veramente. Quelle che vuoi tu e che nessuno ti offre.>>
<<Perché quello che io voglio realmente già appartiene a te.>>
Si guardarono in cagnesco, scambiandosi tacite occhiate piene di misteri, parole non dette, discorsi incomprensibili. Quelle parole accesero un enigma. Anziché continuare a detergersi il sudore, Alessandro si fermò, a petto nudo, a fissarlo. Sembrava l'Apoxyòmenos di Lisippo. Inclinò la testa sulla spalla, sbattendo velocemente le palpebre, confuso.
<<A che ti riferisci?>>
<<A nulla.>>
<<Dimmelo.>>
<<No>> sentenziò Riccardo, e se ne andò. Quando sparì, Alessandro stava per mormorare delle scuse che morirono, strozzate in gola: il velo scuro e adirato di poco prima che gli pendeva sul volto era stato sostituito da una fronte un po' più spianata e da un'espressione rammaricata.
Spesso feci il tentativo di entrare, ma ogni volta che avanzavo di un passo, ecco che subito mi veniva da ritrarlo. La prudenza e il timore dell'ignoto mi rendevano vergognosamente vile. Tutto il mio essere era però pervaso dalla volontà di raggiungerlo, quindi riuscii a farlo. Entrando, mi tolsi il cappello come si faceva nei luoghi di culto.
<<Io ti ho mirato a lungo oggi.>>
<<Tu guardi sempre molto a lungo le persone, Emanuele.>>
<<Ma ho un naso particolarmente fine per le persone speciali. Speciali e anche sciocche. Ebbene, avrei potuto approfittare di questo tuo momento di immenso pathos per parlarti, per interrogarti, per indurti a delle riflessioni di cui tu sei capace, perché nella stasi non parli molto, hai bisogno dello stimolo dei sentimenti. Ma consentimi di prendere un minuto per dirti quanto sei sciocco.>> Mi fermai per prendere il respiro.
<<Continua, ti mancano ancora quaranta secondi>> disse, mentre si rivestiva.
<<Ah, meglio di no>>, feci, <<alle tue estreme manifestazioni di patologie umane vi pongo mente fino ad un certo punto.>> Congiunsi le mani dietro la schiena e presi a camminare attorno a lui, a passi lenti. <<Vedi, non dovresti fare così. Oggi ho cavato più del solito il desiderio di essere come te.>>
<<Perché dovresti?>>
<<Come perché!>> Lo colpii con il cilindro.
<<Ti ho chiesto il perché.>>
<<Metti forse in dubbio il mio sincero interessamento?>>
<<Una volta ho sentito che il dubbio fa muovere il mondo.>> Infilò dentro il borsone la divisa bianca e la maschera. <<Quindi probabilmente sì.>>
<<Bene, mi piace la piega di questa conversazione.>> Gli sottrassi il fioretto dalle mani e lo agitai nell'aria. Gli chiesi perché si fosse comportato a quel modo.
<<Perché il conseguimento di risultati ottimi in discipline sportive viene sicuramente visto di buon occhio in Accademia.>>
<<Oh>> mormorai. Rivolsi lo sguardo verso il basso, contrito. <<Avrei dovuto ricordarlo.>>
Alessandro sospirò e mi parve che la faccenda lo preoccupasse più di quanto dava a vedere. Poi si avvolse velocemente la sciarpa rossa attorno al collo e mosse le mani in maniera convulsa. Le sue orecchie avevano intercettato delle voci note che si facevano sempre più vicine. <<Forza. Il fioretto. Dammelo.>>
Mi prese un grande ansia, fomentata dall'urgenza di dirgli qualcosa che potesse far smaltire il senso di colpa che sentivo dentro al petto. Allora guardai l'arma che gli stavo allungando. Improvvisamente mi immaginai come lui, alto e fiero, uno spadaccino d'altri tempi che fendeva rapido una mela e ne porgeva una metà succosa alla sua donna. Alla mia lei
<<Insegnami a tirare di scherma.>>
<<Che cosa?>>
<<Hai sentito bene. Sono deliziosi i duelli... Mi ricordano il Rococò... l'epoca vittoriana. Insegnami.>>
Lui mi guardò come si guarda un bambino troppo fantasioso che prende tutto a gioco. Rise, ma in fondo agli occhi gli stava nascendo una grande premura e un grande piacere, perché con lo sguardo sembrò asserire.
<<Non a casa mia, però.>> Rivolse lo sguardo verso la porta dello spogliatoio che stava per essere spalancata. <<Sai che non posso.>>
Non ebbi neppure il tempo di dirgli che in qualche posto si poteva fare, che sua madre entrò tutta impellicciata e gli disse con sguardo asprigno che doveva salutare <<i Nardi>>, dopotutto erano venuti appositamente per lui. Alessandro uscì un poco costretto, sorvegliato. Sua madre mi rivolse un'occhiata gelida e interrogativa. 
Quando fui fuori anche io, ebbi un trasalimento. Riccardo se ne stava appostato accanto alla porta, nascosto in una piccola nicchia nella parete. Teneva le braccia conserte e le gambe incrociate. 
<<Davvero, Manfredi?>> mi disse. C'era una traccia di scherno bonario nella sua espressione. <<Vuoi essere un Casanova, ma prima devi smetterla di essere il Gobbo poeta di Notre Dame. Tieni dritta quella schiena!>>
****************
Da questo capitolo traspare il rapporto che lega Emanuele e Alessandro, e in minor parte anche Riccardo. Come vedete, da parte del primo c'è una grande ammirazione.
Per anticipi, passate dalla mia pagina Facebook "Alexandra-writes" on Wattpad.
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