Padre e Figlia

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Clarissa non andava d'accordo con suo padre.

Lei era una ragazza debole, con lunghi capelli ricci che le incorniciavano il viso perennemente turbato, sognante. Gli occhi e la mente che viaggiavano fuori dalla realtà, sopra le candide nuvole.

Lui era l'uomo, l'unico uomo della sua famiglia. Era il masso a cui poggiarsi nonostante fosse scivoloso, la corda a cui aggrapparsi con una probabilità massima che si rompesse. Era arrabbiato per la vita che conduceva. Non era mai in casa, il lavoro non glielo permetteva. Era un militare.

I due sembrava si odiassero, la madre doveva sempre intervenire nei fuochi che creavano a tavola, nelle discussioni a pranzo ed a cena:

Lui era un uomo tutto d'un pezzo, con forti valori e che non si sarebbe mai scostato o allontanato troppo dalle sue idee, antiche e moderne che fossero. Non si potevano dire più mature, quelli erano punti di vista, ma sicuramente con più fondamenta avendo visto vari anni della sua vita passargli avanti.

Lei invece era una rivoluzionaria: non riusciva a pensare ad un mondo come quello antico, vedeva con gli occhi di una giovane oppressa dal mondo adulto, come è giusto che si veda alla sua età. Gli anni della ribellione, la chiamano. Quando gli adolescenti coprono il loro viso di piercing, il loro corpo di tatuaggi e rovinano i loro capelli. Quando si fanno le prime esperienze con uomini e donne che siano e si seguono le mode inconsciamente.

Il problema era che loro erano troppo uguali per sopportarsi: l'orgoglio e l'egocentrismo erano padroni di quei due titani che, ogni fine settimana, si scontravano davanti a quella tavola. E non c'era giorno, in cui i due, dopo una litigata, si parlassero. Il padre troppo preso dalle sue ire, non salutava la figlia mentre usciva facendola incaponire più del dovuto e la figlia, per ripicca, tornava tardi a casa o sfociava la sua frustrazione nel fumo e nell'alchool.

Non si salutavano nemmeno quando lui doveva ripartire per il suo estenuante lavoro.

Ricominciava tutto con la solita routine la settimana dopo, quando, all'insegna di un'altra litigata, i due ricominciavano a discutere pesantemente, alzando la voce, sbattendo le mani sui tavoli.

Ed entrambi non capivano, non volevano capire, perché l'altro per una volta non potesse demordere dalle sue idee, perché per una volta non potesse venire a chiedere scusa, anzi di rimanere in quel silenzio assordante e in quella finta calma.

Un giorno, dopo un'altra ennesima litigata, Clarissa si chiuse in camera. I lunghi capelli marroni ora, non incorniciavano più un viso sognante, ma un viso smorzato e scavato, stanco. Le gambe non la reggevano più, lo stomaco, chiuso come tutti i fine settimana in cui suo padre tornava e per lo stress le urlava contro, adesso anche senza un buon pretesto. Non mangiava da settimane se non qualche spuntino qua e là e la figura di suo padre, come il cibo, era diventata quasi invisibile nella sua mente.

Quando qualcuno bussava alla sua porta lo cacciava.

Prese a rimanere fuori per pranzo e cena, anche da sola, a costo di non rivedere più quella figura con cui litigava. Evitava chiamate, messaggi e semplici vocali che comparissero sotto il nome ''Colonnello'' nella rubrica del telefono. Limitò al minimo i contatti con lui e così, si limitarono anche le litigate.

Il padre, prese a non tornare più il venerdì ed il sabato.

Clarissa pensava che le avesse abbandonate, che il suo comportamento le avesse dato fastidio e che questa fosse diventata più che una grande litigata padre e figlia.

E poi, un giorno, rientrando da scuola, dopo ormai un mese che suo padre non era più rinvenuto a casa, vide la madre: il volto straziato e rigato dalle lacrime, tra le mani, una lettera stropicciata, con il mittente quasi illeggibile, per tutte le lacrime che vi si erano posate sopra.

Con fare falsamente calmo e tranquillo, Clarissa si avvicinò al tavolo, sfilando la lettera di mano alla madre che non riusciva nemmeno più a guardarla negli occhi. La prima cosa che notò era, che la lettera era più pesante. All'interno c'era sicuramente qualcosa che pesava di più, rispetto alla semplice carta.

Aprendola, scorse all'interno una medaglietta d'argento ed una lettera, ed allora capì.

Inevitabilmente, il suo viso iniziò a bagnarsi, le mani iniziarono a grattare la carta sotto di esse per volerla strappare, dimenticare, ma non si poteva. Guardava la madre e le chiedeva scusa con gli occhi, perché adesso si stava dando l'intera colpa. Perché pensava fosse colpa sua.

L'ultimo saluto a suo padre, era stata una litigata, era stato un non guardarsi per paura di farsi guerra con il solo sguardo, quando lui, lui per primo, le aveva tenuto nascosto la grande guerra dentro di sé e quella all'esterno. Quella con gli altri paesi. Quella che distrugge le famiglie e le lascia in balìa dello sconforto, della paura.

Quante cose doveva dirgli, quante cose non aveva detto.

''Caro Colonnello,

Come va?

Io tutto bene. E' bello il paradiso? Mi auguro di sì, perché qua giù è tutto un Inferno.

I primi giorni avevo smesso di andare a scuola, non volevo vedere nessuno e non volevo che gli altri vedessero le condizioni in cui mi ero ridotta. Poi mi sono ricordata che all'asilo ed alle elementari, quando la tua sede era ancora qui e potevi passare del tempo con me, mi aiutavi a studiare quelle stupide tabelline ed ad imparare l'alfabeto a memoria.

Mi ricordo il tuo volto felice quando tornavo a casa con un 10 e lode e tu per compiacermi, mi regalavi sempre una 'Rossana'

Mi ricordo anche quando ti arrabbiavi e mi fulminavi con i tuoi ''occhi di ghiaccio'' che mi facevano tanta paura, per poi passare ad una sonora risata vedendo la mia faccia scandalizzata.

Poi la tua sede è cambiata, sei dovuto andare a Roma e ti sei totalmente allontanato da me. Hai lasciato me e mia madre e solo ora mi accorgo che tu, nella mia vita, non ci sei mai stato. Non come volevo io e probabilmente, non come volevi tu.

Iniziavi ad esserci solo il fine settimana, a tornare stressato ed irascibile, ma oggi, se avessi saputo che non mi sarebbero state più concesse nemmeno le tue parole più brutte, mi sarei presentata a mangiare a tavola anzi che andare da sola a pranzo fuori.

Non mi sarei chiesta se giusto o sbagliato ma sarei potuta venirti a chiedere scusa io, ogni tanto, anche se magari la colpa era tua. Perché tu eri stanco dal lavoro e non potevi stare dietro ad i miei capricci.

Ed adesso, adesso che posso ammettere di averti odiato per non esserci stato, per avermi fatto crescere con l'ammirazione nel puntare in alto, per avermi fatto esalare urli che avranno svegliato tutto il vicinato, non ci riesco.

Perché nonostante tutto sei mio padre, sei quello che ho salutato da piccola tra i pianti, che mi ha imparato ad andare in bicicletta e che mi tirava fuori le monete dalle orecchie.

Inizialmente pensavo che tu te ne fossi salito lassù perché mi volessi abbandonare, per dirmi <Ti terrò il broncio più a lungo> e so che ne saresti stato capace, se non fosse stata una cosa indelebile. Ma poi ho pensato che in questa stupida guerra tra noi, la mamma non c'entrava niente e non si sarebbe meritata un castigo che spettava solo a me.

Mi manchi. Mi mancano le nostre infinite chiacchierate a tavola, quelle sul divano e quelle seduti per terra. Mi manca che tutte le parole che dicessi, fossero egocentriche e puntate a farmi crescere, seppure io non le accettassi.

Non avrei voluto che le nostre ultime parole fossero state quelle di una litigata.

Avrei preferito accompagnarti al treno come quando ero piccola, per poi urlarti <Ci vediamo la prossima settimana!> così avrei avuto la sicurezza che saresti tornato, perché me lo promettevi.

Mi dispiace per tutto quello che è successo tra noi, Daddy. Mi manchi tanto.

Clarissa.''

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