Capitolo 3

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*ABBY*
Era stata una settimana dura, le vacanze di Natale si avvicinavano sempre di più, come ogni anno preparavo le lettere per i miei due fratelli. Avevo tempo fino alle 6 per iniziare a pensare a qualcosa da scrivere, di solito sono molto precisa nell'uso delle parole soprattutto con loro, non voglio sbagliare nel dire qualcosa o che capiscano altro. Iniziai a pensare a come potessi chiedere loro di vederci a Natale nella nostra vecchia casa a Madrid, come dosare le parole di maniera che loro accettassero senza indugiare molto. Avevo deciso di scrivere loro la stessa lettera; inizia con il dire "Ciao fratellino, ormai sono anni che non ti chiamo piú in questo modo, chissá se ancora mi vuoi bene come un tempo". Dovetti fermarmi perchè ricevetti una chiamata che mai mi aspettavo di ricevere, numero privato, risposi "Con chi parlo?" nessuno rispondeva, poi "figliola" e poi di nuovo nient'altro, "Se questo è uno scherzo preferisco che la finiate", mi chiuse. Rimasi spiazzata, era una voce che mi suonava molto famigliare e che non poteva essere, mia mamma era morta, ero andata anche a trovarla al cimitero, doveva essere uno stupido scherzo di quache imbecille che si divertiva a sfottere e far star male gli altri, solo quello niente di piú.

*MARTIN*
Casa doce casa!! Ero appena tornato dopo aver passato 3 giorni nel paese in cui ero nato e vissuto; alla fine avevo trovato il coraggio di entrarci e avevo trovato la nostra vecchia vicina a pulire. Le avevo chiesto il motivo e lei mi aveva detto che gli era stato chiesto, pensando che fosse stata mia sorella avevo salutato ed ero subito andato via. Avevo così paura di vederla, vedere il cambiamento, ricordare i suoi occhi spenti e tristi alla notizia, la sua rabbia, la sua porta sbattere, le lacrime che non smettevano piú di scendere. Anche se lei era più grande di 10 anni la chiamavo sempre sorellina, perché per me era quella più piccola, quella che aveva più bisogno di coccole, quella che veniva a rifugiarsi tra le braccia mie e di mio fratello, quella con cui un attimo prima litigavo e l'attimo dopo era avvinghiata a me come una sanguisuga che voleva un abbraccio che, come diceva lei, le avrebbe spezzato le ossa, ma aggiustato il cuore.
Quanti ricordi che riaffioravano, sempre diversi e sempre piú dolorosi, mi facevano tanto star male perché avrei preferito ricordarli tutti e tre uniti, come una famiglia, come credo che i nostri genitori avrebbero voluto e come penso che anche loro sognassero di essere.

*SEBASTIAN*
Mi trovavo ancora nella mia vecchia casa, avevo ritardato il viaggio di qualche giorno; stavo uscendo per andare a mangiare al mio ristorante preferito, il ristorante per il quale tante volte ho pianto pur di andarc tutti insieme. Ho sempre adorato quel ristorante perché appena entravo sentivo come se fossi a casa mia, sentivo odore di casa, sapevo che mi apparteneva, che non avrei potuto dividermi da lui o preferire altri ristoranti a lui; eppure ero andato via senza passare per un saluto, ero sparito per sempre. Chissà se c'erano ancora i vecchi propietari, era buono ancora (?), avevano sentito la mia mancanza (?), il ragazzo che tanto amavano e che li faceva ridere era tornato, piú grande e meno divertente di tre anni prima.
Quanti bei ricordi che mi portavano felicitá. Spesso il signor Lucas,il proprietario, mi ripeteva: "la felicitá è rispettare quello che la vita ci offre,senza mai lamentarci", ma io allora non ero felice perché non ho mai rispettato la vita nelle sue diverse forme. Lo adoravo, era stato come un secondo padre per me.
Ritornare nella casa dove avevo vissuto era stato un passo avanti per me e per il rancore che provavo per mio fratello e per mia sorella, ma soprattutto era stata dura fare i conti con il passato e capire che anche io avevo fatto degli errori gravi che non potevano essere piú aggiustati; forse, la colpa della loro morte era anche mia, mi resi conto che, probabilmente, eravamo stati troppo duri l'uno con l'altro, avevamo puntato subito il dito, avevamo affrettato e peggiorato le cose fino ad arrivare a questo: la solitudine. Una solitudine che portavo dentro e che non mostro per paura di mostrarmi debole agli occhi altrui, la solitudine che mi stava facendo diventare avido ed egoista, ma soprattutto la solitudine che urlava di volere amore e che la mia testa zittiva in un secondo.

Un bel errore sequelDove le storie prendono vita. Scoprilo ora