1. Il leopardo

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"Conosco delle barche che si dimenticano di partire...
hanno paura del mare a furia di invecchiare"

Da Conosco della barche, Jacques Brel

La costa irlandese è ormai lontana dalla mia vista, ma ancora mi ostino a cercare nell'orizzonte l'ombra di quelle scogliere grigie come il piombo. Il vento freddo spira senza sosta tra i miei capelli, facendoli svolazzare come un vessillo sanguigno alle mie spalle.
Sentendo la frizzante aria marina entrarmi prepotentemente nelle narici, alzo gli occhi al cielo, rendendomi conto solo ora di cosa mi aspetta. Il misterioso traghetto su cui sono salita ormai da quattro ore solca impunemente le onde impetuose del mare, lasciando dietro di sé uno strascico di spuma biancastra. Di sottecchi, quasi avessi paura di venir scoperta, lancio uno sguardo all'uomo che guida il traghetto nella sua angusta cabina.
Il marinaio, unico altro individuo a bordo di questa barca, ha i capelli castano chiaro portati indietro sul capo e i suoi vispi occhi acquamarina scandagliano la distesa salina senza alcun timore. Ha detto di chiamarsi Arthur e di non preoccuparmi per il viaggio, perché non c'è marinaio migliore di lui in queste acque. Lanciando un veloce sguardo attorno a me, capisco bene il perché: la nostra è stata l'unica barca che ho visto nell'arco di miglia e miglia.
Mi stringo nel parka verde militare quando uno schizzo birichino riesce a raggiungermi, sentendo subito quel familiare odore di limone riempirmi i polmoni. Questa giacca è appartenuta a mio padre, quindi mi sta decisamente troppo grande, ma non l'avrei mai abbandonata a Dublino sapendo che sarebbe finita sulle bancarelle di chissà quale negozio vintage.
Per poco non riesco a trattenere le lacrime, quando quell'aroma così dolce mi avvolge, portandomi alla memoria l'immagine del mio fulvo papà, con i suoi brillanti occhi verde giada.
Edmund Sharpclaw.
Il migliore padre che una figlia possa mai desiderare.
Pensare che è passato già un mese da quella terribile notte mi stringe il cuore in una morsa, dandomi l'impressione che il tempo stia correndo troppo velocemente, senza la minima intenzione di rallentare per far sì che lo raggiunga.
Dietro le palpebre riesco ancora a vedere l'immagine della carcassa metallica, che una volta era la nostra macchina, accartocciata sul ciglio della strada.
I poliziotti hanno detto che a causa della troppa pioggia un camion è deragliato e ha colpito in pieno la macchina dei miei genitori, scaraventandola contro un muro ed uccidendoli sul colpo.
Io, per fortuna o sfortuna che si voglia, non ero con loro quella sera, ma a casa a studiare per un importante test di letteratura.
Ignari di poter stringere la mano della morte così presto, i miei genitori non avevano mai terminato di scrivere il loro testamento, rimasto così stilato per metà. Essendo io la loro unica erede, tutti i loro beni e i loro risparmi sono stati intestati a me; la casa, la libreria della mamma, i mobili antichi, tutto ciò che avevano.
Non essendo ancora maggiorenne, queste proprietà sono state affidate alla banca ed io ho dato il mio benestare per venderle tutte tranne il negozio della mamma, che ho intenzione di rilevare non appena avrò terminato gli studi. I soldi che guadagnerò con le vendite, sommati ai risparmi dei miei genitori, mi serviranno per rifarmi una vita non appena potrò tornare in Irlanda.
L'ultimo volere testamentario dei miei genitori, infatti, è stato quello di affidarmi alle cure di due parenti che non ho mai visto prima, mio zio Evander e mia nonna Evangeline.
Nonostante abbia più volte chiesto a mio padre di parlarmi della sua famiglia, lui è stato sempre molto restio e mi ha più volte rabbonita, dicendomi che me li avrebbe fatti conoscere quando sarebbe stato il momento giusto.
Ancora oggi non so quale fosse il momento giusto di cui stava parlando, ma almeno avrò la possibilità di placare la curiosità che ha tormentato la mia infanzia.
Mia madre, Laila Mason, era di origini londinesi e non ha lasciato nessun familiare in vita alle sue spalle.
Solo me.
Più volte mi sarei voluta complimentare con mio padre per aver scelto una donna come lei: intelligente, buona, ma con un carattere forte ed intraprendente. Fin da quando ero bambina, quella donna ha sempre cercato di instillare in me la sua profonda passione per la letteratura, e devo ammettere che ci è riuscita fin troppo bene. Ancor prima di prendere in mano la penna, la mamma mi ha insegnato a leggere piccole frasi dalle decine di libri riposti sugli scaffali del suo negozio.
Ma questi sono solo vecchi ricordi.
Così ora sono qui, su questo strano traghetto, dopo essere sfuggita alle infide mani di una terribile assistente sociale, e mi sto avventurando in un mondo ignoto.
Mondo che corrisponde al pittoresco nome di Wyth Island.
A quanto pare mio padre e la sua famiglia sono originari di quest'isola da diverse generazioni, ma nessuno ne ha mai sentito parlare. Ho provato a digitare il nome sul motore di ricerca del mio PC, ma non è apparso nessun risultato, nemmeno il minimo documento riguardante questo luogo dimenticato da tutti. Non ho la più pallida idea di quanto grande sia questo posto o del grado di civilizzazione in cui versi, e nemmeno di quanti abitanti ospiti. L'unica cosa di cui sono certa è che lì mi aspetta la mia nuova famiglia, composta da uno zio, una nonna e da due cugini.
«Signorina Sharpclaw! Guardi laggiù, siamo quasi arrivati!».
La voce di Arthur mi strappa improvvisamente dalle mie fantasticherie, facendomi sobbalzare all'interno del parka. Velocemente rivolgo lo sguardo nel punto dove l'uomo sta puntando il dito, e per poco non sento l'aria mancarmi nei polmoni.
Una verdeggiante ed imponente isola si staglia all'orizzonte, avvolta da quella che sembra una spessa patina di fascino e mistero.
Colta da uno slancio interiore, che nemmeno io saprei spiegarmi con esattezza, corro sul lato opposto del ponte, per poi aggrapparmi al parapetto. È come se i miei occhi fossero risucchiati dalla visione dell'isola, come se un canto delle sirene mi stesse inevitabilmente attirando verso quelle spiagge scure.
Ogni miglio che guadagniamo sono dei particolari in più che riesco a cogliere. Ora posso scorgere il molo di legno a cui sono attraccate altre due barche molto simili a questa e, immediatamente dietro di esso, una maestosa villa dipinta di bianco. Aguzzando ancora di più lo sguardo vedo una strada srotolarsi oltre l'edificio e portare ad un agglomerato di case che pare una sorta di villaggio.
«Signorina! Venga un attimo qui, per favore».
A malincuore volto le spalle alla vista dell'isola e mi avvicino all'uomo, cercando allo stesso tempo di scaldarmi le mani alitandoci sopra.
«Mi dispiace per tuo padre».
Lo dice così all'improvviso e con tanta tristezza negli occhi, che rischio quasi di perdere l'equilibrio. Stupefatta osservo il modo in cui le sue iridi si coprono di uno spesso velo di ricordi, di tristezza e di nostalgia.
«Quando viveva ancora qui eravamo ottimi amici. Sono stato proprio io, nel mio primo viaggio per mare, a portarlo in Irlanda».
Questa volta mentre parla non guarda più me, ma un punto lontano ed indefinito, come se potesse rivedere davanti a sé le immagini della sua gioventù.
Vorrei ringraziarlo, dirgli una qualsiasi cosa, ma la lingua sembra essersi incollata al palato, e l'unica cosa che riesco a donargli è un sorriso un po' storto e traballante. L'uomo non pare farci caso e ricambia il gesto con molta più vivacità, spazzando via dai suoi occhi quell'antico velo di nostalgia.
«Dovrebbe andare a recuperare i suoi bagagli, ormai siamo quasi arrivati» dice dopo aver riportato lo sguardo sulla rotta, e riadottando l'uso della terza persona, che devo ammettere starmi particolarmente stretta.
Io, che in questo intervallo di tempo sono rimasta ad osservare il volto dell'uomo domandandomi come fossero lui e mio padre una ventina d'anni fa, mi desto e faccio come consigliatomi. Così mi ritrovo ad osservare le due grandi valigie nere e il borsone verde che ho portato con me, pensando che finora la mia vita non deve essere stata un granché se è riuscita ad entrare in uno spazio così piccolo.
Mentre Arthur ferma il motore e attracca, io alzo gli occhi verso la vegetazione dell'isola, sentendomi come una bambina davanti ad un antico gigante. I miei occhi corrono nuovamente alla maestosa villa bianca sul mare e alle sue molteplici file di finestre. Tutti gli infissi e le porte sono realizzati in un prezioso e brillante legno nero, che crea un magnifico contrasto con il candore delle pareti.
«Bella, non è vero?» mi domanda Arthur dal pontile, sorridendo radioso.
«Sì, è stupenda» dico, voltando lo sguardo verso il marinaio e sorridendogli veramente per la prima volta da quando lo conosco.
L'uomo si volta per qualche secondo verso la villa e la guarda fiero, con l'orgoglio che gli fa brillare le iridi preziose.
«Appartiene alla mia famiglia, i Brightback» dice, voltandosi nuovamente verso di me.
Stupefatta mi ritrovo a sbarrare gli occhi e a posare il mio sguardo alternativamente sull'uomo e sulla casa, pensando che un'abitazione del genere è assolutamente degna di nota per appartenere ad un marinaio.
«I miei figli hanno all'incirca la tua età, se lo desideri un giorno te li presenterò» continua poi, cambiando ancora una volta argomento e modo di rivolgersi a me, ed allungandosi per aiutarmi a scaricare le valigie.
«Mi farebbe molto piacere» dico sorridendo entusiasta.
Dopotutto non sarebbe male farsi degli amici su quest'isola sperduta nel nulla.
Con qualche difficoltà, e cercando seriamente di non scivolare sul parapetto bagnato, salgo sul pontile con l'aiuto di Arthur, che ha già finito di prendere tutti i miei bagagli.
Tornare sulla terraferma dopo due ore di ondeggiamenti è un piacere per il mio stomaco e mi fa sentire nettamente a mio agio. L'acqua mi ha sempre trasmesso una certa inquietudine, come se io e questo elemento non fossimo fatti per andare particolarmente d'accordo.
«È stato un piacere conoscerla, signor Brightback» esordisco dopo qualche istante, stringendo saldamente la mano dell'uomo «La ringrazio davvero, per tutto».
Arthur mi osserva con un certo sguardo d'intesa, per poi fare un leggero cenno del capo, che mi ricorda molto quello dei cowboy nei film sul vecchio e selvaggio west.
Mi lascio sfuggire una risata e l'uomo si unisce di buon grado a me.
Quando entrambi torniamo seri, l'uomo mi posa una mano sulla spalla e mi invita a voltarmi verso la riva.
«Guarda, tuo cugino Ezra è venuto a prenderti».
Il sangue mi si ghiaccia nelle vene, quando i miei occhi si posano sul punto indicato da Arthur.
Senza pensarci due volte mi aggrappo saldamente al braccio dell'uomo, come cercando di proteggermi dalla belva che mi attende dall'altra parte del molo.
Quello che sembra essere a tutti gli effetti un muscoloso e feroce leopardo mi osserva dritta negli occhi, con delle iridi ghiacciate che mi fanno rabbrividire fin nelle viscere.
Cosa diavolo ci fa una bestia selvaggia a piede libero sull'isola?
Rendendomi conto di star trattenendo il fiato ormai da diversi secondi, boccheggio in cerca d'aria, chiudendo per qualche istante gli occhi; sottrarsi a quello sguardo da predatore è un sollievo per il mio cuore, che sta battendo ad una velocità impressionante.
Quando riapro gli occhi, però, per poco non perdo l'equilibrio ed inciampo nei miei stessi piedi.
Il leopardo è sparito.
Com'è possibile?
Al suo posto c'è un bel ragazzo biondo, alto e slanciato, che mi osserva con i suoi occhi azzurro chiarissimo. Per un secondo giurerei che le sue iridi abbiano lo stesso colore di quelle del leopardo, ma poi scaccio quel pensiero, dicendomi che è una cosa impossibile.
«Elizabeth, stai bene?» mi domanda Arthur, scuotendomi leggermente.
Disorientata e con il cuore che batte ancora all'impazzata, mi stacco dall'uomo e annuisco appena, cercando di prendere dei respiri profondi per tranquillizzarmi.
«Sì, tutto bene» dico, facendo finta di stirare delle pieghe invisibili sul parka «Sono solo molto nervosa all'idea di incontrare la mia famiglia».
Se dicessi la verità ad Arthur mi prenderebbe certamente per una pazza.
L'uomo sorride e comincia ad avanzare sul pontile, trascinandosi dietro le mie valige.
«Non ti preoccupare, sono delle persone rispettabilissime» dice cercando ancora una volta di tranquillizzarmi, mentre io lo raggiungo con le mani serrate sulla tracolla del borsone.
Rispettabilissime, non amorevoli o gentili.
Rispettabilissime.
Senza nemmeno guardarlo annuisco poco convinta, con la mente che torna all'immagine del leopardo.
Mi devo essere immaginata tutto.
Un effetto collaterale dello stress e del poco sonno dell'ultimo mese.
«Tu devi essere Elizabeth» esordisce una nuova voce, costringendomi ad alzare lo sguardo da terra.
Quando davanti a me si materializzano ancora una volta quei due occhi trasparenti, un brivido mi corre su per la spina dorsale, ma provvedo a cacciarlo subito via. Con un mezzo sorriso annuisco, assolutamente impreparata a ciò che accade subito dopo.
Quello che dovrebbe essere mio cugino, Ezra, si slancia verso di me e mi abbraccia calorosamente, come se ci conoscessimo da una vita e non fosse, invece, la prima volta che ci vediamo. Stupefatta mi ritrovo a ricambiare la stretta, trovando nel profumo dolce amaro del ragazzo qualcosa di familiare, che sa inaspettatamente di casa.
«Sono così felice di poterti finalmente conoscere» dice il ragazzo, prendendo in custodia le valigie che Arthur gli porge «Era ora che anche tu visitassi questo posto».
«Sì, anche io sono felice di essere qui» dico con poca sicurezza, pensando al vero motivo per cui mi trovo su quest'isola, e accantonando così le fantasticherie sul leopardo.
«È stato un piacere, Elizabeth. Ci vediamo alla festa» dice infine Arthur, sorridendomi ed avviandosi poi verso la maestosa villa bianca.
«Festa?» domando confusa, arrancando alle spalle di Ezra, che si sta velocemente dirigendo verso un pick-up Land Rover nero parcheggiato poco lontano.
«Quella in tuo onore che ci sarà questa sera. Tutti vogliono conoscerti» esclama il ragazzo, lanciandomi uno sguardo entusiasta che mi fa rabbrividire fin nelle ossa.
Odio le feste.

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