CRESCENDO

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CRESCENDO

Frequentavo l'Accademia della libertà da un mese e non avevo ancora conosciuto nessuno. I miei genitori avevano insistito perché mi iscrivessi, sperando che abbattessi il muro che mi ero costruita attorno.

Odiavo quel posto, lo detestavo con tutta me stessa e, anche quando riuscivo a concentrarmi sui miei quadri, non provavo mai quella sensazione di piena serenità che tanto agognavo.

Come ogni adolescente che si rispetti anche io ero in guerra con il mondo, il problema è che il mio mondo era un po' diverso da quello della maggior parte dei miei coetanei, perché circondato da un muro di cinta talmente spinoso che pungeva anche me ogni qualvolta pensassi di poterne uscire.

Sono balbuziente da quando avevo tre anni. Vari medici mi hanno visitata e sottoposta a ogni tipo di cura. Non ho una reale patologia, la mia non si può neanche definire balbuzie. Non ripeto molte volte le stesse sillabe, semplicemente mi fermo, riprendo fiato, fatico sulla prima parola e poi parlo tutto d'un fiato.

C'è chi sostiene che sia determinato da un fattore psicologico, ma come potessi essere stressata già a tre anni rimane un mistero.
Sono cresciuta in una famiglia sana, in cui non mi è mai mancato nulla, eppure non ho fatto altro che deludere i miei genitori, giorno dopo giorno, diventando una sorta di lupo solitario.
La scuola era il mio incubo peggiore, se alle elementari ero semplicemente la bambina silenziosa che attirava gli sguardi compassionevoli degli insegnanti e quelli straniti dei miei compagnetti, alle medie la mia vita era diventata un inferno.
Il primo giorno di scuola non ero riuscita neanche a rispondere all'appello e, all'aria interrogativa della professoressa, la mia risposta era stata una specie di sibilo misto a un singhiozzo strozzato. La mia prima crisi di panico si manifestò davanti a 22 ragazzini che subito mi etichettarono come "la strana" o peggio "quella poverina".
Tre ragazzine molto carine, vestite di tutto punto e con capelli talmente belli da sembrare finti, decisero da quel momento che sarei stata il bersaglio dei loro risolini isterici, delle dita puntate e degli sguardi giudicatori.
Nessuno, nessuno si prese la briga di venire anche solo una volta a chiedermi perché me ne stessi sempre sola, e ogni giorno che passava diventavo la vittima di me stessa, accogliendo ogni sguardo come una provocazione e ogni tentativo da parte degli insegnanti a farmi fare gruppo come una forzatura.
Riuscii ad ottenere che mi fosse data la possibilità di fare più compiti scritti che interrogazioni orali; queste ultime erano alla stregua del più squallido dei cabaret; i miei voti nella media lasciavano ben sperare i miei genitori, nonostante qualche professore avesse insistito per vederli e consigliare loro l'ennesimo specialista che potesse aiutarmi.
Il terzo anno di scuole medie, dopo una mattinata particolarmente stressante, in cui fui costretta ad andare alla lavagna ed "esibirmi" nel triste teatrino del "comincio una frase e l'insegnante la finisce pur di non aspettare troppo", ebbi un impeto di rabbia che mi portò a dare un calcio allo zaino della regina del trio che ormai da tre anni mi dava il buongiorno con qualche spintone o, peggio, con uno sgambetto sotto il banco.
Aver dato un calcio allo zaino della magnifica stronza sancì l'inizio della fine.
Non passò giorno in cui non mi ritrovassi schiacciata contro un muro del bagno ad ascoltare una delle tre sdilinguirsi in offese e, almeno una volta a settimana, tornavo a casa con qualche livido da nascondere.
Smisi quasi di parlare, destando la preoccupazione dei miei genitori che pensarono bene di iscrivermi all'Accademia della Libertà, dove, a parer loro, avrei trovato spazio per esprimermi e gente che, come me, a 13 anni vedeva nel mondo circostante più una pena inflitta che un'occasione di vivere.

Fino a quel pomeriggio.

Una ragazza bionda si avvicinò "Ludovica, giusto?"
Mi limitai ad annuire e costrinsi il mio viso a una smorfia che somigliasse a un sorriso.
La ragazza continuò "Ciao, sono Amelia. Non ho potuto fare a meno di notare le tue capacità artistiche, sei davvero bravissima."
Apprezzava i miei dipinti, incredibile.
Presi fiato ed emisi un appena udibile "Grazie".
"E tu che ne pensi della mia musica?" mi chiese.
Alzai le sopracciglia "Ti...interessa la mia opinione?"
Ottimo, ero riuscita a formulare una frase con una sola pausa.
"Certo che mi interessa. Siamo qui per esprimere ciò che abbiamo dentro attraverso le arti e bla bla bla, ma questo non significa che non mi importi sapere cosa ne pensino gli altri. Voglio capire se mi sopravvaluto o se sono brava come credo".
Non c'era presunzione nel suo tono, ma speranza e curiosità. Meritava una risposta, quindi tentai. "Io...mi emoziono quando suoni".
"Bene, allora siamo pronte per lo step successivo: cioccolata calda mentre ci conosciamo?" Mi lasciai andare a una risata.
Amelia aveva sedici anni ma sembrava un'adulta; mentre io ero piena di insicurezze sul futuro, lei era determinata a diventare una pianista professionista.
Il mio flusso di pensieri fu interrotto bruscamente.
"Dunque" si schiarì la voce "se ti sembro eccessiva, antipatica o pazza dimmelo."
La mia espressione interrogativa non la interruppe "so di essere logorroica, ma mi sono accorta che non hai aperto bocca".
Il momento della verità era arrivato. A scuola non avevo avuto amici perché solo il pensiero di essere allontanata per il mio 'difetto' mi terrorizzava.
Tenendo la tazzina fra le mani, non alzai lo sguardo dal caffè.
"Io...balbetto. Mi...fermo quando parlo. Faccio...delle pause. E...mi vergogno."
La risata fragorosa di Amelia mi arrivò come una pugnalata al cuore, ma quando alzai lo sguardo la vidi.
Lei non rideva di me, rideva con me.
Quasi soffocata dalle sue stesse risa poggiò la mano sulla mia "Ti vergogni? Ludovica, ti prego! C'è gente a questo momento che dovrebbe vergognarsi di esistere e tu ti vergogni perché fai delle pause?"
"Non...è solo questo" risposi in tono di difesa "La...gente si stanca, si...annoia per colpa delle mie pause".
Il mio tono cominciava a smorzarsi mentre Amelia mi sorrideva, adesso in modo dolce "Io credo che tu sia spaventata solo da te stessa. Alle persone non importa come parli, non a quelle intelligenti almeno. Una persona che dipinge come te deve senz'altro avere molto da dare, e io voglio poterlo scoprire se me lo permetterai. So che sembra infantile, ma tutti abbiamo bisogno di un amico. E poi a me le tue pause piacciono, ti rendono interessante. Anzi, per prima cosa, se accetterai di dare inizio a questa amicizia tra due strane ma  talentuose ragazze quali siamo, dovrai concedermi una cosa".
Mi ero totalmente rilassata nella stranezza di quella situazione. La posa che assunse la mia nuova amica fu a dir poco esilarante ma il suo tono rimase serio e tenero "Da oggi in poi le tue pause saranno i tuoi Intermezzi, e ogni tuo discorso sarà un Crescendo, la parte più intensa ed emozionante di un brano musicale. Fai della tua voce la tua musica e suonala quando e come vuoi. Chi non vuole stare ad ascoltare semplicemente non vuole capirti e di queste persone tu non hai bisogno, ma devi dare modo agli altri di conoscerti".
Per la prima volta nella mia vita non parlai perché non trovavo le parole, ma sentii un'eruzione dentro di me, una consapevolezza che si affacciava timidamente nella mia testa.
Forse davvero avevo trovato un'amica, forse potevo aprirmi e smettere di comportarmi in modo infantile, dando spazio agli altri, accettando i giudizi altrui senza lasciarmi spaventare.
Abbracciai Amelia dopo averle lasciato il mio numero e averle detto "ovviamente...scoprirai che tramite sms anche...io so essere logorroica".
Arrivai a casa quasi saltellando, apparecchiai la tavola e, quando arrivarono i miei genitori notarono subito qualcosa in me.
Sapevo che ci sarebbe voluto del tempo. Ero stata egoista e ingrata, perché non avevo motivo di soffrire.
Ora so che se si è in compagnia della propria felicità ci si porta fortuna da soli.
E la vita diventa tutta un'altra musica, con i suoi noiosi Intermezzi e intensi Crescendo.

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