Ho ucciso un uomo.
Sì, sì, esattamente. Ho ucciso un uomo e mi è anche piaciuto farlo. Penso lo rifarò.
È stata una delle cose più entusiasmanti e eccitanti che abbia mai fatto nella mia breve vita.
Certo, all'inizio ero timoroso per tutta quella cosa della coscienza e dei sensi di colpa e sarà moralmente corretto? Fanculo la morale.
È stato dannatamente piacevole.
Mentre lo strangolavo con le mie stesse mani, potevo sentire il suo sangue scorrere sotto la mia pelle. Il sangue che scorre nelle arterie, le arterie che oppongono resistenza, la pressione che aumentava assieme al battito cardiaco: bum bum, bum bum bum, BUM BUM BUM, poi nulla. Potevo addirittura sentire il suo diaframma scattare. Sapete, come quando vai al mare e cerchi di stare sott'acqua e senti il petto esplodere ed è come se qualcosa dall'interno stesse cercando di fuoriuscire portando con sé tutta quell'aria consumata ricca di anidride carbonica. Ecco, il diaframma. Lo sentivo saltellare sotto di me.
La cosa più bella è stato guardarlo negli occhi e vederli riempirsi di sangue, quasi gonfiarsi e vedere la paura trasformarsi in rassegnazione e poi in pace.
Un po' come quando ti fanno l'anestesia dal dentista che tremi appena vedi l'ago, ma appena ti iniettano tutta quella morfina senti il corpo rilassarsi e assumi uno sguardo che trasmette pace e serenità.
Ecco, mi son sentito tipo un dentista: lui estirpa denti, io ho estirpato un'anima.
L'ho tirata fuori, l'ho fatta mia e con lei lo sguardo e l'ultimo ricordo di quell'uomo.
Sapete, non mi interessa se riteniate questo mio atto penalmente perseguibile o moralmente ed eticamente scorretto.
I giudizi potete tenerli anche per voi.
Son qui per raccontarmi, non per esser giudicato.
In fondo son stato così sin da bambino, un po' perverso, un po' sadico. Volete farmene una colpa?
Al massimo la colpa è di Dio, ma lui non può sbagliare. Insomma è onnipotente, imperituro, ingenerato, perfetto e ci fa a sua immagine e somiglianza.
Ammettiamolo, anche Dio, in fin dei conti, un po' sadico lo è.
Ti ho dato un cazzo, ma guai a te se lo usi.
Ti ho dato degli ormoni che ti controllano, ma NO! non puoi cedere a loro, RE SI STI!
Ti ho fatto fragile, ma al contempo ti ho dato la capacità di uccidere un essere vivente in svariati modi. Ma guai a te se lo fai.
Insomma, è come dare un gioco ad un bambino, ma punirlo se ci gioca.
Questo è sadismo e tutto questo sadismo, si sa, può render le persone pazze.
Che poi, per me è normalità, siete Voi che mi ritenete pazzo.
Dio mi ha fatto così. Mi ha donato un po' del suo sadismo: perché diamine dovrei rifiutare un suo dono che mi ha reso così simile a lui?
Sin da piccolo ho capito di esser un po' diverso, un po' speciale, un po' più vicino a Dio di chiunque altro.
Mi ricordo benissimo che tutto ciò è iniziato con una semplice mosca.
Sì, esatto, un piccolo insetto.
In fondo, per arrivare a compiere grandi imprese, bisogna partire da piccole opere. Un passo alla volta, così si dice, no?
Mi ricordo che quando ero piccolino, verso i quattro o cinque anni, avevo questa scatoletta in plastica trasparente, un piccola lente di ingrandimento, che ancora conservo e un paio di pinzette. Quelle pinzette che le mamme usano per aggiustarsi le sopracciglia o che usano per levarti una piccola scheggia che ti è andata sottopelle mentre giocavi sullo scivolo in legno al parco.
D'estate tenevamo sempre le finestre aperte per far entrare quei piccoli soffi di vento che rinfrescavano il salotto. Non avevamo ancora un condizionatore e le estati in città sono sempre state calde e afose ed umide, quindi mamma si arrangiava come poteva.
Ogni volta entravano un paio di mosche che iniziavano a girare attorno al lampadario.
Gira gira, gira gira, avanti e indietro.
Di tanto in tanto una di loro interrompeva il proprio rito e iniziava a ronzare attorno al cesto di frutta sulla tavola.
In estate, a causa del caldo, la frutta si appassiva velocemente e fuoriusciva sempre un po' di quel liquido sciropposo e zuccherino da una delle ammaccature delle mele.
Le mosche sono incredibilmente attratte dallo zucchero, quindi, inevitabilmente, ronzavano anche attorno al cesto di frutta.
Un giorno, dopo svariati tentativi, riuscii a prenderne una.
Sapete, uccidere una mosca in realtà è difficile. Ogni volta che le colpisci applaudendo le mani e facendo finire l'insetto fra di loro, quello che succede è che si traumatizzano e non capiscono nulla per un po', ma non muoiono.
Vidi la mosca cadere lentamente a terra. Una volta posatasi sul pavimento, iniziò a muoversi in modo compulsivo. Sbatteva le ali in modo caotico, muoveva le zampette irregolarmente e a scatti.
Presi le mie pinzette e raccolsi la mosca, posandola nella mia scatoletta. La mia postazione di gioco era questo vecchio tavolo di inizio Novecento nell'angolo del salotto, affianco al divano.
Ricordo ancora le venature che giocavano fra loro: si rincorrevano, si univano, formavano nodi, donando al tavolo quell'aspetto grazioso e lucido che mi piaceva e che mi piace tutt'ora. Ho sempre amato i mobili in legno.
Allora mi misi in ginocchio sul divano, volto al mio bel tavolo, col la lente in mano e la mosca nella scatoletta posata sul tavolo. Con la mano destra presi le pinzette e staccai una zampetta alla mosca. Iniziò a muoversi più caoticamente. La cosa mi piacque. Allora via un'altra zampa e ancora e ancora e la mosca che si muoveva e si contorceva e girava girava su se stessa.
Poi venne il momento delle ali. Momento più delicato. Insomma, le ali sono importanti per una mosca, quindi gliele levai con dolcezza, piano piano.
Mentre potevo vederla soffrire e dimenarsi, richiusi la scatoletta, privando la mosca di ogni fonte d'ossigeno. Rimasi lì, seduto, a guardare la prima anima che stavo spegnendo e quel corpo fermarsi, per sempre.