«L'Amore non è veramente nulla se non è follia, una cosa insensata, proibita, un'avventura nel male!» – Thomas Mann.
Potrei abituarmi a stare con lei: dopo tutto, mi ha fatto sopportare quello che mi è capitato. Grazie a lei, imparai a vedere più in là della piccolezza umana; e il nostro egoismo non serve proprio a niente, perché non siamo nulla di fronte all'universo.
Eppure sprechiamo la nostra intera esistenza, cercando di renderci importanti per qualcuno, o agli occhi di tutti gli altri, per apparire migliori di loro. Tutto inutile. Alla fine, di fronte alla morte, siamo e saremo sempre tutti uguali. Non siamo altro che una effimera routine, agli occhi della morte stessa.
A diciotto anni, non si dovrebbe pensare come sarebbe lasciare questa vita: si dovrebbe solo viverla, la vita: ma una sfavorevole sequenza di situazioni, mi ha portato a saperne molto di più dei miei coetanei.
Tutti pensiamo, prima o poi, alla nostra morte. Arriva sempre quell'istante in cui ci balena nella mente il tarlo dell'incertezza umana: "e se fosse oggi il mio ultimo giorno?". Tutti ad una certa età lo pensiamo. Tutti, nessuno escluso. Anche se io mi trovavo a dover fare i conti con questo pensiero molto prima di quanto avessi previsto.
Mi descriverei come qualcuno che, dalla propria vita ha avuto tutto quello che avrebbe mai potuto desiderare: un'intelligenza superiore, molti soldi da spendere, una casa e dei genitori comprensivi. Vorrei confidarvi che noi ricchi siamo tutti: avremo per sempre il caro e vecchio megafono... per far sentire la nostra voce. Chi più la alza e più vale, a questo mondo. Siamo tutti quanti edonisti, ma addirittura, ci sono il più dei nostri, che si ritengono guidati dalla mano di Dio e quindi si vogliono arrogare, per forza, il diritto di fare beneficenza: tanto da ritenersi giustificati, nel caso si fosse commessa... anche la peggiore malefatta. Ma qui, non sono io il personaggio con il megafono.
Non ci si deve mai dimenticare che chi rende ricco qualcuno, diventerà sempre più povero di lui: e questi falsi ricchi, che vivono nell'oscura convinzione... che tutto il mondo, abbia per forza bisogno di loro e sentono la responsabilità di giudicare tutti, dall'alto del loro ego. E saranno utili soltanto per avere il potere, del poter tentare gli altri, a farsi assecondare.
Ci sarà soltanto l'uomo che asseconderà il potere e verrà ricompensato con altro potere: il potere dona all'uomo, il potere di prendersi altro potere: non è molto difficile. Giusto o sbagliato che sia. C'è anche il discorso per la quale, a noi figli di genitori abbienti, non ci sarebbe permesso di possedere un cuore: penso che, con soli mille dollari, me ne possa permettere perfino uno svizzero, con battito al millesimo di secondo e con il pacemaker integrato.
È successo tutto in meno di quattro anni.
Follie e fatali disavventure caratterizzarono questi anni di cagionevole fortuna.
Da parte mia. Pensavo di dover pagare solamente l'esser nato in una famiglia molto benestante, ma sopratutto, quella di non aver ragionato molto su quelli che erano i miei rischi a comportamenti, per me deleteri: me ne rendevo solo dopo che avevo contratto tutto il mio fato, solamente perché mi sentivo vuoto, nonostante fossi tanto intelligente da dover silenziare perfino i miei logoranti pensieri: ero vittima del mio stesso cervello, dovente smistare ogni volta tutto quello che percepivo.
Nella mia vita, ho imparato... e pagato caro... che non tutto si può comprare, perché puoi offrire qualsiasi cifra per una merce, ma vi è sempre qualcuno che deve accettare il tuo pagamento: se si desiderasse l'onestà d'animo, potrei dire che la vita è una sola e dovresti offrirla per cercare d'avere le cose più ambite e il cui prezzo sarà troppo alto, per essere comprate solo con il vile denaro.
Fino a che non farai pagare il prezzo a qualcun altro: cosa non si farebbe per dell'amore gratuito.
Proprio un cuore mi sarebbe servito.
Era un giorno di inizio settembre, mese in cui avrei iniziato la scuola superiore in tutta tranquillità, e per caso, tra le tante proprietà della mia famiglia, trovai una casa al lago. Soltanto per curiosità, e giusto per passare una settimana diversa dalla solita routine, mi venne voglia d'andarci.
Decisi tutto con la fretta di partire subito e il giorno della partenza fu il sei di settembre: volevo che per quel giorno, non sarebbero dovuti sorgere problemi; infatti, soltanto la settimana dopo, avrei dovuto iniziare la scuola, e sarebbe di sicuro finita la pacchia.
Ci organizzammo in dieci: cinque amici e cinque ragazze. Il nostro intento era quello di trascorrere una delle vacanze più belle che avrei mai potuto realizzare in vita mia. Ma di sicuro, non mi sarebbe stato permesso strafare: in fondo avevo soltanto quattordici anni e m'accingevo a recarmi, in una casa sperduta, con altri nove idioti.
Chiesi a mio padre il permesso.
«Ultima cosa: se romperai la casa o qualcuno di voi si fa male, è meglio che a casa non ci torni proprio!» – Asserì mio padre, non molto convinto.
«Perché?» – Gli chiesi, senza molte pretese.
«È sia un'eredità del nonno e sia perché vorrei che imparassi a crescere... da questo viaggio!» – Mi rispose con riserbo.
«Va bene...» – Gli risposi atono.
Credo lo disse solo per inquietarmi... però se fosse davvero del nonno, sarebbe meglio tenerla integra. Meglio rispettare la sua eredità, è pur sempre morto da soli sei mesi.
Comunque, ci eravamo organizzati talmente meticolosamente, per cui non ci sarebbe dovuto essere nessuno che avrebbe dovuto obiettare. Saremmo subito voluti diventare più grandi. Volevamo dimostrare, a noi e al mondo, di sapere gestire il tutto nei migliore dei modi. Volevo farlo anche per dimostrare ai miei di poter gestire, un giorno, gli affari di famiglia.
Mi avviavo a questa folle esperienza.
Contattando tutti, fissai con loro le varie caparre per il cibo e cercai di capire come poterci andare: una delle soluzioni migliori era quella d'affittare una limousine, anche se, per me, sarebbe potuta risultare inutile, perché in casa ci sarebbero delle auto, ma la mia minore età e l'essere di mio padre, non mi permetterebbe di guidarle: la mia logica e sfortuna erano innegabili.
Feci spedire tutto il necessario su di un furgone, per il giorno del nostro arrivo, direttamente a destinazione: ci rivolgemmo presso una società di catering e il pagamento fu in anticipo.
Quella stessa mattina, la limousine era già pronta per portarci in qualunque posto avremmo voluto. Nel prenotare tutte le tipologie di trasporto necessarie al nostro viaggio, chiesi ad un amico, il giorno prima della partenza, se mi avrebbe fatto il piacere d'accompagnarmi a verificare la condizione della casa e a mia volta, chiesi a mio padre d'accompagnarci entrambi.
Tanto aveva del tempo da perdere.
Credo, ma sarebbe stato meglio controllarla con lui presente.
Ci recammo lì tutt'e tre: notai che la casa era integra. Senza chissà quali danni, ma riuscimmo a vederne soltanto l'esterno e dal vetro presente su di una delle pareti, non si vedeva niente verso l'interno. Mio padre ci sconsigliò d'entrare, perché non era del tutto sicura e decisi d'ascoltare il suo consiglio e soltanto il giorno dopo, mi resi conto della bellezza della casa.
La sera precedente mi feci le valigie, presi tutto. Ero elettrizzato perché non sapevo minimamente quello che mi sarebbe accaduto: sarebbe potuta nascere una vita nuova per me e per una delle ragazze che avremmo portato con noi, però decisi di mandare una limousine per prendere le ragazze e le loro molte valigie, proprio perché non ci sarebbe stato spazio per noi, loro e tutte le valigie in una sola: in pratica, usammo due limousine. Tanto gli avrei dato l'indirizzo ove portarle, le ragazze: i soldi permettono questo ed altro.
Tutto era deciso: l'indomani saremmo partiti.
Volevo fare una piccola premessa: ho sempre onorato i miei, anche solo perché mi hanno permesso di nascere, ma non per questo gli ho mai baciato i piedi e di certo non lo inizierò a farlo. Avrei anche io una dignità, nonostante la mia giovane età. Mi sono sempre sentito libero di fare quello che mi pare, anche se sono certo che nessuno sia esente da un amichevole aiuto. Non sono mai stato perfetto, come tutti si ritengono, ma feci l'errore di ritenermi più intelligente di quanto possa esserlo qualcuno senza alcuna esperienza, ma volli solamente tentare. mi ritenni abbastanza intelligente per cavarmela da solo e decisi di verificarlo in quell'occasione.
Arrivammo.
Il posto, era situato in una zona boschiva, a qualche ventina di chilometri fuori la città ove stavo abitando. Nessuno ci sarebbe mai arrivato, se non tramite conoscenza accurata del posto: anche io non ne ero a conoscenza, se non mi fossi controllato tutte le nostre proprietà.
Infatti spiegai bene all'agenzia di catering, l'indirizzo dell'abitazione: per non perdere il nostro cibo.
La strada era sterrata e non permise alle limousine di viaggiare tranquille, ma comunque il viaggio fu esente da grossi problemi. L'abitazione era un villino, come notai il giorno prima e mi ricordai di portarmi le chiavi della casa. Solo per entrare, non sarebbe stato bello rimanere fuori casa per una settimana. A circa una ventina di metri dalla casa, precisamente alla sua sinistra, v'era un bellissimo lago. A circondare sia la casa e il lago, v'era una catena montuosa. E gli alberi, s'erigevano da una ventina di metri, alla sua destra, e quindi alla parte opposta del lago, che insieme andavano a finire sulla catena montuosa.
Entrammo in casa, mentre qualcun altro decise di stendersi sul manto erboso circondante la casa, fino all'inizio della strada. Il villino aveva un piano solo, evidentemente ristrutturato anche internamente.
Ci sistemiamo e ci facciamo un giro per la casa. Era visibilmente stato messo a nuovo, forse per l'occasione.
In quel momento capii perché mio padre, il giorno prima, non ci fece entrare.
Il villino era di un solo piano, più mansarda. Un cinquecento metri quadrati, di pura costruzione e meraviglia. Era contemporanea, quindi immaginatevi uno stile postmoderno.
Gli interni, consistevano in cinque stanze da letto e con letti matrimoniali, una cucina e un bagno in comune. Mancherebbe al mio appello, solo un'enorme sala comune, inclusa di: camino, tavolo da biliardo, libreria e un mappamondo per riporvi i vini pregiati. La sala, era caratterizzata, per ritrovarsi tutti insieme e poter socializzare al caldo. L'intera parete esterna, che partiva dal muro in parallelo alla porta accedente alla sala in questione, fino a due lati della stessa casa – quindi terminava al suo punto "obliquo" di destinazione – era caratterizzata da una lunga vetrata, che consentiva di vedere ai commensali l'esterno... senza essere poter essere spiati all'interno: infatti, sopratutto all'alba era la comodità più assoluta per poter ammirare il paesaggio esterno, ma il vetro era comunque anti proiettile: giusto per precauzione.
L'interno, o le parete interne, erano state rivestite con le mattonelle in cotto: giusto per dare un tocco montanaro. Alla fine, era in questa sala, che stavamo di più, tra libri, giochi di società e giochi all'aperto. Effusioni, poche. Sesso, meno di niente: nulla in pubblico.
Avremmo fatto tutte le faccende per mantenerla pulita, ma solo qualcuno di noi sapeva come fare e c'organizzammo i turni, per tutto. Chi si sarebbe messo in cucina, avrebbe avuto anche l'aiuto dei veri libri di cucina.
Facemmo anche conoscenza tra di noi, sopratutto tra noi ragazzi e le nostre care ospiti: non ci conoscevamo del tutto, ma avremmo pensato a recuperare la mancanza. Infatti, mi domando, alcune dove le abbiano prese: è una domanda a cui non saprei rispondere... non me l'hanno mai detto.
Una di loro era Isabel... aveva la mia stessa età, leggermente timida, ma avevo intenzione di parlarci di più perché c'era qualcosa di strano che mi attraeva a lei. Ricordo ancora i suoi capelli castani, la sua voce molto bassa, ma con quella carica emotiva... tale da poterti sempre ispirare e sopratutto i suoi occhi, sul marroncino chiaro: mi fissavano sempre, ma non per il nervoso... la trovavo bellissima quando lo faceva. Non sapevo se i miei sentimenti erano ricambiati e quindi decisi di capire fino a dove potessi spingermi con lei, quasi per voler approcciare qualcosa a colpo sicuro. Non le dissi nulla perché non volevo essere inopportuno fino a che non fosse il momento giusto.
Ammetto che c'era stato qualche scambio di sguardi più profondi e per essere onesti, anche qualche corteggiamento fisico, ma nulla di che. Nel contempo, tutto il resto sembrava per me non avere importanza: non avevamo molto da fare se non divertirci e sistemare le poche cose che mettevamo in disordine, ma cercai in tutti i modi di capire cosa Isabel cercasse da me. Anche per non rimanerci di sasso, nel caso non l'avessi più rivista: non avrei potuto sapere cosa lei provasse per me e io non avessi potuto confessare cosa io provassi per lei; e continuando il discorso, eravamo sempre insieme e ogni tanto capitava che si discutesse su qualcosa su cui si era un po' più in contrasto: o volesse attirare la mia attenzione... ero sempre disponibile, e quando mi chiedeva un qualsiasi cosa, l'accettavo senza replicare; ma anche se ero molto preso da quello che quello che stava nascendo tra noi, e con il senno di poi, avrei voluto, anche per una volta... anche al costo di sembrare uno stronzo... nonostante tutti i miei difetti... comandare io.
Gli altri, contemporaneamente al mio tentativo di corteggiamento verso di lei, cercarono anche loro di corteggiare le altre ragazze presenti in casa, ma non m'interessava tanto perché questa sarebbe dovuta essere solamente una vacanza estiva per far passare meglio poi l'inverno, ma fin da subito divenne più un'esperienza di vita in cui tutti quanti stavamo crescendo, a modo nostro, e volevamo dimostrare di potercela fare nel mondo reale: anche se eravamo dei fottuti ragazzini viziati, da genitori molto ricchi... solo per non usare il lavoro come sicuro metodo educativo. E per preservare la nostra dignità di persone nate ricche, purtroppo - e a mie spese - compresi che il significato della vita è che non è sempre oro quel che luccica e che chi troppo vuole, purtroppo stringe solo polvere.
Andando avanti nella vacanza, per via della nostra giovane età, imparammo prematuramente gli effetti dell'amore, ma ero io l'unico a non essere riuscito a trovare la mia anima gemella: non che sarebbe dovuto essere così per forza, ma la speranza sarebbe stata l'ultima a morire.
Al di là delle aspettative, aver trovato anche lui la sua metà in quel gruppetto perché tutti seguimmo la "Teoria dei giochi di Nash": diceva di non mirare tutti a un unico obiettivo, ma di mirare a obiettivi diversi per non avere essere rivali tra di noi. Infatti, cercai di capire perché Isabel aveva monopolizzato così tanto i miei pensieri, ma nulla stava facendo presagire a qualcosa... oltre l'amicizia.
Visibilmente, cercava un contatto umano molto più profondo con me: tra un abbraccio e un'effusione non molto controllata... anzi, timide; una delle ipotesi a cui arrivai, riguardava il possibile interesse da parte sua, ma solo fisicamente ed escludendo l'interesse emotivo. Però, per la mia sanità mentale, avrei tanto voluto capire perché avessi bisogno delle sue attenzioni ed ero determinato nel chiederle una valida spiegazione: non ero del tutto sicuro dei suoi sentimenti e non volevo essere rifiutato.
Non riuscivo ad avere la prova del nove sul fatto che potevamo essere qualcosa di più che due amici leggermente attratti fisicamente e intanto le donai quasi tutto il mio cuore nonostante tutto e come disse Dante, se tanto gentile e tanto onesta pare, non avrei potuto sapere se effettivamente sarebbe stato così: avrei dovuto rimuovere subito l'effimera barriera dell'apparenza dal nostro rapporto prima di pagare al fato qualsiasi forma di dazio, solamente perché non stavo avendo la merce di scambio adeguata.
«Isabel, tutto apposto?» – Le chiesi.
«Tutto apposto, grazie!» – Mi rispose, senza sprecare troppe energie.
Non era vero.
Era l'ultimo giorno di totale vacanza, prima del nostro ritorno alla normalità e perciò dovevo capire per non avere il rimpianto del "come sarebbe andata se..."; proseguendo quella serata, erano già le sei del pomeriggio e quindi era quasi calato il buio. Decidemmo di disporci vicino al lago, che era ad una ventina di metri dall'abitazione e appiccare un fuoco per riscaldarci tutti insieme, farci un bagno e mangiare le ultime scorte di cibo, prima di andare a dormire: così da trovarci pronti per la partenza.
Sopraggiunsero le otto di sera, mentre si perse tempo per preparare la cena e la luna divenne il nostro ultimo faro di luce. La casa non aveva fari abbastanza potenti da illuminare anche il lago, quindi decidemmo d'arrangiarci con quello che avevamo.
L'ultimo giorno, Isabel era diventata strana. Ogni tanto, la vedevo pensierosa, ma quel giorno più che mai. Quasi sempre, guardava l'orizzonte. Più cercavo di chiederle se fosse tutto apposto, e più lei mi diceva che lo era: dopo un po', non ci feci più caso. Da un momento all'altro, eravamo diventati sconosciuti. Non mi disse tanto, oltre ai soliti e fugaci abbracci. Dati quasi con disinvoltura, ma sentivo che qualcosa non stava andando nel giusto verso. Il suo respiro era affannato, ma solo ogni tanto, ma al mio chiedere, lei diceva che era apposto e cambiava argomento. Pensai davvero che fosse tutto apposto, ma la vedevo titubante nell'entrare in acqua, ma al mio chiedere se fosse tutto apposto, mi pose una mano sulla spalla destra e mi sorrise: tutto apposto. Per me, non lo era.
Ricordo ancora adesso il chiarore della luna piena... specchiante nell'acqua del lago stesso... noi che non eravamo molto distanti dalla riva, ma c'eravamo già tutti tuffati nel lago. Avevo già aspettato tutta l'intera settimana per chiederle la mano solamente per rendere tutto un po' più ufficiale, ma stando un po' più distanti dal resto del gruppo, sentii che il suo cuore era strano.
Avevo notato il suo rimanere minuti interi senza dire niente, come si farebbe quando si cerca di riflettere su pensieri importanti... dal primo giorno... anche se non c'avevo mai dato peso.
Fatale errore.
Il battito del suo cuore era leggermente fiacco, ma non ci diedi peso. Abituato a sentire il battito del cuore di mia madre: da piccolo, usavo poggiarle la testa sul seno, prima d'addormentarmi.
Non credetti subito a quella che era soltanto una vaga sensazione.
Pochi secondi e anche il suo respiro divenne leggermente affannato.
Non riuscì a dedurre cosa non andasse.
Avevo il sentore che qualcosa non andasse per il verso giusto già da quando era entrata in acqua, perché sembrava pensare a chissà cos'altro e non darmi le attenzioni di cui si era già fatta complice. Non pensavo minimamente a quello che sarebbe potuto succedere se si fosse perpetuata l'attuale situazione: non avevo scusanti, perché non l'avrei potuta aiutare in un'eventuale situazione di pericolo.
Eravamo tutti in acqua. Eravamo raggruppati in cinque coppie, abbracciati, bagnati e cercavamo di mantenerci a galla agitando i piedi.
Eravamo soltanto io, lei e nessun altro.
Lei mi guardò, con espressione innamorata e io feci lo stesso. Fece un accenno nel volermi baciare ed io feci lo stesso. Il mio cuore batteva all'unisono con il suo.
Battiti, emozioni e puro sentimento, in quei pochi secondi.
Ero pronto a rimanere per sempre in quella posizione.
Il suo cuore si fermò: non batté più.
Mi svegliai, uscendo dalla favola perfetta che l'amore sia eterno e immacolato.
La corrente s'accentuava sempre di più, mentre tutti gli altri erano in procinto d'uscire dall'acqua. V'eravamo rimasti solo noi, dentro: sia che il freddo e sia la notte, erano già calati sul mondo. Cercai, dunque, di nuotare, trasportando anche lei, per cercare d'uscire entrambi dall'acqua: ma la sentii debole. Il polso era quasi muto. Il cuore anche, ma si riprese dal recente blocco. Mi voltai verso di lei. Notai che era completamente pallida, con sfumature violacee sulla pelle e cercai di portarla velocemente al sicuro e all'asciutto: divenni cosciente che era in pericolo.
«Aiuto, Isabel sta male!» – Cercai d'urlare con le poche energie rimaste.
Nuotai sempre più veloce chiamando a squarciagola gli altri. Non sembrarono sentirmi. Nel mentre cercai di tenerla sveglia. I pensieri per cui mi consideravo un completo idiota fecero breccia nel mio cervello, ma cercai di resistergli. La chiamai, con fare nevrotico, perché mi stavo dannando per la stupida scelta di rimanere da soli: solo in quel momento capii che gli altri erano già tutti usciti dall'acqua. Volevo i miei genitori, anche solo per un consiglio, perché io non sapevo cosa fare, ma ero sicuro che la prima cosa da fare era portarci a riva.
Gli altri, visivamente erano a meno di una decina di metri, ma non ci stavano sentendo perché stavano tutti attorno al fuoco nel pensare ai fatti loro, mentre il fuoco faceva il proprio dovere di mantenere caldo il tutto e tutti loro. Lei sembrava essere stabile nella sua debolezza, ma cercavo di tener duro, mentre la stavo cercando di portare a riva, cercai di parlarle per tenerla sveglia.
«Perdonami, ti scongiuro!» – Mi disse tremolante e con riserbo.
«Perché?» – Le chiesi nevroticamente.
Ero traumatizzato, ma non capivo il perché di quella frase.
Detta così fuori luogo.
Avrei voluto fare molto di più, ma non ci stavo riuscendo.
Mi sentivo così impotente, ma per lei... avrei lottato fino alla morte ed ero certo soltanto di ciò: incominciai, già da quel nefasto momento, a considerare l'idea che potrei averla condannata a morte, senza neppure saperlo.
«Sto per morire... devi lasciarmi!» – Mi rispose... sempre tremolante: il riserbo divenne malinconia, troppo in fretta.
«Isabel, cosa stai dicendo?» – Urlai, ma fu un urlo strozzato.
Sgranai gli occhi. Cercavo di non mollare. Non mi fermai, ma il mio cervello cercò di metabolizzare. Sentii che non stava mentendo, ma cercai di portarla a riva. Nuotai sempre più veloce, anche per lei. Il mio parlare era sempre a vuoto, ma la mia volontà di portarla a riva era assoluta.
Nuotai allo stremo delle mie forze, per cercare di raggiungere la riva. Dovendo ringraziare chi me l'aveva insegnato, a nuotare. Cercai d'usare tutte le tecniche possibili, ma non riuscii ad andare più veloce. Maledii tutti gli altri compagni, perché li credevo essermi amici. Erano lì, tra le risate e attorno al fuoco, mentre a sarebbe toccato cercare di riportare Isabel viva e a riva, da solo. Serrai i denti, cercando di velocizzare la nuotata, infondendo le ultime energie, ma ormai sarebbe stata solo un'inutile fatica inutile. Tanto, che mi sentii tastare la schiena e mi voltai verso di lei.
«Rimani qui con me, ti prego!» – Continuò a parlare, sorridendomi e con voce timida e dolce.
Si voltò verso di me, cerando di allungare la testa verso di me mostrando le labbra come se fossero un premio.
Capii, per un naturale istinto, che avrei dovuto baciarla: così feci.
Ritrovandomi, per la prima volta, in una sensazione di puro paradiso, ma non era caldo ed avvolgente come quello dei film perché questo, con mia sorpresa, da caldo e avvolgente divenne freddo e distaccato.
Al mio riaprire gli occhi, il colore delle pupille dei suoi occhi era diventato molto più opaco.
Le toccai il polso, ma non sentii alcun battito, mentre continuai a portarla a riva. Aveva esalato il suo ultimo respiro per donarmi il suo cuore: in pratica, mi aveva consegnato la sua anima perché solo così saremmo potuti rimanere uniti. Urlai. Piansi ed urlai. Gli altri si voltarono, finalmente.
«Aiuto, ragazzi!» – Cercai d'urlare con le poche energie rimaste.
Continuai a chiamarli, tanto che ormai il panico mi aveva divorato, ma riuscii a portarla a riva, nel frattempo. Ci misi quasi dieci minuti, considerando che stavo trasportando anche lei.
La misi vicino al fuoco, decidendo d'aspettare.
Gli altri cercarono di farmi delle domande, ma quello che sentii erano soltanto lontane parole al vento. Era tutta colpa mia, ma non riuscivo a fare o dire altro, se non sperare che fosse tutto un brutto scherzo.
«Isabel, svegliati. Isabel, sei al caldo. Svegliati!» – Le dissi, tremante.
Avevo paura che non si sarebbe più svegliata, mentre cercavo d'accarezzarle la fronte e le stringevo la mano destra, ed ero tutt'uno sia con l'acqua e le lacrime. Ero visibilmente spaventato, terrorizzato, ma senza una briciola d'idea su cosa fare. Mi ripresi soltanto per chiamarla, mentre piangevo e chiedendo pietà. Gli altri mi fissavano e uno degli altri ragazzi le teneva il capo, ma non ci fu nulla da fare. Una delle ragazze chiamò l'ambulanza, sostenendo che la ragazza era già in gravi condizioni e che si richiedeva assistenza urgente. Ci fu poco da fare, il cuore le era già ceduto durante il bacio in acqua. La mia umanità morì con lei: avevo perso il mio primo amore, il giorno in cui lei mi aveva donato il suo cuore.
Il suo non batteva più da ormai quasi dieci minuti.
«È tutta colpa mia!» – Continuai a ripetermi ad alta voce, come un mantra.
Ero traumatizzato. Non sapevo cosa fare e non lo sapevano nemmeno gli altri. Non ero così tanto responsabile, come volevo far credere. Avrei avuto bisogno dei miei genitori... in fondo ero poco più di un ragazzino viziato: e certamente non avrei dovuto trascinarli in questa folle impresa.
I soccorsi ci misero una mezz'oretta ad arrivare, nel mentre cercammo almeno di farci forza tra di noi. Anche gli altri capirono che era morta e non ci sarebbe stato nulla da fare. Io le rimasi accanto. Silenzioso. Non riuscivo nemmeno a parlare. Non avevo ne voglia e ne intenzione di dire altro.
Tutto divenne fuori luogo.
Eravamo proprio distanti dal centro abitato, questo creò difficoltà con l'arrivo dei soccorsi, anche se ormai non c'era più nulla da fare. Gli altri chiamarono i propri genitori, ma io non lo feci. Sapevo che mio padre avrebbe ucciso anche me, se mai gli avessi detto qualcosa.
«Cosa cazzo le hai fatto per farla morire così? Mia cugina soffriva di cuore e tu l'hai portata in acqua sapendo che non poteva!» – Intervenne energicamente uno dei miei compagni di viaggio, quello che mi accompagnò anche il giorno prima... però seppi, solo in quel preciso momento, che era prima suo cugino, ma il suo intervenire fu cadenzato anche dal darmi un sinistro in pieno volto.
Caddi a terra... a sinistra del corpo di Isabel: cercai di connettere i miei unici due neuroni rimasti, mentre ero ancora sotto shock.
«Isabel è tua cugina? Non me l'ha detto nessuno. Non sapevo che soffriva di cuore. Me l'avrebbe detto, se non voleva venire. Sarei rimasto fuori, non credi? E poi ho notato che c'era qualcosa che non andava quando era già troppo tardi. Nessuno mi ha avvisato della sua malattia, quindi non potevo assolutamente saperlo. Avresti potuto dirmelo e invece non l'hai fatto!» – Lo fissai, forte della mia ragione, in quei occhi pieni di rabbia, mentre gli risposi massaggiandomi la mascella dolorante.
Aveva la mia età, ma non sapeva cosa io provassi per lei e io non sapevo che lui fosse il cugino. Ne venni a conoscenza solo in quel preciso momento.
Non mi alzai.
Gli altri cercarono di trattenerlo: mi avrebbe scannato per la sola forza della disperazione. Rimasi anche io sotto i spenti sguardi degli altri, proprio per evitare che potessi fare qualche gesto sconsiderato. Mi sentivo in colpa perché avrei potuto salvarla, ma fallendo. Non dovevo desistere nel pensare con la mia testa, invece d'ascoltarla incondizionatamente, ma alla fine non ho potuto fare nulla per lei, se non recuperare il suo corpo per una degna sepoltura.
Alla fine, i soccorsi riuscirono davvero ad arrivare e la portarono in barella. Il cugino... che era arrivato qui nella nostra stessa limousine, chiese d'andare in ospedale, anche per fare il riconoscimento della vittima così da poter reiterare la nostra certa innocenza da una possibile e sicura accusa d'omicidio colposo.
Ci trovarono tutti con gli occhi gonfi e lucidi per le lacrime: la mascella mi fece ancora molto male, ma decisi di non denunciarlo... era il prezzo intrinseco per la mia responsabilità.
Testimoniammo comunque.
Arrivò, insieme alla polizia, un tizio non vestito con la divisa, ma indossante uno strano impermeabile nero. Il volto del tizio era incredibilmente serio, torvo e pensante chissà cosa. Alzò il telo appoggiato su Isabel. Strinse il pugno destro, forse per rabbia o per altro. Non avevo mai visto tanta malinconia o rabbia tutta insieme.
Mi vide.
S'avvicinò a me come un mastino inseguitore della sua preda, infatti mi rivolse un'espressione alquanto arrabbiata, ma sperai che non ce l'avesse con me e che mi ritenesse colpevole. Avevo appena perso l'amore della mia vita, ma lui mi sembrò così preso dal caso che quasi il lutto fosse il suo.
Mi fissò. Nel farlo, mi diede una pacca sulla spalla e non parlò.
La tolse subito dopo.
«Sono il detective Foulieur. Sto collaborando con la polizia per un caso e questo sembra collegato al mio. A quanto pare, a una rapidissima occhiata, la causa del decesso è l'ipotermia. Mi sai dire com'è successo?» – Mi chiese il detective, mostrando il distintivo. La sua parlata era tranquilla, pacata e rispettosa del nostro lutto, almeno empaticamente.
«Soffriva di cuore, ma non sapendolo siamo andati a fare un bagno nel lago e ci siamo baciati. Nel mentre, sentii che il cuore le s'era fermato, ma è morta per la mia ignoranza» – Parlai solamente con il detective, ma anche a lui non dissi molto.
«Perché mi stai dicendo che sarebbe morta per la tua ignoranza... perché?» – Mi chiese sempre il detective, con voce composta e stante vicino a me.
«Perché nessuno mi ha detto che soffriva di cuore e se l'avessi saputo, mi sarei potuto comportare di conseguenza. Se solo l'avessi saputo!» – Mi chiese sempre il detective, composto e vicino a me.
Volevo urlare, ma non ci riuscii. Trattenni a stento le lacrime, ma non ci riuscii lo stesso. Non riuscii nemmeno a salutarla, Isabel. La coprirono del tutto, con un solo velo bianco, solo dopo la nostra veglia funebre... forse per rispetto. La portarono via e nella sera, anche gli altri si fecero venire a prendere dai propri genitori. C'era più nulla da fare, se non che affermare la causa del decesso.
«Causa decesso: Infarto con ipotermia» – S'enunciò il referto medico.
La mattina successiva ci rialzammo senza tanti problemi: tanto eravamo già distrutti emotivamente, per via della morte di Isabel... per quello che ne potevo sapere dagli altri.
Ero rimasto solo io in quella casa. Dunque decisi di andarmene: chiusi tutto e cercai di tornare alla normalità, una volta arrivato a casa. Chiamai la limousine che mi portò all'andata. Per tutto il viaggio, pensai a lei: mi sentii responsabile della sua morte, e mi mancava da morire. Capii che avevo perso... sopratutto la mia verginità riguardo la morte: peggiorato dall'aver conosciuto l'amore così presto e così prematuramente che vi dovetti rinunciarvi, per sempre.
Arrivai quasi a casa, dopo una mezz'oretta trascorsa nella limousine: di certo non avrei guidato io. Superando la lunga via del ritorno ed evitando i pensieri suicidi: tanto non stavo guidando io. Andati a farsi fottere dalla mia apparente forza di volontà, che s'era rivelato solamente ego perché non potevo essere io quello che ha perso la ragazza in un lago. Non fraintendetemi: non volli essere considerato un ragazzino ricco e viziato che si diverte a fare l'emissario di un dio pagano. Non mi hanno mai pagato per farlo. Gli uomini non "posseggono" il "dio". Una volta che si è perso l'emissario, non vi è più nemmeno il dio. Il Dio Denaro ha sempre bisogno di emissari, che aumentano il servilismo nei propri credenti: l'unica guerra di religione ammissibile, è quella che ha dato origine a tutte le altre.
Tornando a noi, non sia sempre quello che si vede sia la verità delle cose perché era davvero la ragazza che amavo e che mi è morta tra le braccia, a causa di un destino che mi avrebbe seguito per tutta la vita: sopratutto non avrei più avuto la possibilità di rimediarvi. Alla morte non si può rimediare, mai.
Tornai, come ho già detto, a casa sano e salvo. Trovai alcune macchine dinanzi all'entrata principale di casa mia e mi coprii la testa ed il volto, lasciando solo gli occhi... utilizzando una sciarpa e un cappello. Una folla contante... almeno una cinquantina di persone, contai. Mi chiesi cosa stessero facendo, o anche il misterioso motivo che li ha semplicemente radunati qui: stavano attendendo qualcuno, o qualcosa.
«Cosa sarà successo?» – Mi chiesi sotto voce.
«Vedo che siete atteso, entro lo stesso?» – Mi chiese l'autista, con tono altezzoso e leggermente scocciato.
Mi recai dalla piccola folla di curiosi che sembrava aspettare qualcuno, ma la situazione sembrava strana: non avrei mai voluto che la notizia della morte di Isabel, fosse già arrivata alla stampa.
Era la prima cosa a cui pensai e se fosse stato davvero così, non avrei avuto scampo: mi avrebbero scannato anche loro; ormai ero vicino alla folla, tanto che avrei potuto toccarla con mano. Notai un gruppo di giornalisti, vicino al cancello, che era intenta ad aspettare qualcuno, in silenzio e con il resto della folla che attendeva il momento quasi attaccare, ma i miei e nessun altro, sembrò uscire, per cercare di contenere la folla.
«Mi scusi, ho notato tutte queste macchine parcheggiate davanti il cancello... mi saprebbe dire cosa sta per succedere?» – Chiesi ad uno di loro, cercando di modificare la voce... per evitare di farmi riconoscere.
«Al giornale abbiamo avuto una telefonata anonima che ci avvertiva di un caso di droga da parte del proprietario di questa casa: neanche noi sappiamo chissà cosa. Non è arrivato ancora nessuno a darci una spiegazione, ma potremmo soltanto aspettare, figliolo» – Mi notò subito e mi rispose con voce bassa... forse per non farsi sentire dagli altri suoi colleghi.
«Mi sembra proprio strano, ma non credo che siate stati gli unici a ricevere questa telefonata anonima: qui ci saranno al massimo venti persone» – Risposi con qualche riserva, perché dovetti pensare a qualcosa da dire senza correre il rischio di essere scoperto.
«Non so altro che possa far spiegare tutto questo casino, ma spero che si possa arrivare ad un punto di arrivo molto presto. Intanto vedi di coprirti che sta per piovere a dirotto a dirotto» – Lui mi rispose di getto.
Notai che aveva ragione. Stava iniziando a piovere violentemente e mi diressi verso la limousine parcheggiata a due isolati di distanza: chiesi all'autista di portarmi verso l'entrata d'emergenza. Usata proprio per queste occasioni: lui non si fece molte domande e seguì le mie indicazioni. Non avrei, per nulla al mondo, sopportato che si gettasse fango su di una notizia... già di suo... tragica tanto che non riuscirò neanche ad andare all'obitorio per via dei miei molti ed inutili rimorsi: la vorrei ricordare viva e raggiante.
Casa mia era stata costruita proprio come se fosse una cattedrale: sopratutto l'esterno, ma era comunque la casa aveva due piani e la mansarda. Le stanze da letto erano tutte al piano di sopra, ma la cucina, lo studio di mio padre e le stanze "per il pubblico", erano al piano di sotto. Aveva almeno una settantina d'anni, quando il mio bisnonno la fece costruire perché aveva incominciato a guadagnare molti soldi, ma non capii il come avesse fatto. Mio padre non me l'ha mai voluto rivelato. Avrei una vaga idea di quando lo potrò sapere: mai. Tornando indietro, stare dentro casa, sembra come stare in una specie di castello, più che di cattedrale, ma abbiamo tutte le tecnologie attuali e se non qualcosa di più: probabilmente.
Tutto avvenne molto velocemente: entrai in casa, mi tolsi i panni bagnati dalla pioggia dopo essermi tolto la giacca nel parcheggio di casa e le chiavi nel piattino vicino la porta di casa. Cercai spasmodicamente qualcuno che potesse capirmi perché non ce l'avrei mai fatta assolutamente a tenermi tutto dentro, per colpa del mio carattere molto introverso, ma in quel momento di assoluto smarrimento, vidi mia madre guardarmi. Dal suo sguardo traspariva una preoccupazione tale, come se stesse cercando di trasmettermi qualcosa a livello empatico, con quei suoi occhi lucidi ed azzurri che le stesse lacrime sembravano risaltare quel colore così vivo.
«Non ho potuto fare nulla, mi dispiace» – Le dissi con il cuore malinconico e stretto in gola.
«Non fa niente, caro» – Lei mi rispose, con tono pacato e schietto.
Senza dire o fare altro, mi portò a se e mi abbracciò. Per circa cinque minuti: in cui nessuno dei due emise un fiato, divenendo solo due cuori che viaggiavano alla stessa frequenza e, per la prima volta, lei mi sembrò molto più vicina di quanto non avrei mai potuto immaginare.
Non eravamo molto legati.
Ebbi tempo di riflettere, tanto che arrivai alla reale conclusione che l'unica colpa davvero mia fu quella di innamorarmi davvero e di fare in modo che lei morisse senza riuscire a fare nulla per cercare di salvarla, ma riuscii soltanto a razionalizzare l'intera vicenda capendo solo che ha cercato solamente avere l'ultimo ricordo della sua vita fuori da ogni sofferenza: solo che ha scaricato tutto su di me il peso della sua memoria; rimasi avviluppato a lei per un tempo quasi indefinito, tanto che lo ricordo con poca nitidezza, ma ricordo che cercò solamente alla fine di stringermi a se per confidarmi quello che era il suo più grande segreto.
«Dovrai essere forte in futuro: non potrai comprarti il diritto di vivere solo con i soldi. La vita è sempre in salita e dovrai crescere. Fatti coraggio: ti voglio bene e so che ce la farai» – La sua voce era rassicurante, ma piena di forza, anche se mi strinse leggermente di più nel suo parlare.
Evidentemente, mi stava soltanto cercando di proteggermi da quel mondo disilluso... solo perché non voleva che indurissi il mio cuore di fronte alla vita e apprezzai il suo tentativo. Cercai di risponderle con calma, ma ero triste e lei lo aveva capito: cercavo d'essere forte, ma il vuoto dentro di me non mi permise d'essere più forte di così... pere quanto possano valere le mie scuse, ne persi le parole.
«Mi manca davvero, era quella giusta!» – È l'unica cosa che seppi dire, per giunta con malinconia.
Mia madre, l'unica volta in cui davvero mi sembrò davvero umana e presente nella mia vita, mi diede quasi l'impressione di non essere più la persona con cui avevo vissuto tutto quel tempo. Era sempre stata una persona superficiale, più che altro. Sapeva che ero suo figlio solo per l'elenco di Natale, altre cose in cui erano presenti i soldi e quando ne parlava con le sue amiche. Mi staccai da lei perché stavo diventando grande e avrei dovuto fraternizzare con la sorella Morte: giusto per non rimanerne vittima per sempre.
Non so rendo l'idea, ma la vita prosegue lo stesso e ogni tanto fotte anche te.
«Grazie, ho capito la lezione!» – Le dissi con risentimento, nello staccarmi.
Ritornai in camera e mi ci chiusi a chiave, mentre riuscì a sentire le sirene di una volante della polizia che si stava avvicinando verso casa. Il citofono di casa mia suonò. Lo seppi solamente perché era collegato anche con la mia camera. Sentii il cancello aprirsi, ma decisi di vedere tutto dalla le persone che v'erano appostate non si decisero nel togliersi da davanti: evidentemente l'aprirono i miei. Lo vidi dalla finestra di camera mia, che dava sull'entrata di casa.
Tre pattuglie della polizia entrare dentro casa propria. Erano appostati fuori il cancello, ma fecero subito sfollare la zona: per ovvi motivi di sicurezza e per cercare d'entrare. Entrarono senza problemi, tanto che la folla si divise in due, proprio per permettere l'accesso alle forze dell'ordine.
Io scelsi d'uscire dalla stanza e di scendere per vedere cosa stava succedendo. Gli agenti irruppero armati... in casa... e rimasi di fronte all'uscio della porta camera mia.
M'avevano scoperto, pensai.
Il cuore batteva velocemente, ma non collegai quello che stava succedendo... a quello che mi aveva detto il giornalista, appostato fuori casa mia. Fuori ancora pioveva, ma per un solo momento: pensai che fossero lì per me, anche se non ho mai saputo chi fece la soffiata alla stampa.
Mi videro, ma appena mi videro non sembrarono calcolarmi.
Si recarono dentro lo studio di mio padre. Che in quel momento era proprio lì e gli misero le manette. Lo studio era abbastanza grande, ma non aveva nessun'altra porta che affacciasse verso l'esterno... un'unica e grande vetrata, stante sia dietro la poltrona e sia la scrivania, caratterizzava una stanza in stile settecentesco: mobili antichi... legno pregiato, alla mia destra una grossa libreria e al lato sinistro, una porta con una tastiera di sicurezza. Non ho mai saputo cosa ci tenesse lì dentro, ma in realtà non ho mai conosciuto gli affari di mio padre. Qualcosa mi diceva che erano talmente oscuri, i suoi progetti, che non rilevava nulla nemmeno a mia madre e credo sia per questo, che non si siano mai prodigati nel darmi un po' d'affetto.
Li attese lì: nel suo studio. La sua espressione era da condannato a morte, sopratutto quando osservò Foulieur arrestarlo di persona. Non avevo idea del motivo per cui lo stesse arrestando proprio lui. Lui non fiatò per niente, forse sapeva della autenticità dell'arresto e dello stesso movente, ma non era comunque un bello spettacolo e me ne resi conto, solamente dopo che stava per oltrepassarmi in manette, per uscire da qui. Rimase calmo e mi guardò, con la espressione di chi sapeva d'aver sbagliato e voleva il mio perdono.
«Lei è in arresto per possesso di metanfetamina: hai il diritto di rimanere in silenzio, hai diritto ad un avvocato e solo se non potrai permetterlo... te ne sarà assegnato uno di ufficio. Tutto quello che dirai, potrà essere usato contro di te in tribunale!» – Sentenziò il poliziotto che notificò l'arresto, ma il suo tono era stranamente basso. Il suo sguardo era severo, ma non disse altro.
M'osservò. Solo quando se ne andò, mi ricordai che era il detective che m'aveva interrogato per la morte di Isabel: forse si sarà indispettito vedermi collegato con quest'arresto, o non saprei cos'altro possa essere successo.
Se ne andarono molto velocemente: non ci furono complicazioni.
Mia madre non parlò, nemmeno uno sguardo. Neanche io le dissi niente e mi recai di nuovo in camera mia. Non sapevo cosa pensare. Tutta la mia vita aveva già toccato il fondo, ma sapevo che al peggio non ci sarebbe stato mai una reale fine. Cercai di dormire, da quella notte in poi, nonostante tutto quello che mi era già successo, nonostante fossi tanto giovane e non abbastanza maturo da riuscire a gestire una cosa del genere: il primo amore morto per collasso e mio padre in carcere, per aver semplicemente acquistato della droga... non avendo fatto male a nessuno, ma bisognerebbe evidenziare tutti gli elementi del caso; potrei rimanere addirittura da solo, se la morte continuasse a prendersi cura delle poche persone a cui voglio bene, ma alla fine alla morte non v'è un vero rimedio. Ogni tanto, la inserisco... Isabel, nei miei sogni, per stare da solo con lei.
Nel proseguo nel tempo, cercavo di tenermi tutto dentro. Non volevo mostrare al mondo i miei problemi e il mio probabile malessere verso il mondo intero.
Ebbi anche modo di ripensarci... riflettere, verso Isabel e ai pochi giorni in cui riuscii a stare con lei: sembra quasi che io la possa sempre vedere, qui di fianco a me e sono convinto che sarebbe stata con me, nonostante i miei soldi e i miei difetti, ma tutt'ora... credo che lei sia l'unica donna che avrei fatto entrare nel mio cuore... senza chissà quali trucchi: le avevo già donato il mio cuore, perciò la follia di tutta questa storia... risiede nel suo custodire il mio cuore, dentro la profondità di quello stesso lago... dove io ho perso per sempre parte della mia vita e non saprò mai come sarebbe andata a finire.
Ogni notte, da quello strano giorno, mi addormentavo e sognavo sempre lo stesso film: "Racconti di un'eroe". Tutto inizia in una notte di mezza estate, in un castello di montagna con vicino un grande lago: dov'è importante solo se v'erano il re... e la sua regina al suo fianco... a governare il loro mondo. Ma una sera e durante una festa di paese con tutti gli altri nobili, lei inaspettatamente decise di rinnovare, la promessa d'amore verso il suo amato.
Lui non aveva la minima idea che per poterla accettare nuovamente, avrebbe dovuto indossare di nuovo l'armatura del fedele amante. Il re, inconsapevole del tutto, ricevette comunque l'invito di comparsa alla riva del lago adiacente al loro castello, con tutti gli ospiti che avrebbero assistito al loro pegno d'amore.
Il loro pegno d'amore, consisteva nell'immergersi nel lago, in cui si diceva che avrebbero ricevuto nuovamente la benedizione dal fato, ma al momento della loro immersione nel lago, rivelato alla coppia se sarebbero stati ben voluti dalla natura della terra, ma dalla natura della terra, al momento dell'immersione nel lago, un potente maleficio porterà lei a svenire nel lago subito dopo il rinnovo della proposta d'amore e morire di "destino fatale", facendo in modo che lui non riuscirà più a vedere il bel mondo che lei gli aveva fatto conoscere e con la morte di lei, cadrà in una profonda depressione che lo porterà a conoscere la sua fine nelle stesse acque ove aveva perso lei la vita. Nel disperato tentativo di trovare lo stesso destino incontrato dalla sua amata.
Il sogno finiva sempre con me che mi svegliavo pieno di sudore perché mi ero lasciato andare nelle fredde acque del lago.
Il tempo anche per me andò avanti, ma non riuscii a dimenticarla: nonostante sia passato un anno, ma non m'ero ripreso. Mio padre era ancora dentro per la storia della metanfetamina, come volle la sfiga. Non m'ero mai interessato ai suoi affari. Sono però sicuro che non ne caverà con poco: ci bastò poco per rischiare il congelamento dei nostri fondi, per via che comunque stava avendo una moglie ed un figlio minorenne a carico e l'onta pubblica era già abbastanza dura da sopportare ed anche a scuola stavo incominciato ad avere degli alterchi con altri coetanei per via di questa mia appartenenza perché lui era mio padre e mi aveva donato la vita anche se anche io avrei condannato una cosa del genere, ma lui era pur sempre mio padre. Non ci tenevo a rovinarmi la reputazione di ragazzo onesto, anche se ero molto depresso e non mi facevo vedere molto in giro sia perché ottenni una specie di consapevolezza nel non farmi coinvolgere nei sentimenti, se avessi voluto essere una persona pubblica e non ricattabile, sia non volevo avere nessun altra persona che potesse influenzare così tanto la mia vita come l'aveva fatto Isabel e non avrei voluto perdere quel poco che mi rimaneva.
Senza rimpianti si vive meglio e non bisogna sprecare tutta la propria vita a piangersi addosso.
Passò precisamente un anno dalla morte di Isabel. Nulla era cambiato da allora. Ero praticamente diventato un fantasma. Nessuno s'avvicinò più a me per la mia disavventura. Le uniche notizie su di me vennero rilasciate su di una rivista scandalistica: riguardavano una testimonianza anonima riguardo il mio essere la causa della morte di Isabel. Quando lo venni a sapere, diedi di matto e contattai il direttore del giornale per avere informazioni sulla fonte, ma venni accusato, nonostante il mio pormi alquanto gentilmente, d'essere un nemico pubblico, per via del fatto che uccidevo chiunque mi stesse attorno e che provava a volermi bene: provai a rilasciare un'intervista in cui parlavo di atti che erano stati sigillati da poco, ma ci tenevo di ribadire che anche dal referto medico non emerse nulla che la potesse riportare a me, tranne le mie impronte prodotte tra il bacio e il mio inutile tentativo di portarla in salvo e quindi non saprei cosa stava balenando a questi qui tanto che, facendo un'inchiesta, risultai essere nell'innocente ragione io ed attuai la mia vendetta. In poche parole: feci chiudere il giornale per diffamazione legata ad un caso archiviato, denunciai con vittoria al processo - in direttissima - dei giornalisti che avevano diffuso la notizia e di chi mi aveva denunciato, scoprendo essere l'unica persona verso cui non avevo alcuna remora morale: il cugino di Isabel. Non mi perdonò la negligenza, attribuendomi tutt'ora la colpa della sua morte, ma io l'attribuirei a lui, perché non mi aveva confessato quello che era il suo male. Entrambi sapevamo che lei non me l'avrebbe mai detto: non saprò mai se per timidezza o per orgoglio; quel che contò, all'epoca dei fatti, fu il riuscire a discolparmi da ogni mediatica accusa... rilasciando persino un articolo con cui cercavo di dimostrare la mia innocenza: donando le versioni degli esperti del caso di Isabel... per ogni singola accusa rivoltami, con le scuse ufficiali dei giornalisti fraudolenti. Basti sapere che le mie impronte presenti su Isabel non rilevarono alcuna mia volontà nella sua morte, ma solo nell'inutile tentativo di portarla in salvo.
Passando il tempo, riuscii a tagliare i rapporti con tutte le persone che avevo conosciuto, perché non riuscivo più a fidarmi di quelli che consideravo i miei migliori amici: avevo avuto prova del loro quasi servilismo, ma consumai molto del mio tempo a disposizione nei videogiochi di ruolo e lì volevo essere il migliore. Potevo permettermi di spenderci tutto quel tempo, ma per me era principalmente un modo per staccare da ogni sofferenza patita, anche se non m'ero mai sentito davvero appagato perché... purtroppo, mi sarebbe mancato sempre qualcosa: Isabel.
La malinconia sembrò rompersi, quando un giorno... per caso, su una rivista di settore, lessi di una giocatrice professionista del gioco a cui giocavo anche io: il suo personaggio era una principessa di nome Crystal. Era una dei giocatori più forti del gioco e aveva l'avatar del profilo molto simile a Isabel. Cercai di non ricadere nella depressione, ma non ci riuscii... nemmeno per una stupida idea... e cercai di parlarci nonostante la curiosità sia stata molto forte fino al mio riuscirci. Subito fantasticai sul poterla incontrare: arrivai a credere che la giocatrice dietro Crystal, potesse davvero quella perfetta... mi sarebbe bastata anche una copia di Isabel, perché lei non era più con me.
Decisi di contattarla.
Quella stessa notte, invece, accadde di sognare lo stesso film di sempre e non vi era nulla di diverso, anche se avrei voluto notare qualche cambiamento per via del mio cambiamento: invece non successe nulla perché lei non era Isabel e quindi non potevo porre fine al mio sogno.
Se non trovando davvero la mia regina e poter indossare la mia armatura.
Contavo d'essere solo e di volerci rimanere, ma la mia missione per isolarmi e distaccarmi dal resto del mondo mi stava riuscendo abbastanza bene: trovarsi a rifiutare ogni tipo di rapporto, per non calcolare ogni pensiero e ogni tipo di rapporto, solamente per verificare che non stanno tramando qualcosa alle mie spalle. Ed è per fortuna che potrei definirmi uno stronzo; soltanto calmandomi potrei affermare che l'essere diffidente, mi aveva portato dei frutti perché ero più rilassato e disinvolto: senza problemi.
Anche sorella Morte rese tutto più facile: mi resi diverso dagli altri... anche se sempre in una fossa sarei finito come gli altri, ma quello che avrei potuto fare meglio era riflettere sia sulla posizione sociale e sia sulla possibilità d'ottenere qualche risultato nella vita, raggiungibile... se non con il duro e sano lavoro. Se si vuole qualcosa: non ci si deve ostinare a rimuginare e senza voler fare niente per migliorarsi. Siamo l'unica fottuta specie animale che vuole sopravvivere a discapito degli altri stessi elementi della nostra specie. Per colpa dell'edonismo e della proprietà privata... dettata dal solo senso di depredare tutto, solo per la propria sopravvivenza.
Passarono pochi mesi dall'anniversario della morte di Isabel, proprio per avere un ordine nella mia vita, decisi di concedermi un attimo di riflettere per il mio futuro, capendo... una volta per tutte, che avrei dovuto pensare con la mia testa
e non avrei più accettato critiche da nessuno: anche mia madre fu arrestata, processata per direttissima e condannata per tentata corruzione. Sul verdetto, v'era segnato che sarebbero stati soli due anni di arresti domiciliari. Tutto per cercare di scarcerare mio padre, che nel frattempo era stato mandato in uno di quei strani centri di riabilitazione, proprio per evitargli il carcere, ma lei fu fregata dallo stesso giudice che conosceva da quando erano entrambi amanti, al college: me lo disse, per darmi la motivazione del suo arresto. Non ricordo il nome del giudice, ma credo che il suo nome fosse Harrison.
Che assurdità che è la legge degli uomini.
Ero un insano portatore di un lutto e anche di morte e avrei potuto bersagliare chiunque per cercare un legame sentimentale o soltanto dell'affetto gratuito. E inoltre, ero solo un ragazzino che amava la quiete per cui, nonostante avessi una villa per casa, non volevo che sconosciuti entrassero nella mia vita solo per doverne ripulire i rifiuti una volta lasciata e lasciai perdere anche il solo esternare i miei sentimenti.
L'appuntamento che ebbi con la Crystal del videogioco, che eviterò di citare per non dargli altro credito, fu l'esempio perfetto con cui mi potei misurare nel regolare la mia misantropia. Avevo trovato il modo di contattarla e mi finsi uno sponsor che voleva investire su di lei, per eventi inerenti ai videogiochi di ruolo: lei accettò. Quel giorno ero felicissimo, ma senza troppe pretese. Salutai frettolosamente mia madre, la cameriera e uscii. M'ero vestito di tutto punto, e in fondo era un appuntamento. Ci demmo appuntamento in un comune bar, proprio per questioni di tranquillità.
Il bar non era chissà cosa, come dissi prima.
Era una di quelli provenienti dal modello Happy Days: la serie televisiva.
Aveva tutti i tavoli disposti sul lato di fronte la porta d'ingresso. I tavoli erano in legno intarsiato e lavorato a mano. Il juke-box, pure c'era. Il bancone era disposto in orizzontale, rispetto alla stessa porta d'entrata. Io entrai, perlustrando il posto. Mi posizionai in una saletta privata del locale: anche se comunque, in quel momento, non c'era nessuno.
Non ci mise tanto, lei.
Ero in anticipo, anche se approfittai dell'assenza d'altri clienti nel bar. Il tutto era stato pensato per essere senza impegno, il mio passare lì. Passò, nel cercarmi, qualche minuto perché mi misi in un'ala del bar leggermente più riservata. Mi vide. Io vidi lei. Lei era molto bella.
Non era chissà quale cima... d'altezza, un metro e settanta e nemmeno chissà quale peso... una settantina di chili, abbigliamento stile punk, anche se molto ordinato e pulito. Capelli neri. Occhi verdi. Era davvero come Isabel. I miei occhi si sbalordirono per me, lei lo capì, ma la sua reazione non fu per niente prevista: notai che era più grande di me di almeno cinque o sei anni. Lei non capì chi fossi, anche se m'identificai.
«Crystal, sei tu?» – Le chiesi, mentre il cameriere ci posò il caffè sul tavolo.
«Si, ma come fai a sapere il mio nickname?» – Mi chiese, leggermente stranita e curiosa.
«Sono... Arwin... quello che...» – Le risposi, senza alcuna malizia... da parte mia. Mi alzai per presentarmi.
«Ma quanti anni hai, giusto per sapere?» – M'interruppe, alquanto stranita.
«Quindici, perché?» – Le chiesi io, con innata curiosità.
«Torna quando sei più grande, puffo!» – Sentenziò, mostrandomi una smorfia di contrarietà.
«Fai attenzione a non adescare anche altri minorenni, stronza!» – Le risposi di getto, che per era più che innaturale... come comportamento.
M'alzai dalla sedia, arrabbiato e me ne andai via da quel luogo senza proferirle altre imprecazioni. Lei mi squadrò, con espressione sbigottita ed incredula a quello che aveva appena sentito: da quel momento, capii che dovevo essere più sicuro di me per poter realmente fare breccia nella sensibilità delle persone e che avrei dovuto utilizzare le loro paure per fargli fare qualsiasi cosa era in mio volere; m'ero stancato di essere trattato come un quindicenne idiota, soltanto perché il mio corpo non molto massiccio diceva ciò, ma ogni tanto cercavo anche di trovarmi a parlare con ragazzi più grandi: sopratutto nel trattare di quello che mi piaceva fare nel mondo virtuale come videogiochi e vedere film. Ero simile ai miei coetanei soltanto per l'essere viziati da tanta avidità, tale da non poterne mai a meno, soltanto perché sono nella condizione di poterlo essere: così avidi di soldi che, alla fine dei giochi, appena ce li hai, ti rendi conto che sono già crollati come polvere, perché quello che conta davvero è il potere perché ti permette di essere in cima ad una fottuta catena alimentare dell'uomo. Ed era proprio questo che mi ha attirato ad Isabel: lei non era attaccata al mio "avere", ma ero io ad aver bisogno di lei.
Un giorno come tanti, mi ritrovai a scoprire i sparatutto in prima persona e mi ci appassionai: forse per un'indole primitiva nella competizione di massa e nel volere uccidere le proprie prede, per riscattarne una specie di prestigio. Mi ci appassionai sempre di più e feci in modo di cercare qualcuno che aumentasse realmente il grado d'interattività con gli stessi videogiochi. La grafica non mi interessava molto, se era interattivo. Ero interessato a qualcosa che mi potesse davvero calare in una realtà virtuale talmente realistica che potesse catturare la
vera essenza dei giocatori, in modo da non avere più nessuno attorno a me.
Adesso vi racconto una storia: qui avevo già sedici anni.
Un giorno mi trovavo in quello che era un piccolo studio di registrazione per uno di questi progetti. Fortunatamente, lo studio non distava chissà quanto da casa: avrei comunque studiare e tutto il resto. Il tutto sarebbe potuto diventare davvero importante perché gli sviluppatori mi garantirono il realismo che sicuramente cercavo: mi dissero che ci sarebbe voluto solamente il tempo per implementare le ultime modifiche e che il tutto sarebbe stato pronto anche in giornata; difatti, il giorno dopo la telefonata, mi recai presso il loro studio e mi dissero d'avere finalmente il prototipo promesso. Mi fecero entrare dentro una specie di stanzino, dove mi chiesero d'aspettare ancora cinque minuti, perché dovevano finire di preparare il macchinario per il test. Solo dopo, mi dissero che mi ci avrebbero portato senza altri problemi. Però entrai qui dentro, ma non v'era nemmeno una luce. Cercai un modo per accendere la luce, ma nulla.
Mantenni il sangue freddo.
Non v'erano interruttori visibili e cercai di tastare i bordi della porta. Cercai anche d'uscire, ma la porta era chiusa dall'esterno, ma appena arrivai a quello che sembrava essere un interruttore, sentii uno spiffero d'aria passante dietro il mio collo, oltre a qualche altro rumore... forse di passi, ma il tutto terminò con un mancamento, che avvenne dopo pochi secondi dal mio entrare lì.
Svenni.
Mi ripresi.
Mi ritrovai seduto su di una sedia a rotelle e mi stavano trasportando dentro un centro di ricovero, indossando una camicia di forza e tutti i quattro arti bloccati. Sentivo il fremito delle cinghie e il peso della camicia di forza. Tutto per evitarmi la fuga o almeno così poteva sembrare, ma non riuscivo a intuire altro: fino a che non riuscii ad entrare dentro a questa specie di posto molto aristocratico... simile ad un villino: sembrava una di quelle ville dei film horror, posta solo per rendere eccellente quello che avviene all'interno. I miei livelli di timore e d'agitazione erano reali: tutto era vivo, tutti i dettagli erano curati alla perfezione: arrivai a pensare che m'avessero rapito, portato da qualche parte e venduto a chissà chi. La ragazza che mi stava portando a fare il giro della casa, si fermò e mi portò in una piccola camera ove, di fronte all'entrata, v'era un letto. Era piccolo pure per me: sarebbe stato perfetto per un bambino piccolo. Appena chiesi di potermi liberare e uscire, un macellaio sbucò da un'altra porta e incominciò a urlare qualcosa. Credo fosse russo. Cercò d'afferrarmi il braccio destro. Ero bloccato sopra quella dannata sedia: senza alcuna via di fuga. Nella foga, estrasse un machete con l'altra mano: ero talmente infermo, che non si sforzò nemmeno d'affermarmi con due mani. Una gli sarebbe bastata. Questo russo, era grosso: molto, grosso. Sui due metri e venti. Sulla targhetta posta sul pettorale destro, aveva una scritta su cui era scritto "Serghei". Capelli neri, lunghi. Forme definite, e ideologicamente, tanto forzuto da poter fine a tutte le mie sofferenze: con un solo pugno. L'avrei tanto voluto, ma sfortunatamente per lui, chiusi gli occhi. Urlai. Sentii solo del calore uscire dal mio corpo. Cercai di muovermi, senza risultato. Pochi battiti e vidi Isabel pararmi di fronte a me.
«Svegliati, amore» – Mi disse dolcemente Isabel, dentro la mia testa.
Sentire di nuovo la sua voce era come un toccasana, per il mio cuore. La sua dolcezza non era cambiata, ma avrei dovuto lasciarla. Di nuovo.
Mi svegliai.
Aprii gli occhi.
Una scritta sul monitor mi disse che era tutto una prova.
M'agitai.
«Fine sessione: beta test. Reality check is: off» – Si sentì il programma avanzare un avviso.
Qualcuno mi tolse subito gli evidenti occhiali per la realtà virtuale e nella stessa posizione in cui vidi Isabel, v'era una bionda mai vista prima. Decisamente più grande di me... una decina d'anni o forse pure qualcosa di più. Occhi azzurri. Vestiva un camice bianco, simile all'abito indossato dalla ragazza presente nel gioco, ma quando rinvenni totalmente sentii un rumore di cavi elettrici ed un rumore di spegnimento; solo in quel momento, riuscii a collegare che avevo appena e davvero impressionato un infermo da ospedale psichiatrico e tra i vari macchinari che mi attaccarono, per farmi vivere l'esperienza di gioco al massimo delle possibilità, v'era un impianto sensoriale adattabile per ogni tipo di persona. La stanza era come quella di prima, ma piena di cavi e una poltrona centrale, ove ero seduto io, che più che una poltrona, era una sedia a rotelle. Resero il tutto così dannatamente reale, tanto che il mio pensiero di morire lì dentro si stava quasi per realizzare.
M'alzai in piedi leggermente barcollante, per via dell'enorme sforzo cerebrale fatto per immagazzinare le varie informazioni. Infatti, vedendomi barcollante, la ragazza dinanzi a me, mi porse un bicchiere d'acqua.
«Siediti che è meglio... potresti svenire!» – Mi disse la ragazza, forte della sua preoccupazione nel volermi prevenire qualsiasi casino.
Mi fidai di lei.
Mi sedetti senza fare troppe domande, sopratutto perché notai che m'avevano monitorato tutto: persino i battiti cardiaci, tanto che se il cuore sarebbe andato in sovreccitazione, il sistema si sarebbe spento da solo. Solo dopo, vennero da me anche altri ragazzi, che scoprii dopo che erano... anche loro... facenti parte del team di sviluppo: la cosa che notai subito era che avrebbero potuto avere anche dieci anni più di me... se non di più, ma si presentarono tranquillamente e mi sorrisero: evidentemente erano felici di come fosse andato il test.
«A nome mio... Isaac Esrlar e della mia società... la HLG: ci tenevo a scusarmi per lo scherzo, ma dovevamo avere la certezza che tu non sapessi nulla: proprio per rendere il tutto più realistico. Piccolo consiglio: dovresti farti esaminare il cuore... dal test è uscito anche che soffri di tachicardia e non potresti usufruire di alcuni nostri prodotti anche se fossi seriamente interessato a finanziare questo progetto... scusaci, lo diciamo per te» – Erano visibilmente contenti. A me parlò uno dei ragazzi, sembratomi subito il fondatore della produzione.
Feci un cenno d'intesa, tanto che cercai anche di sorridere. Tirai un pesante respiro di sollievo e riuscii quasi a sorridere, rincuorato dall'essere solamente un test... a cui mi prestai involontariamente... ottenendo quello che realmente volevo: paura ed adrenalina, ma ero più che pronto a carpirne e a carpirne sia i possibili miracoli e sia futuri guadagni, decidendo di donargli molto del mio supporto. Monetario, ovvio.
Isaac non era la classica persona che ti aspetteresti di definire strano: solo ad una prima impressioni. Invece, trovo che sia la persona più intelligente che io conosca. Sui trent'anni. Aveva avuto un principio di Parkinson, ma riuscì a inventare un chip endospinale, che gestisce le vibrazioni, – e di conseguenza, l'energia cinetica derivata - così da riuscirsi a curare.
Questo, me lo disse lui stesso e ne vidi il progetto, durante la giornata in cui accettai di finanziare il loro lavoro.
Sempre Isaac: alto sul metro e ottantacinque, abbastanza magro per la sua stazza, e capelli brizzolati. Corti. Nessuno aveva idea di quello che gli balenasse nel cervello, ma non per le stronzate: per il genio che era. Era sprecato, per i videogiochi... per me.
«Che figata. È quello che cercavo, ma dovremmo cercare di non uccidere altro che la noia... con il gioco. Vi finanzierò perché siete geniali: adesso andiamo a far soldi» – Li congedai, con un sorriso sulle labbra.
Anche se pensai di morirci, in quella dannata simulazione, cercai di rilassarmi sulla sedia... anche se m'ero completamente stabilito. Mi calmai e quindi decisi di farmi un giro tra i loro progetti e ne vidi anche altri, che reputai abbastanza interessanti. Non gli chiesi altro, erano talentuosi e mi fidavo di loro. Alla fine, mi convinsi nel dargli una mano... solo il tempo per andare il tempo per andare a prendere il blocchetto degli assegni: a quel prezzo, mi feci donare anche un headset, giusto per stare collegati. Feci tutto e mi recai a casa e nel farlo, presi la Cadillac dei miei: stavolta la patente l'avevo.
In macchina, ebbi tempo per riflettere sul da farsi.
Mi passò persino il pensiero d'essere realmente matto e che la simulazione non era così tanto finta.
Volevo davvero isolarmi da questo mondo.
Non volevo più sentirmi responsabile della pace e per la morte altrui: prima di tutto, non volevo che la morte si prendesse un'alta percentuale sulla mia felicità.
Ero stanco, molto stanco.
Aprii il cancello di casa con le chiavi ed entrai.
Non sentii nessuno.
Un flash... del mio cervello, mi fece ricordare che la cameriera aveva la giornata libera per alcuni controlli sanitari... così mi disse lei: poi ci ragionai... nessuno avrebbe potuto controllarla... mia madre.
Entrai in casa, senza fare chissà quale rumore. La chiamai. Nessun rumore.
«Sei tu? Non venire in cucina che sto cucinando» – Disse con voce tremolante, quasi malinconica.
«Tu non hai mai cucinato, è per questo che paghiamo qualcuno per farlo» – Le dissi, non dandoci peso e quasi ridendo.
«Se cucini tu potremmo morirci in due: ma ti lascio fare, va bene. Non voglio interromperti ed essere ritenuto responsabile dell'eventuale errore: a dopo. Nel frattempo, vedo di prenotare qualcosa di commestibile se dovesse succedere qualcosa alla cena!» – Le dissi senza dare peso alle mie parole.
«A dopo, ma prima vatti a fare una doccia che manchi da oggi a pranzo. Fai pure, tanto io continuo... nel frattempo!» – Mi rispose, sempre più malinconica e triste.
Non le risposi, forse era troppo tesa, per il fatto che non avrebbe potuto vedere nessuno. Nemmeno suo marito. Io... sicuramente... non ero abbastanza, come motivazione per essere felici. Mi sentirei anche io una merda, se non potessi vedere l'amore della mia vita: ci ragionai e mi sentii una merda, perché a me era già successo.
Mi feci una doccia, avendo il cambio già pronto in bagno.
Uscii dalla doccia una mezz'ora dopo. Sentii del fumo provenire dalla cucina. E scesi le scale di fretta, velocemente e arrivai in cucina. La coltre di fumo era già divenuta enorme e m'avventai all'interno, preso da un terribile presentimento.
Infatti: trovai mia madre svenuta sul tavolo. Sgranai gli occhi, mentre un urlo di terrore uscì dalla mia bocca. Le sentii il polso. Non c'era battito. Chiamai la polizia, ma nel farlo... trovai delle tracce di polvere bianca sulle sue labbra e tra i denti: non mi servii toccare il corpo per vederle. Andai in panico: chiamare i soccorsi, fu l'unica cosa che mi riuscii. Le rimasi vicino, come un bravo figlio esemplare. Non riuscii a rimanere con le mani in mano, azionai l'aspiratore per eliminare il fumo e spensi il fuoco del gas.
Ci misero una decina di minuti ad arrivare. Gli aprii il cancello senza problemi e vidi il detective Foulieur in prima linea. La sua espressione era di qualcuno che era stato svegliato la domenica mattina, tanto che le occhiaie erano intense e il suo nervoso palpabile. Fu lui a chiedermi cosa fosse successo, mentre i suoi colleghi perlustrarono la casa.
«Detective. Sia strano che io e lei ci ritroviamo sempre per situazioni tragiche. Comunque, anche questa volta sono innocente. Ero appena arrivato a casa e lei era viva. Mi sono andato a fare una doccia mentre lei tentava di cucinare per la sera e non so altro. Non capisco come abbia rimediato quella strana polvere che aveva sulla bocca che potrebbe pure essere droga. Mi chiedo se non se la sarebbero dovuta portare quando mio padre è stato arrestato ormai due anni fa? Per il resto sono a disposizione!» – Risposi al detective totalmente rilassato, anche se avrei tanto voluto urlare.
«Sono io che faccio le domande qui. Per il momento non sei indagato, perché ti sei messo subito a disposizione e le prove raccolte sono a tuo favore, ma se verrò a sapere che sei stato tu ti verrò a cercare e rivaluterò anche il caso di Isabel Monfrain. In nessuno dei due casi vi è il tuo diretto coinvolgimento nel loro suicidio, ma potrei valutarlo a seguito di nuove prove: dopotutto erano persone molto legate a te e in un anno si sono tutti allontanati da te. La mia curiosità è tanta nel sapere come va a finire. Non ci saranno soldi con cui mi potrai corrompere: mi divertirò a metterti in galera come un pericoloso animale. Il mio è un atto di fiducia verso la tua possibile innocenza, non pensarci nemmeno a prendermi in giro» – Mi disse il detective, più preoccupato a mettermi in guardia che a risolvere il caso.
Furono rapidi, ma molto dolorosi. Controllarono la casa a cima a fondo. Esaminarono il cadavere molto meticolosamente. Non si fecero sfuggire proprio niente. Venti minuti e trovarono tutto quello che gli dissi: la doccia usata da me per darmi una rinfrescata, il tentativo di cena da parte di mia madre e la droga con cui sarebbe andata in chiara overdose. Il detective non se ne andò subito, mentre avvisò i colleghi di iniziare a chiudere la scena del crimine, perché avevano un altro caso. Mi diede una prova: era una lettera trovata da parte di mia madre. Il detective suppose che me l'aveva lasciata, nel caso non fossi tornato in tempo per vedermi.
«Figliolo, forse non capirai il mio gesto. Probabilmente mi troverai già senza vita, ma sappi che mi hai fatto ripensare alle mie responsabilità come genitore. Con la morte di Isabel, non ho mai cercato di darti un'illusione della nostra presenza: quando sei nato eravamo ancora giovani e volevamo divertirci come te alla tua età. Non dimenticarmi... perché la mia vita è valsa a qualcosa: ho dato te alla luce e ho visto che sei diventato un uomo responsabile. Non hai più bisogno di me e molto probabilmente potremmo essere felici senza che nessuno ci possa separare. Ti voglio bene, figliolo e tu lo sai!» – Lessi la lettera e scoppiai a piangere dinanzi al detective.
Lo congedai, ma si riprese la lettera: dopotutto era una prova. Se ne andò, forse per lasciarmi nel mio lutto. Non mi arrestò: forse credeva davvero in me, ma lo vidi determinato. Probabilmente la sua lista di morti e di lutti era nettamente superiore alla mia: provai ad azzardare qualche ipotesi, se già gli mettessi in conto sia i genitori e sia qualche amico, è già più lunga della mia.
«Causa decesso: Overdose da metanfetamina» – S'enunciò il referto medico.
Mi rifugiai in camera mia. Non toccai niente che non avevano già controllato, anche se non avevo più nessuno. Parenti... zero. Chiusi la porta di camera mia. Indossai le cuffie mentre accesi il PC. Iniziai a giocare, mentre iniziai a piangere: mentre lo feci, alzai il volume per non sentirmi. Non potevo e volevo fermarmi. In un anno, due persone a cui avevo donato il cuore, abbracciarono la morte. Non volli pensarci. Caricai il gioco: iniziai una partita veloce, ma iniziai a sparare all'impazzata, facendo fuori qualunque cosa mi si presentasse davanti. Per la rabbia, ruppi anche il joypad. Mi calmai soltanto quando urlai, fino a non sentire più la mia stessa voce.
Mi svegliai la mattina dopo. Me la presi libera, nessuno me l'avrebbe potuto vietare. D'altronde mio padre era in uno strano centro di riabilitazione per tossicodipendenti e mia madre era morta il giorno prima per lo stesso motivo dell'arresto di mio padre: chi l'avrebbe mai detto, io no. Suonarono al citofono. Risposi dal cordless in camera mia e dalla telecamera vidi che era un ispanico vestito in smoking: con se aveva anche una valigia. Mi strofinai gli occhi, ma rimasi qualche secondo in silenzio: pensai ad uno scherzo.
Poi risposi.
«Chi è, a quest'ora?» – Risposi svogliato, ma senza dire altro.
«Mi presento: sono Alfred Withman: il suo maggiordomo di fiducia. So che ti potrebbe risultare difficile, ma se mi lasciasse entrare, le spiego subito tutto e con tranquillità» – Mi rispose, cercante il mio consenso.
«Se potrebbe attendere un attimo che scendo dal letto e mi rendo presentabile, se può servire» – Gli dissi, cercando di riprendermi un attimo.
M'ero appena svegliato.
Pensai che questa notizia fosse perfetta per me. M'illusi che m'avrebbe potuto rallegrare: in fondo avere qualcuno che ti possa cucinare, senza spendere una fortuna in fast food, sarebbe stato bello. Nonostante avessi una voglia matta d'imparare a cucinare. Nonostante mia madre fosse morta il giorno prima, proprio in cucina. Fu verificata anche l'innocenza della cameriera e decisi comunque di mantenerla alle mie dipendenze... tanto stavo festeggiando l'anniversario della morte di Isabel, ricordando quella di mia madre: un cuoco nuovo, mi sarebbe servito.
Mi preparai senza voglia. Solo al momento di trovarmi dinanzi al portone di casa, aprii il cancello elettronico, giusto per fare entrare Alfred e poi il portone per vedere in faccia il mio futuro e probabile patrigno, ma fu lui ad anticiparmi nell'aprire la porta, aprendola verso di me: gliela lasciai aperta. Lo guardai entrare: non avevo un bell'aspetto, proprio per niente. Avrei voluto chiedergli tanto, ma non ce la feci.
«Signore, sono addolorato della morte di sua madre. Ci terrei a precisare, che non desidero non fare nulla, che non sia nel vostro volere» – Rispose subito, con il tono leggermente più severo del mio fissarlo malinconico.
Lo fissai come lui fissò me. Notai che aveva il volto come un ispanico mangia tortillas.
Non sono razzista, mi piaceva solo la battuta.
Entrò senza fare troppe domande, chiedendo innanzitutto dove fosse la stanza degli ospiti: gliela mostrai senza fare troppe domande. Sicuramente avrà garanzie di qualche tipo, dettate dalla legge e da chissà cosa, ma non ero io il suo patrón, ma mio padre. Alla fine mi toccherà sottostare a quelle che saranno le sue decisioni anche se comando io in casa mia. Attesi che riponesse a terra la sua valigia per farmi spiegare quello che aveva da dire, proprio per evitare problemi legali, quali gestione della casa e iniziai a calcolare tutto il necessario per fare in modo di risparmiare qualsiasi cosa, per evitare il tracollo delle società, dato che ora era mia responsabilità provvederne.
«Sono stato incaricato sia da vostro padre a vegliare su di lei e questa sarà la situazione fino a che non potrà tornare a casa: perciò cerchiamo di socializzare e no, non sono ispanico» – Mi disse, con tono pacato e severo allo stesso tempo.
Non gli risposi, tranne che la cena sarebbe dovuta servire per le otto. Alla fine, era lui a lavorare per me.
Crebbi ancora. Il progetto di realtà virtuale si rilevò essere un successo e sarebbe solo bastato metterlo a disposizione del vasto pubblico per iniziare a guadagnare. Per iniziare a gestire le aziende di famiglia... o a provvedere a farlo, licenziai tutti i dirigenti che permisero il compromettersi di mio padre e ovviamente assunsi dei laureati in management per evitare il tracollo. Non seppi mai il motivo della sua scelta infelice, ma avrei dovuto rimediarvi io. I giovani laureati, li feci subito supportare dai dipendenti più capaci, ossia quelli rimasti, per aiutarli nel loro inserimento in azienda. Tutto andava a gonfie vele... anche con Alfred, con cui non v'era modo di legare del tutto: dopotutto restava un dipendente della famiglia e quindi decisi per un rapporto di stima molto tranquillo: non avevo tutta questa parlantina nel voler parlare dei miei problemi con chiunque fosse preposto a tracciare i miei problemi psicologici.
Sapevo d'averne, ma io e miei demoni stavamo bene da soli.
L'unica cosa che andava realmente bene era che cercavo di aiutare i ragazzi della HLG, cui finanziavo il progetto della realtà virtuale. Cominciai persino a conoscere più personalmente e senza atteggiarmi a capo, ma feci l'errore di pensare di voler conoscere meglio la ragazza che mi salvò dall'infarto durante la simulazione: cercai solamente di discutere con lei delle cause relative alle possibili controindicazioni dovute alla migliore sovreccitazione dei sensi di come poteva essere nelle consolle e con i computer: ma lei dinanzi ad un caffè, mi confermò che non vi sarebbero stati così tanti rischi, se i giocatori non vi avessero accesso ventiquattro ore al giorno senza interrompere la sessione, inserendo anche un sensore che blocca la sessione dopo le ore necessarie per una durata accettabile, quindi accettai la risposta come esaustiva e mi fermai per evitare di coinvolgermi troppo con lei. Il problema è che in un certo senso mi piaceva, ma era sia più grande di me di almeno otto anni, se non dodici e mi sentivo poco maturo per lei e poi non volevo, di certo, consegnarla a morte certa solo perché si sarebbe potuta confrontare con me. Ed infatti, proprio per evitare una possibile scia di morte al mio passaggio, non mi feci coinvolgere: ci stavo riuscendo.
Ero quasi per i diciassette, di anni.
Un giorno ero con i sviluppatori ad un meeting: decidemmo per un bar all'aperto e non molto affollato. Il bello di questo bar era l'avere una struttura in legno, simile ad un tetto e sorretto da quattro pali, sempre in legno. Mi piaceva. Dovevamo decidere il destino dell'intero progetto, sopratutto quando iniziarne la vendita e cercare del nuovo personale, per creare sempre più contenuti, per aumentarne le potenzialità e il servizio. Parlavo di alcune idee, mentre loro iniziarono a commentare con me e scambiarci delle modifiche.
Il mio cervello incominciò a bloccarsi, mentre mi voltai alla mia destra: una ragazza apparve quasi dal nulla. Aveva circa la mia età.
Alta sul metro e settanta. Visetto dolce, capelli castani: quasi rossi. Occhi color nocciola. Magra. Altro di lei, non ricordo.
Salutò uno dei sviluppatori: Isaac... se la memoria non mi lasciò a piedi. Erano tipo parenti, sempre se la memoria non mi lasciò a piedi. Il mio cervello era in una specie di blackout. Mi ritrovai spaesato, qualche secondo dopo, con lei che mi fissava. Credo m'avesse chiesto qualcosa, ma non le avevo risposto. Quando la notai, la salutai subito, per non mancarle di rispetto: nel mentre, avevo già preso la mia dose di caffè.
«Ma io non ti conosco!» – Mi liquidò. Secca e senza altra tonalità.
Da parte mia, uno sguardo da pesce lesso, come se qualcuno mi avesse già rubato parte della mia esistenza. Mi sentii una merda, solo al pensare che ci potesse essere qualcuno al mondo che non sappia nulla di me. Ci pensai su, ma ci pensò uno dei ragazzi, che era con me, a presentarci: a ricordare oggi quelle mie espressioni di smarrimento, quasi le ricordo con gioia.
Nonostante tutto. Fino a che tutto non finì, lasciandomi una domanda rispetto al fato: "se dovremmo essere tanto complessi, come mai ci fissiamo sempre di quello che non possiamo avere?".
Forse avrei una risposta tranquilla e che non farà rivoltare nessuno debole di cuore o di uno stupido qualunquista, dedito solo a creare o condividere delle frasi fatte: solo per ostentare una finta saggezza. È l'aspettativa che abbiamo, su di un possibile investimento di tempo ed ego che ci attrae a qualcun altro, oltre che alla bellezza: che possiamo solamente immaginare, ma non abbiamo assoluta certezza che tutto quello che è il nostro investimento sia sicuro. Anche l'amore e il legarsi per la vita ad una persona è diventato un affare capitalistico, costernato dal solo guadagno personale o della coppia.
A poterla dire tutta, in molti stati è un contratto quello del fidanzamento in cui bisogna dare delle garanzie per evitare il tradimento così la parte lesa possa poi essere risarcita.
Passò più o meno qualche altro mese, quindi arrivai ai diciassette anni avanzati e il tutto fu costernato da eventi più o meno positivi, tra cui il conoscere meglio la ragazza incontrata al bar. La cugina di Isaac, per intenderci. Il tentativo è stato arduo, sopratutto per la mia timidezza e il mio essere restio a rendermi interessante da farla interessare a me e darle una parvenza d'essere la migliore offerta, nonostante fossi molto ricco e molto sensibile: oltre all'essere anche in procinto nell'immettere nel mercato il progetto della realtà virtuale, chiamato Christ 012.
Il nome non era per nulla casuale, ma non lo scelsi io.
L'offerta consisteva in: una muta con un casco, che funge da stabilizzatore e da recettore sensoriale, che permetterà di usare il cervello come un joystick. Aveva anche dei guanti e delle scarpe, acquistabili a parte, per rendere l'esperienza di gioco ancora più realistica. Mancavano soltanto le armi base per completare la più grossa offerta che il mercato dei videogiochi potesse mai concepire.
Riuscimmo a occuparci perfettamente anche della distribuzione, rendendolo il prodotto il più venduto dell'anno: nonostante tutto, non mi mostrai mai in pubblico, sopratutto come quello che aveva elargito della beneficenza gratuita a dei ragazzi molto più grandi di lui. Il cervello, si dovrebbe usare. Non solo la lingua. Il tutto è stato fatto, secondo logici criteri: paghi e ti sarà dato.
Tornando a me: cercai disperatamente di perdonarmi per la sofferenza, subita sia per la morte di Isabel e sia per quella di mia madre. Certamente, la morte non se le sarebbe dovute prendere: solo per darmi una lezione; non sono sicuro neanche di poterne parlare liberamente senza dovermi fare autocritica, ma se potessi parlare da solo per tutto il resto della vita, lo farei senza molti problemi.
Potrei essere molto logorroico, potrei avere un carattere troppo introverso, ma cercavo soltanto bramosamente di essere felice. Non avrei potuto e dovuto essere legato per sempre, al ricordo di Isabel: fin quanto potesse essere fantastico ed unico, solamente per indossare di nuovo quella solida armatura da amante e cercai di conoscere meglio questa ragazza di cui vi parlavo prima.
Non fu facile la mia impresa, infatti per iniziare feci una bella gaffe: a una fiera del fumetto dove ci recammo con amici in comune lei mi chiese una cosa... mi sembra come stava con un vestito, non ricordo al momento. Io, da coglione e per giunta pure stronzo, le dissi semplicemente che non conoscevo da cosa lei avesse tratto ispirazione per l'abbigliamento: immaginate un tizio che è deve fare benzina ad un motorino, ma gli cadono distrattamente le chiavi dentro il bauletto dei documenti e richiude il tutto senza poter riaprire successivamente perché è senza il doppione delle chiavi. Io ero quello che sta ridendo alla scena avendo dimenticato le chiavi della macchina al suo interno e il cane stronzo, chiuso all'interno, che accidentalmente ha attivato la chiusura centralizzata e quindi rimasto chiuso fuori ed il tutto senza finestrini aperti.
La giornata proseguì con visibili tentativi d'approccio, da parte mia: ma lei non
fece altro che etichettarmi come un estraneo. Però, la magia più potente che le ragazze sanno usare è la "ho bisogno di te, quindi ascoltami": in un momento che lei voleva fare un giro in fiera, dopo aver presentato il progetto alla stampa e la coincidenza fece si che, anche a me andasse, tra una cosa e l'altra, m'è stata appiccicata a me tutto il tempo, che siam andati a gironzolare.
Il suo modo di fare era tutta una tattica, funzionante, sia per ringraziarmi e sia per mantenermi sotto il suo controllo. Stetti al suo gioco: volli vedere fino a che punto sarebbe arrivata. Il tutto finì alla fine del giro, mentre successivamente le arrivarono le mie domande, giusto per conoscerla. Pensavo di non avere più possibilità di starle vicino e mi domandai più volte se mai ci sarebbe stata una possibilità, per un serio noi o solamente per una fugace follia di una sera da ubriachi fradici... per poi dimenticare tutto il giorno dopo.
Mi piace la birra: per me, ovviamente rossa è sempre meglio.
Passò circa un mesetto dalla fine della promozione del progetto della realtà virtuale.
Quel giorno ero a perdere tempo ad ascoltare quei video molto utili dove caricano giga di musica rilassante per fare molte visualizzazioni e molti soldi: tutti hanno bisogno di rilassarsi, ma nessuno pagherebbe qualcuno un laureato per farsi portare un cuscino e una cioccolata calda; proprio perché mi stavo beatamente rilassando sulla poltrona. Non pensavo a niente. Sentì una voce entrarmi nel cervello: non era la mia. Aprì gli occhi. Avevo le cuffie, quindi capii che proveniva dal computer. Sul monitor apparve un'immagine in cui ritraeva il lago ove era morta Isabel.
Pochi secondi dopo, me ne passò davanti un'altra in cui v'era la ragazza del bar legata ad una sedia e chiaramente spaventata.
«Salve Richie Rich, voglio fare un gioco proprio con te: qui, dinanzi a me, ho una splendida ragazza dagli occhi verde smeraldo che mi sta tanto implorando di liberarla e non sa proprio nulla di quello che sta succedendo tra me e te. Che fantastica ragazza: vuole morire ignorante sul motivo della sua morte e lascerò che lo sia, perché tu non vorresti mica che lei sappia tu chi sia veramente. Ti do cinque minuti, prima che le trafori la testa: con una pistola regalatomi dalla provvidenza. Ovviamente tu perderai anche lei, così finalmente potrai capire come ci si sente a non avere più nulla così in fretta. Adesso deciderai tu la sua sopravvivenza, dimostrale che moriresti per lei. Ti aspetto: ricorda, se lei non t'accetta... io ho vinto comunque. La potresti sempre considerare come un ulteriore oggetto da ottenere: ho sempre adorato la tua maniacale possessività. Io ti conosco, Richie Rich: siamo fatti della stessa pasta. Potresti perdere del tempo per dimostrarle che sei un vero uomo e non un bambino che si diverte soltanto a piangersi addosso: assumiti le tue responsabilità. Vivere o morire: a te la scelta!» – La voce sembrò soffocata, e successivamente alterata.
Avevo una certezza assoluta su chi si celasse dietro quella voce così artificiale, ma avrei tanto voluto saperlo, comunque. Il mio sospetto, era verso l'unico con un insano senso di vendetta e di ripicca nei miei confronti. Il video si chiuse con una transazione verso il nero. Strinsi i pugni.
I dettagli mi ricordarono una succursale dell'azienda di famiglia, ereditata da mio nonno: era in disuso per un incendio doloso da parte di alcuni dimostranti. Non ne seppi mai il motivo.
Avvertii rapidamente anche Isaac: dopo tutto era sua cugina... lui diede di matto: reazione ovvia. Avvertii anche Alfred che non sarei tornato prima di cena: non sarebbe servito prepararmi la cena e poteva mangiare da solo, se voleva.
Mi recai al luogo del rapimento. Parcheggiai fuori per evitare d'essere visto. Mi portai il cellulare, in caso mi fosse servita la polizia. Vi entrai armato di un vecchio coltello da caccia di mio padre, regalatomi al mio decimo compleanno, con la promessa di usarlo solo nei momenti difficili: passata in eredità per sei generazioni, compresa la mia. Me lo portai dietro solamente per fare in modo di avere un qualcosa con cui difendermi in caso di pericolo. Il luogo poteva sembrare una vecchia fabbrica, come quelle tanto stereotipate nei film d'azione degli anni ottanta.
Visivamente era una vecchia fabbrica, anche dentro non era cambiata chissà quanto.
Era abbandonata a se stessa. V'erano detriti da tutte le parti, proprio per simboleggiare la decadenza del posto. M'infiltrai nella porta principale: via libera. I detriti continuavano: armadi, attrezzi rotti o con tracce bruciati. Fili scoperti e sporcizia in giro.
Continuai nel proseguire, tra il disordine della merce e la polvere ormai padrona del posto, a fatica perché conscio del poco tempo a disposizione per cercarla. Non sapevo dove andare. Un urlo. Il suo... di lei. Non ebbi nemmeno la velocità per pensare. Volevo salvarla a tutti i costi. Non sapevo dove andare: non conoscevo a menadito tutto lo stabile. Pensai che nello studio del capo vi fosse qualche indizio e mi recai lì. Cercai di rielaborare la direzione del suo flebile urlo: accorsi lì in preda ai sensi di colpa, solamente perché un pazzo ha creduto che lei potesse contare qualcosa per me. Mi chiedo come diavolo abbia fatto a saperlo: io non ho proferito parola a nessuno di ciò, ovviamente dovrei fare un passo indietro per calcolare a chi l'avrei potuto raccontare in questi mesi e se avessi potuto avere la possibilità di raccontarlo a qualcuno dopo aver occultato i miei sensi di autocontrollo.
Potrebbe avermi seguito per tutto questo tempo: molto più plausibile.
M'avrà visto con lei e quindi avrà collegato qualche informazione: non c'erano dei colpevoli. Un altro urlo, questa volta più vicino, di fronte a me. Scesi le scale di fronte a me, dopo tanto correre, sfidando anche la mia resistenza; mi fermai a pochi passi, per la precisione, a quindici centimetri da me: dalla posizione del "rumore" e degli altri passi fatti nel tragitto da chissà cosa.
Pensai di nascondermi appostato ad un muro per evitare che mi potesse sentire. Beccare. E aspetto.
Non sapevo cosa pensare, ma nel frattempo non sentì più urla, nessun rumore. Ancora sveglio, rimasi lì per studiare la situazione perché volevo capirci di più. Non conoscevo e non avevo modo di conoscere l'ubicazione dell'ostaggio, ma la lampadina d'Archimede s'accese nella mia testa: mettermi a cercare. Era l'idea più ovvia.
Passarono i minuti, nel frattempo della progettazione e decisi di recarmi nel vecchio studio di mio padre nella fabbrica perché, da quel che ricordavo, vi era il vecchio impianto di sorveglianza che avrei potuto usare per capire un po' tutto di quella faccenda. Mi trovavo a poche decine di metri, dalla stanza del mio vecchio, e mi ci recai cercando di fare poco rumore, ma la porta sembrava senza pomello: riuscì ad aprirla con una spallata.
V'entrai. La fretta s'era impossessata di me, tanto che mi ritenevo responsabile anche del suo rapimento. Non capivo molto, ma il mio nevrotico rovistare, con estrema agitazione tra le sue carte, mi condusse alla planimetria. La vidi e da lì capii che la stanza ove sarebbero potuti stare, sarebbe dovuta essere bella larga e me la portai dietro. Era a poche stanze dalla mia, ma non mi persi d'animo e mi ci recai.
Camminai, quasi in punta di piedi, vedendo sempre che non arrivasse nessuno e nell'avanzare, i pochi gemiti e mugolii non erano molto lontani da me: il loro volume aumentò.
«Perché è finita così? Dimmelo! Ti amavo e non ti ho mai mancato di rispetto, nemmeno se l'avessi voluto... puttana!» – Le disse, senza nemmeno guardarla. Il suo tono era visibilmente basso, ma ebbe un picco di rabbia verso la fine.
Mi posizionai, costeggiando la porta. Da fuori, però: io li vedevo, ma loro non mi videro.
Lei era seduta e legata ad una sedia al centro della piccola stanza con questo, presumibilmente un ragazzo più grande, d'altezza. Di lei.
Da seduto sulle gambe, s'alzò. Le diede uno schiaffo al rovescio, in pieno volto, con la destra, facendo si che la testa di lei si spostasse verso la sua sinistra. Le scese una lacrima, dall'occhio destro. La testa le rimase quasi immobile. Volevo capire di più, ma la mia brama d'intervenire era intensa. Strinsi i pugni, ma il desiderio di difenderla era enorme: mi dovetti trattenere.
Nessuno dei due sembrò ancora vedermi. Mi diedero ancora le spalle. Se fosse davvero lui, sarei il più grande sfigato del pianeta: ci starei provando con la sua ragazza o direttamente ex: buon modo, per partire con il piede sbagliato.
Un respiro forte, da parte di lei: non le importava del proprio dolore. Sperava di riuscire a farlo ragionare.
«Ascoltami: non avrei voluto e dovuto lasciarti in quel modo: non facendomi sentire, per quasi un anno. Ma, dopo la morte di tua cugina Isabel, non ce l'ho fatta a starti vicino. Eri burbero, desideroso di vendetta, mi consideravi poco o niente. Hai odiato qualcuno perché tu non hai potuto proteggerla. Eravate più giovani di adesso e sicuramente adesso sei più adulto. Da come mi hai detto, si volevano bene. Perché non gli hai detto subito che lei era malata di cuore? Agii d'impulso, nell'andarmene: avevo paura che mi potessi mettere, di nuovo, le mani addosso. Dovresti calmarti, realmente: non sto scherzando!» – La ragazza parlò calma e rassegnata, forse con dei rimorsi.
Si morse il labbro inferiore, forse per trattenere il dolore. Mi rintanai, di nuovo, dietro la porta. Era davvero il cugino di Isabel, non ebbi più dubbi. Era davvero la sua ex... immaginavo che ci sarebbe stato qualcosa di sbagliato tra di noi: ecco, l'ignoranza mi ha schernito di nuovo.
«Alla fine, sono stato io quello burbero. Non ti permettere di dirmi queste cose perché ti ho amato e non dono il mio cuore a tutte: dunque ritieniti fortunata. E tu hai avuto le palle di tradirmi, con quello lì?» – Le rispose lui, spavaldo come sempre.
Decisi d'uscire allo scoperto. Lei mi vide e spalancò gli occhi. Nascosi il coltello, subito e in modo che non potesse vederlo. M'ero vestito... non l'ho detto prima per la fretta, di tutto punto per evitare che potessi lasciare impronte.
Lui mi vide, perché s'accorse dello stupore di lei. Gli occhi di lei, tra il castano e il verde, mi guardarono preoccupati, ma lui la sovrastava in altezza di almeno trenta centimetri.
«Alla fine, stavate insieme: che quadretto interessante!» – Dissi ad entrambi, frustrato ed arrabbiato allo stesso tempo.
«Finalmente sei arrivato: t'aspettavo con ansia. Mi stavo chiedendo: perché io dovrei sempre soffrire, per colpa tua. M'hai già ammazzato Isabel e adesso ti vorresti prendere anche lei? Per salvare Isabel, non ho potuto fare niente, ma questa volta posso salvare lei da te: è da quando ti conosco, ormai sono un po' di anni... che tutto mi va una merda. Tu, che dici a me che siamo un quadretto interessante, dovresti stare zitto. Non sei tu l'ospite d'onore qui, anzi sei il vero condannato a morte, in questa commedia!» – Lui fece semplicemente un soliloquio, per spiegarmi le sue ragioni: sempre spavaldo e incurante della morte.
Io, avendo quasi diciassette anni, credevo di essere leggermente più saggio del normale dei miei coetanei: mi sbagliavo. Non ero così saggio. M'avvicinai a loro. M'arrestai a pochi passi da lui: non volevo più scappare. Ero lì. Non mi mossi. Li guardai negli occhi e nessuno dei due mi diede le spalle. Lei sempre seduta e legata. Lui sempre in piedi e trasudante odio nei miei confronti. Tutt'e tre vestiti casual: non puntammo allo stile per la risoluzione delle nostre faccende. Strinsi i pugni: l'odiavo perché non voleva... forse poteva... capire che stava diventando pericoloso.
«Sono innocente. Isabel ed io ci amavamo. Come già ti dissi, non sapevo nulla del suo cuore. Mi confessò i suoi sentimenti in punto di morte: e sei malato, se davvero pensi che le avrei fatto del male: non l'avrei mai fatto. Avresti tu potuto e dovuto dirmi quello che aveva, ma invece alle mie domande non hai mai dato risposta. Ho fatto il possibile anche nel trascinarmi il corpo fino a riva, mentre tu eri a ridere e a scherzare con gli altri. Con tua cugina in mare. Io vi chiamavo e voi niente, ma tu vorresti anche criticarmi?» – Avanzai una critica, arrabbiato e stringendo i pugni. Chinando leggermente la testa.
Tutt'e due sgranarono gli occhi: evidentemente non s'aspettarono le mie, di parole.
Lui si staccò da lei: avanzò verso di me.
Peggio di un animale. Aveva molta rabbia: l'avevo colpito, nel profondo del suo ego. Non s'accorse del mio spostamento verso la sua sinistra, mentre gli tesi il piede destro, per fargli perdere l'equilibrio. Tutto accadde in un attimo: cadde rovinosamente a terra. Cosparso di polvere e detriti, nel mentre io riflessi sul da farsi. E mi rivolsi subito per liberare l'ostaggio. Cercai, nel frattempo, di liberare l'ostaggio e solo dopo essermi assicurato che tutto fosse apposto, mi accinsi a verificare la salute del cugino di Isabel: respirava a fatica, mentre non si rialzava ancora. La sua incolumità sembrava soltanto iniziale. Il suo stomaco era verso l'alto. Lo fissai, senza dire altro.
«Adesso mi dici tutto: sono serio. Stavi insieme ad uno che è capace soltanto di lamentarsi. Credevo che fossi importante per me, ma ero attratto solo dall'idea che potessi farmi dimenticare Isabel. Non voglio nemmeno sapere se sono solo un illuso, nel provare qualcosa per te. La mia pazienza è finita e questa storia è finita qui: anche se non è mai iniziata!» – Le parlai senza nemmeno guardarla, mentre ero ancora arrabbiato con lei. Strinsi i pugni per la rabbia, ma senza sfogarmi.
Lei era ancora legata su quella sedia. La liberai tagliando le corde, con il coltello di famiglia. Appena libera, si massaggiò il braccio destro e poi la mascella. Non mi guardò nemmeno in faccia. Il cugino di Isabel s'alzò soltanto ora, ma la sua pelle era più scura, più sul violaceo. Non disse nulla. Il suo sguardo era moscio. Lei si coprì gli occhi dal terrore, mentre il colorito della pelle del nostro morto ambulante, divenne sempre più bianca. Lo sguardo di entrambi, si rivolse verso la sua maglia: aveva una macchia di sangue. La mia attenzione si spostò, però, verso la sua spalla: vi notai un buco, largo quanto il manico di una mazza da baseball. Sangue per terra. Pensai subito: "sarà caduto... sicuramente violentemente, su di una pietra: ma non l'ha sorpassato da parte a parte". Non mossi nemmeno un dito, non volli neanche toccarlo. Soltanto un'espressione aveva: beata... s'era lasciato andare alla morte. Il tutto durò circa un minuto. Il suo cuore ancora batteva: il nostro più velocemente. Cadde sulle ginocchia, gli tremavano. La guardò senza dire niente.
Lei, si coprì il volto. Finì poi di cadere di pancia. Lui steso a terra e io vidi soltanto che lei prese la via dell'uscita: la seguii; non aveva idea che ero venuto in macchina e glielo avrei voluto dire che comunque, mi sarei preoccupato per lei.
Non chiamai subito i soccorsi: non volevo "regalare" ulteriori sospetti al detective Foulieur, circa la mia innocenza. Però, le feci segno di seguirmi. Lo fece senza problemi, dopotutto l'avevo appena salvato la vita. Aprii la macchina, mentre le dissi che l'avrei accompagnata da Isaac e da lì non ci saremmo mai più rivisti: sarebbe stato meglio così.
Ci sedemmo in macchina. L'accesi e incominciammo a viaggiare.
«Avrei dovuto essere più sincera con te, ma non ti ho mai considerato... ecco, la persona più importante della mia vita. Legata al fatto che ci siamo incontrati, alla fine, pochissime volte e non volevo accelerare i tempi. In poche parole non ero pronta!» – Apostrofò, senza dire troppo.
La lasciai da Isaac e me ne andai a casa. Lei non mi disse niente, mentre fu lui a ringraziarmi per tutt'e due. Me ne ritornai a casa. Senza arte e ne parte. E lei non disse nulla. Non feci durare molto, quel dialogo: m'osservò, senza dire niente altro, nella sua eterea bellezza.
In casa, riposi il coltello di famiglia al suo posto: dentro l'ufficio di mio padre. Alfred notò il mio essere schivo; cercò di parlarmi, ma gli sbattei subito la porta di camera mia in facci: non ero intenzionato a parlarne. Non ero più sicuro di niente: anche quest'ultima giornata del gennaio, dello stesso anno, la mia vita andò ancora più a puttane. Non seppi di cosa morì il cugino di Isabel, molto probabilmente di morte accidentale. Non credo che si verrà a sapere che io ero stato lì: sopratutto, mi preoccupai perché Foulieur non lo dovesse sapere.
Passando ad altro, un giorno mi svegliai: uno dei tanti. Andai a scuola: pure. Lì, uno dei bidelli, con anche lui il volto come un ispanico mangia tortillas: ma che mi seguono? Pensai.
Mi venne a chiamare in classe.
Era qualcosa d'urgente mi disse, e non si sbilanciò.
La sua camminata era lenta, per essere un bidello e d'urgenza. Mi diede subito un telegramma: era dal centro ove era ricoverato mio padre. In cuor mio, mi domandai il motivo per cui me l'avrebbero mandato a casa.
«Ci dispiace moltissimo: tuo padre è venuto a mancare questa mattina. È stato trovato morto questa mattina, senza che potessimo fare niente per fermarlo. Condoglianze vivissime!» – Recitava la lettera, concisa.
Venni poi a sapere dal suo medico di fiducia che aveva avuto un blocco della vena incaricata di portare il sangue al cervello: non era una cosa che si sarebbe potuta fermare solamente, se non fosse stato in un centro per la riabilitazione e per i motivi sbagliati. Solamente l'autopsia permise di scoprirne i dettagli.
«Causa decesso: Aneurisma cerebrale» – S'enunciò il referto medico.
Ero arrabbiato, non volevo sentire nessuno dato. Rimasi l'unico capo delle mie aziende: decisi di vendere la società. Non volevo più saperne niente, di niente. Ero maggiorenne, per cui avrei potuto anche mandare a puttane la mia intera vita, ma sarebbero rimasti soltanto fatti miei. La mia sfortuna nera m'avrebbe perseguitato, fino alla morte. Non volevo più che le persone soffrissero a causa mia. Allo stesso tempo, ero desideroso d'avere una rivalsa. Forse era solo il mio cervello a farmi degli scherzi. Avevo sempre la schiena e le spalle fredde, sentivo attraversarmi il collo da freddi spifferi. Avevo al mio seguito più vivi che morti: me li sognavo tutte le notti: finalmente il resto della mia famiglia s'era riunita. Tutti andiamo verso la stessa fossa. Cercai di rapportarmi con Alfred per avere dei consigli sulla strada da prendere, ma non si dilungò cercando di portarmi comunque rispetto.
«Le serve solamente una vacanza programmata: almeno si potrebbe prendere una bella rinfrescata alle idee e tornare più carico di quando sarà partito. Non serve piangere il passato, se spera in un ritorno alle origini. Le dovrebbe creare lei: le sue origini. Sono sicuro che i suoi genitori avrebbero approvato e in più le servirà per non avere rimpianti quando avrà la mia età. Non le sembra una bella idea?» – Parlò solamente, per cercare di donarmi un po' d'ottimismo.
Mi guardava fisso, come se attendesse il peso delle mie parole: per cercare, forse, d'analizzarmi. In fondo, voleva soltanto darmi una mano. Nel riflettere, decisi di passare il weekend nella casa al lago: famosa per la morte di Isabel.
Non ci passai più dall'incidente.
Programmai il tutto, per passare la vacanza più rilassante della mia vita: ormai era deciso. Pochi giorni, avrei compiuto diciotto anni; sarebbe ricorso il quarto anniversario dalla morte di Isabel: le avrei voluto rendere onore. Non lo dissi ad Alfred e a nessun altro: non volevo che qualcuno mi bloccasse o mi potesse far cambiare idea.
Preparai le valigie per partire il venerdì mattina e decisi di farlo senza chissà che pretese. Arrivai, dopo qualche ora di macchina. Mi rilassai facendo tutte le varie pratiche per togliermi di mezzo qualsiasi responsabilità da torno: così da potermi godere questi giorni di nullafacenza.
Pensavo ad Isabel, così bella e morta così giovane, sopratutto perché non avevo mai potuto elaborare il lutto. Per me era sempre presente nel mio cuore. A tal modo, mi rintanai nella stanza ove ebbi modo di stare da solo con lei prima del fatale incontro. Mi riposai, lasciando tutte le valigie nello sgabuzzino vicino al bagno: al piano terra.
Esclusi l'intero mondo in quei giorni, tranne lei: Isabel. Non riuscivo a capire, se era soltanto una visione della mia testa. Così bella e morta così giovane. Mi rintanai nella stanza dove noi due decidemmo di conoscerci meglio: una delle stanze da letto del villino. Il problema è stato che non abbia potuto elaborare il lutto: se non rintanarmi in me stesso. Escludendo chiunque avrebbe potuto aiutarmi in questo viaggio: anche se sentivo d'avere ancora bisogno di lei.
Una notte stavo dormendo.
Mi svegliai di soppiatto.
Ero tutto sudato.
Mi ritrovai Isabel, che mi guardava fisso negli occhi.
Si sorprese della mia visita: me lo dissero i suoi occhietti vispi e il suo sorriso innocente. Si avvicinò a me, quasi a sdraiarsi sul letto. Non era inconsistente. La potevo toccare, stranamente. Lo feci soltanto una volta... preferì non farlo di nuovo. Nulla sembrava essere cambiato in tutto questo tempo. Ero sicuro che nessuno fosse entrato qui dentro. Aveva soltanto una vestaglia a coprire le sue fattezze... il reggiseno e il perizoma. Non le tolsi gli occhi di dosso. S'avvicinò a pochi centimetri dal mio corpo, sempre nel mio letto. La volevo, sempre di più. Anche se non lo ritenevo giusto offendere la sua memoria, lei era morta ed ero sicuro che fosse qualcosa nel mio cervello: non ne ero però così certo o speravo che non fosse così.
«Ciao, sono io. Avrei voluto parlarti davvero della mia malattia. Mi dispiace, ero stupida... stando qui ho avuto modo di riflettere... è capitato tutto così in fretta, ma ne è valsa la pena» – Mi disse preoccupata, nella mia mente.
«Fa niente, tutti noi facciamo errori: diciamo che mi è servito di lezione!» – Le risposi, nella mia mente, rasserenandosi appena capì che mi stavo calmando.
Sospirai, quasi rassegnato alla realtà dei fatti: cercai di fare pace con gli incubi riguardanti la morte di Isabel. Del suo atteggiamento negligente nell'avvisarmi del suo problema al momento giusto, ma ero un ragazzino e quindi non avrei potuto fare niente per fermarla. Neanche adesso. Mi ritrovavo a fissare, con gli occhi lucidi, quel soffitto da cui stavo ricevendo solo ricordi piacevoli, ma lontani nel tempo di solo qualche anno. Volevo dimenticare: stavo diventando pazzo... se non lo fossi già. Lei mi si mise vicino ad osservare lo stesso soffitto, cercò di abbracciarmi come poteva.
«Non abbiamo avuto la possibilità d'essere felici insieme e non l'avremo mai più: ormai sei soltanto nella mia testa e potremo stare insieme solo nei sogni. Ed ero diventato un cancro che distrugge tutto quello che mi è vicino: con la mia paranoia e con il mio bassissimo senso delle cose, ma che gli basta muovere la penna degli assegni per portare tutta la felicità del mondo; tuo cugino è morto, perché credeva d'essere più forte della vita stessa e la morte gli ha dimostrato il contrario. Non è stata colpa di nessuno, ne la tua morte e ne la sua. Neanche la morte di tutti gli altri: prima o poi, e per qualche motivo, tutti moriamo. Per primo, chi è fuori da ogni sospetto!» – Terminai, senza dire altro, alla Isabel nel mio cervello.
Chiamai Alfred con il telefono della casa: lo feci installare subito dopo il casino di Isabel. Gli dissi che i suoi servigi non erano più necessari e che lo invitavo a lasciare immediatamente la casa. Riagganciai subito.
Mi addormentai, il pomeriggio stesso.
La mattinata successiva iniziai i preparativi per progettare l'ultimo atto, di una storia alquanto travagliata. Non m'importava più di niente e nulla aveva più un senso, ormai: soltanto Isabel era sempre con me, sopratutto da quando avevo rimesso piede in quella casa, ma non volevo avere ripensamenti. Feci le ultime telefonate: sopratutto ai miei collaboratori e al mio notaio.
«Isaac, è arrivato il giorno. Si, sono sicuro di quello che faccio e scusami se non resto qui a godermi lo spettacolo!» – Telefonai a Isaac, omettendo tutto il resto.
«Mi chiamo Christopher Caithlys. Nel pieno delle mie facoltà psicofisiche, le mie volontà sono le seguenti: lasciare la somma di centomila dollari alla HLG, e la mia condizione è che ottemperino a tutti gli incarichi contrattuali già discussi tra le due parti. Il resto delle mie proprietà sia raso al suolo, con il resto dei soldi. E se ci rimane qualcosa, mandai un messaggio ai genitori di Isabel Les Vainis che recitò: "Mi dispiace!" - Fine messaggio» – Vi inclusi anche il mio testamento, tanto l'avevo già firmato dal notaio.
Era solo un'autorizzazione vocale: tanto per le tombe dei miei, avevo già dato il necessario.
Ero deciso, nel fare quello che andava fatto.
Feci in modo di donare tutti i miei soldi alle persone che mi hanno aiutato in questi anni di vita adulta, anche se non ero, sono o sarò adulto, ma solamente un cazzaro patentato.
Attesi la sera, le sei del pomeriggio: avrei dovuto rispettare l'orario della morte di Isabel.
L'allontanai dalla mia mente: non avrebbe dovuto farmi pressioni sul desistere nei miei intenti. Mi spogliai di tutto, tranne dei boxer: volevo affrontare il mio viaggio senza proprietà materiali... ed era meglio così.
Entrai in macchina: avevo paura, ma non era più il tempo dei ripensamenti. Collegai un ordigno a un piccolo cardiofrequenzimetro per calcolare il battito cardiaco. La macchina, la posizionai di fronte al lago.
Feci un respiro bello grosso.
Il cuore batteva all'impazzata, ma già era tardi per risolvere la tachicardia. Non volevo rimpiangere niente, ma ero sicuro di risolvere molti più problemi in questo modo: i soldi non fanno mai la felicità, se non puoi neanche goderteli con chi ami. Preferirei un sorriso sincero ad un capitale macchiato dal sangue. Misi in moto.
Premetti sull'acceleratore.
Quella notte, vidi Isabel molto più agitata del solito: era il peso del mio stesso rimorso. Non volevo mai portare La Morte a spasso, non più. Non volevo più fermarmi per ragionare, nemmeno un attimo: troppi spesi in passato.
Cento metri, tutti in velocità.
Il vuoto sotto le ruote della macchina: andavo incontro al mio inevitabile e unico destino. È stato bellissimo restituire qualcosa, a chi me l'ha donato.
L'acqua era fredda, molto fredda.
La Morte reclamò il mio corpo, ma finalmente avrei potuto congiungermi con il resto della mia famiglia: questo era l'unica consolazione importante.
Forse Isabel sarà, e rimarrà, solamente nella mia testa. Però, potrei ammettere d'aver sistemato le cose nell'unico modo che conosco: sparendo nell'oblio.
«Forse è meglio così!» – Disse Foulieur.
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The Chronicles of a Hero - 7 Tears
AcciónSequel di "The Chronicles of a Hero - Atlas". Dopo gli eventi di Atlas, Foulieur si ritrova a indagare su una serie di casi misteriosi che sembrano ricondurre a una sua vecchia conoscenza. Riuscirà a scendere ancora più in profondità nel torbido del...