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Sono sempre stata molto attiva sui social network.
A 17 anni avevo una pagina su Facebook nella quale scrivevo di tutto. Ne ho avute tante e tutte hanno raggiunto un importante numero di seguaci, vedere le mie parole in circolo mi ha sempre riempito il cuore perché scrivere non è altro che il mio modo di parlare. Ho attivo ogni tipo di social: sono iscritta a Facebook, ad Ask.fm e ad Instagram il quale, tra tutti, è il mio social. Mi ci sento a casa, vi accedo spessissimo, seguo tante ragazze e sono a mia volta seguita, leggo storie di vita vera, scrivo continuamente e condivido quasi tutto della mia vita ed ovviamente scrivo.
Quando scrivevo su Facebook stavo entrando nella bulimia e, finché non ho smesso di scriverci, ho sempre scritto di donne forti, indipendenti, che dovevano amarsi. Prima di amare qualsiasi cosa dovevano amare loro stesse. Non so definire la quantità di visualizzazioni, condivisioni e tag per i miei pezzi, dei messaggi che ricevevo. Scrivevo di donne combattive e combattenti, poi ero la prima a nascondermi, ad essere pavida e triste. Non mi rispecchiavo in nessuno dei pezzi che scrivevo per le donne. Era il tipico caso di consigli dati e non seguiti. Scrivevo di amore folle, quello che provavo io per Valerio, scrivevo di amore folle per la propria persona ma non sapevo cosa fosse e  come ci si amasse. Mi rendo conto solo adesso di quanto la mia vita sia stata una bugia.

Instagram non volevo aprirlo. Non volevo registrarmi né avere un profilo, convinta fosse solo l'ennesimo social con la variante di poter pubblicare foto. Poi, per curiosità mi sono creata un account. Per mesi lasciato vuoto, fino ad un pomeriggio di maggio dove, annoiata e accaldata, vi accedo e faccio ricerche. Scopro che anche su questo social ci sono pagine e gli hashtag la fanno da padroni. C'è di tutto. Ragazze magre e stupende, modelle bellissime che invidiavo e il contrario, ragazze spente. Ci sono ogni tipologia di persone, pagine e criteri. Veri e propri blog in piccolo questi profili.
Li chiamano diari alimentari ed altro non sono che profili incentrati sul cibo. Scoprii questa tipologia cliccando sull' hashtag che mi riportava all'anoressia. È talmente spaventoso da scattare un avviso: attenzione! Le immagini che stai per visualizzare non sono idonee alla visione dei più piccoli e allora mi chiedo perché ce le lasciano se non sono idonee costatando che i social sono in maggior modo popolati dai minori?
Quindi entrai in questa galleria di foto, profili e storie di ragazze anoressiche sull'orlo della morte, felici della propria situazione.
Giocavano con le proprie ossa, chiudevano il polso di tre cm tra l'indice e il pollice e vi restava spazio. Con le mani chiudevano la coscia rinsecchita. Leggevo frasi come: "Ana ha voluto mangiassi solo due cucchiai di riso in bianco e l'ho fatto."
"Ana dice che presto raggiungerò il mio obiettivo."
Ana è la voce malata che abita la nostra mente. Ero sconvolta.
Trovai ragazze che inneggiavano la malattia, portavano esempi diete ridicole per aiutare altre ragazze a diventare così oltre che loro stesse.  Non si auspica mai ad un corpo bulimico ma ad un corpo anoressico quindi trovai centinaia di profili dove la parola Anorexia la faceva da padrone. Ero molto spaventata da ciò. Quando lo ero stata io mi vergognavo di me e di mostrarmi. Non avrei mai ammesso di essere malata perché non mi ci vedevo anzi, trovavo esagerati tutti gli altri quindi tutto questo mettere in mostra, esserne fiere mi stupiva. Più scoprivo queste gallerie più mi rendevo conto degli anni cambiati. Due tipologie di adolescenza a confronto. La mia più nascosta, ancora un po' retrò perché non molto tecnologica e questa nuova, quella dove tutto è trasformabile in un portale, raggiungi  persone alla velocità della luce.
Sì, le raggiungi, ma come?
Mi sono chiesta spesso quante ragazzine siano finite in qualche centro malate o peggio, per aver seguito questi profili . Per aver appreso da loro come diventar magre fino a sparire.
Pian piano sviluppai un bisogno quasi primario di essere d'aiuto. Condividere anche la mia di storia ma in maniera diversa. Stavo lottando anche io una grande battaglia e forse, se avessi utilizzato i social in maniera diversa mi sarei aiutata e avrei a mia volta aiutato. Forse avrei persino trovato qualcuno con cui condividere il percorso.

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Cominciai così a postare, trasformando il mio profilo in un diario. La mia era  una galleria fotografica variopinta: cibo, frasi, insegnamenti,  messaggi, ricordi, richieste d'aiuto. Pian piano, i miei post lunghissimi nei quali aprivo piccole parti di me attirava l'attenzione di chi come me combatteva una battaglia.
Nessuno sapeva di questo mio spazio, era il mio angolo di mondo.

Avevo ancora molte crisi anche se lottavo con tutta me stessa per non cedere al circolo abbuffata-vomito-digiuno.
Un pomeriggio di giugno, scelsi di regalare alla mia amica Luisa due canotte carinissime scegliendone una anche per me. Era nera, con un disegno astratto a colori vivacissimi sul davanti. Ero felice, mi piaceva, avevo fatto qualcosa per me. Sbirciai anche qualche pantalone prendendo un jeans a vita alta grigio. Non mi andava, lo sapevo, era stretto e piccolo ma avevo il sogno di poterlo indossare, un giorno.
La commessa, senza alcun riguardo per l'educazione ma specialmente per il tatto, disse: "se è per te non ti va, prova una 44-46." Diventai di fuoco,  sentivo il calore fino alle orecchie. Imbarazzata risposi che non era per me, pagai e scappai. 
Piansi tantissimo e tornata a casa riposi canotta e jeans nell'armadio ancora nella busta.
Sentivo l'ansia crescere,  sarei finita con l'abbuffarmi, lo sapevo ma, per la prima volta provai a fare altro, una cosa nuova: lottare contro la parte malata di me.
Scrissi. Scrissi un nuovo post su instagram. Scrissi di ciò che sentivo, di quanto le parole di quella commessa mi furono pesanti. Mi chiesi perché la gentilezza, il tatto e la cortesia siano cosi rari. Trovai un'accoglienza calorosa da parte di chi rispose. Scoprii di non essere la sola ad aver vissuto episodi simili, mi furono dette parole di incoraggiamento.

Mi scoprii molto vulnerabile, uscita dalla mia bolla chiusa, mi scoprii ancora soggetta al pensiero altrui, al modo in cui mi vedevano le altre persone. Provare ad uscire, non stare sempre chiusa in casa ed uscire solo con Luisa o Valerio, mi pose molte difficoltà. Me ne resi effettivamente conto in vista del matrimonio di un amico di Valerio. Mi mandò in totale confusione.
Cosa indossare?
Come indossarlo?
Ero grassa.
Avrei dovuto mangiare davanti a tante persone.
Tante persone mi avrebbero visto.
Litigai molto con Valerio.
"Vogliamo cominciare a vivere normalmente come tutti, per favore? " mi sentii così in colpa da non dirgli più niente. Un suo amico si sposava, perché dovevo rovinargli anche questo momento? Non bastavano tutti gli altri rovinati?
Uscite in comitiva perse.
Vacanze mai fatte.
Bagni al mare tra una crisi e l'altra.
Tristezza continua.
Intimità da mesi assente.
E Valerio sempre accanto, sempre innamorato e devoto.
Non avevo già rovinato un po' troppo?
Ingoiai i miei malesseri e arrivai al giorno del matrimonio con un vestito che non mi piaceva come mi stava, dei capelli che non mi piacevano, un riflesso allo specchio che odiavo. Un corpo che di più brutti non ce n'erano. La mia timidezza mi lasciò quasi muta tutto il giorno. Non parlavo con nessuno e solo se mi si rivolgeva la parola.
La timidezza non era solo tale, era un misto tra l'essere timida e l'essere disgustata da sé perché mi vergognavo di me in un modo totale.
A metà del pomeriggio la mia insoddisfazione spinse Valerio a dirmi qualcosa che mi marchiò: tu non sai vivere
Non credo potessero esserci parole più vere ma sentirle e vederle esposte mi fece male, mi tagliò la carne.
Non sapevo più come si vivesse ma in realtà non l'avevo mai saputo. Mi ero ammalata troppo piccola per impararlo. Mi ero sempre rifugiata e fatta del male, non mi ero mai posta la domanda del futuro.
Non ero mai riuscita a pensare di avere una vita diversa. Mi rifigiai ancora in quel limbo e per giorni, forse  lunghi qualche settimana, tornai la stessa di prima. Quella che cedeva. Che si vergognava di sé.  Quando misi piede in casa mia, a notte inoltrata, mi sentii di nuovo protetta. Tornata nel mio bunker lontana da occhi che vedevano il mio grasso e il mio essere schifosa.
In fondo non sapevo vivere.
Vivere per me era quello.
Al diavolo l'illusione di poter essere diversa, di crearmi una vita e una persona nuova.

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