PASSATO

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Beatrice

Contavo fino a cinque.

Era il lasso di tempo che trascorreva dallo sbattere furioso della porta di casa al pianto convulso di mia madre. In quei brevi cinque secondi papà riusciva a spezzarle il cuore in mille schegge impazzite, come il bicchiere che immancabilmente cadeva a terra e dava il via all'ennesima lite.

Ogni singola sera.

Percepivo indistintamente le urla dei miei genitori, la mamma che gridava "Smettila!" e lui che le rispondeva con quella brutta parola che inizia per p. Sapevo che era brutta, perché un giorno, dopo scuola, mentre tornavamo a casa in auto, glielo chiesi.

"Mamma, cosa vuol dire puttana?"

"Cosa?" Si era voltata di scatto, il volto pallido, gli occhi che mi fissavano vacui e le dita che stringevano forte il volante.

"Te lo dice sempre il papà" risposi dal sedile posteriore.

Tornò a guardare la strada. "Tesoro, non devi dire quella brutta parola."

"Perché?" piagnucolai.

"Beatrice..." Usò il suo tono da rimprovero, e incontrai la sua espressione autorevole nello specchietto retrovisore.

"Allora, perché papà te la dice? Perché?"

Stavo vivendo la fase dei perché a qualsiasi cosa. Ora so, a distanza di anni, che quelle continue domande per lei erano un incubo come quello che viveva ogni notte con mio padre.

Non riuscì a darmi una risposta, la vidi deglutire a fatica e continuare a guardare fissa la statale davanti a sé. "Non la devi dire. Mai" mormorò, con la voce incrinata.

Quel giorno, riflessa nello specchietto, vidi un'immagine triste e sconfitta di mia madre. Da allora, per non rivedergliela, mi ripromisi di non pronunciare mai più quella parola.

Continuarono invece le liti tra i miei genitori.

Le urla facevano vibrare le pareti sottili della mia camera e, appena udivo il rumore del vetro sul pavimento, scendevo spaventata dal letto, con il mio orsacchiotto Sorriso stretto tra le braccia. Aprivo l'armadio e mi nascondevo dietro i vestiti di pizzo che odiavo tanto, ma che mamma insisteva per farmi indossare per la messa della domenica. Mi sedevo rannicchiata in quel piccolo spazio angusto, le gambe strette al petto e gli occhi chiusi, perfino strizzati, sperando di far sparire quelle grida. Non duravano molto, ma sembrava che non finissero mai.

Poi sentivo la porta che sbatteva e allora nel buio contavo sottovoce fino a cinque, guardando negli occhi il mio pupazzo di pezza.

Uno, due, tre, quattro, cinque...

I singhiozzi convulsi di mia madre spezzavano il silenzio calato in casa, la sentivo raccogliere i vetri e il suo pianto che dalla cucina si avvicinava alla camera matrimoniale di fronte alla mia. Le pareti erano talmente sottili da avvertire il materasso piegarsi sotto il suo peso, le molle scricchiolare e ogni sua lacrima versata rimbombarmi nelle orecchie.

Me ne stavo lì anche ore, al buio e seduta su una tavola di legno, aspettando e sperando che i singulti di mia madre cessassero. Sempre senza piangere, per non farle capire che ero sveglia.

Appena i singhiozzi scemavano, mi alzavo e tornavo a letto, col labbro tremante. Nascondevo la testa sotto il cuscino pur di non sentire il suo dolore e strizzavo gli occhi per non permettere alle lacrime di averla vinta.

Fu così per anni, fino a quel pomeriggio in cui aspettai mio padre alla fermata del pullman.

Doveva venire a prendermi come ogni giovedì, finito il rientro a scuola. Lo aspettai per minuti, le mani strette alle cinghie della cartella, finché i minuti divennero ore e del vecchio furgone Volkswagen non c'era traccia. M'incamminai da sola a casa, sperando che mamma e papà non si arrabbiassero, ma quel giorno faceva troppo freddo. Poi mi ritenevo grande abbastanza da fare qualche metro a piedi senza correre alcun pericolo.

Alzai il tappeto della porta d'entrata e presi la chiave di riserva. Quando entrai, mi accorsi che non c'era nessuno. La mamma era al lavoro e papà si era dimenticato di venire a prendermi come promesso.

Lasciai lo zaino vicino al portaombrelli e andai in cucina, dove trovai un biglietto sul tavolino.

É strano come un piccolo pezzo di carta possa cambiarti l'esistenza.

Un diploma, un curriculum, un biglietto aereo, un atto notarile, le carte del divorzio... O il biglietto con la calligrafia veloce di mio padre.

Avevo da poco imparato a leggere, quindi capii, quando lessi quella singola parola scritta di getto, che non era nulla di buono. Lo lasciai lì e corsi in camera a prendere Sorriso, mi nascosi nell'armadio e aspettai il ritorno di mia madre in silenzio, nascosta dai vestiti appesi alle grucce.

Quella sera non ci furono rumori di vetri rotti o la porta sbattuta violentemente.

Sentii solo il tacchettio delle scarpe di mamma sul linoleum della cucina e poi contai fino a cinque prima di sentire il suo cuore spezzarsi di nuovo.

Irreparabilmente. 

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⏰ Ultimo aggiornamento: Apr 12, 2017 ⏰

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