Scusa Papà.

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Quel martedì d’autunno, mi aveva promesso che la mia vita sarebbe finita; in un modo o nell’altro avrebbe trovato il modo per farmela pagare.

Era diventata un’abitudine la sua, ogni notte rientrava completamente ubriaco e finiva vomitando ovunque in giro per la casa. Ogni volta io facevo finta di dormire nella mia stanza ma, in realtà, lo aspettavo sveglia cercando di non piangere, di non rimproverarmi perché non era colpa mia; ma ormai non riuscivo più a mentire a me stessa, iniziavo a convincermi che avesse ragione. Lui non sapeva che io lo aspettavo sveglia, forse se lo avesse saputo si sarebbe arrabbiato con me. Speravo che prima o poi si decidesse a smettere con quel vizio, avevo provato milioni di volte a persuaderlo dal bere ma ogni volta finivamo litigando.

Tutto sembrava una tortura, sia per me che per lui.

Nel silenzio della notte sentii la porta di casa aprirsi e dei passi incerti muoversi sulle mattonelle del piano inferiore. Capii che le condizioni erano peggiori del solito quando lo sentii cadere sonoramente a terra tentando di salire le scale. Dopo svariati tentativi, riuscì nel suo intento e si diresse in camera sua buttandosi poi sul letto di peso.

Anche questa volta era tornato vivo, per quanto si potesse esserlo ridotti in quello stato.

Attesi qualche minuto con le orecchie tese per scrutare ogni suo piccolo movimento, quando finalmente sentii il suo respiro farsi regolare e i suoi lamenti di dolore cessare per il sonno, trovai pace addormentandomi anch’io.

Quella sera non sarebbe venuto in camera mia.

Era mattina presto quando mi svegliai di colpo nel mio letto. Come da programma sapevo che prima di andare a scuola avrei dovuto pulire il vomito da lui lasciato in giro per la casa, raramente faceva in tempo ad arrivare al gabinetto. Pulii silenziosa e mi preparai con molta calma dirigendomi in bagno per fare una doccia fredda. Era mia abitudine farla la mattina prima di uscire di casa, era come se l’acqua riuscisse a lavare via anche tutte le mie frustrazioni, tutte le mie paure e tutti i brutti pensieri che mio padre mi portava ogni notte. Stare sotto il getto di acqua gelida era quasi rilassante, come se il freddo che sentivo dentro al cuore trovasse pace in un corpo vivo altrettanto freddo.

Una volta pronta, presi cartella e chiavi di casa ed uscii dal portone principale senza passare a controllare che lui stesse bene. Ero arrabbiata.

Per quanto potesse odiarmi aveva persino dimenticato il giorno del mio compleanno e sapevo che all’imbrunire sarebbe tornato a casa più tardi del solito costringendomi a pensare a cosa gli stesse succedendo invece che provare a pensare a me stessa, però lo avrei perdonato ugualmente. Io gli perdonavo tutto.

La scuola non distava molto da casa mia quindi con occhi bassi e passo veloce arrivai davanti al cancello a piedi. Che fosse stato caldo o freddo, soleggiato o nuvoloso io andavo sempre a piedi; non avevo amici, non avevo il ragazzo, avevo solo mio padre. Non potevo permettermi nient’altro. Nessuna distrazione, nessuno svago. Nulla.

Se avessi sbagliato qualcosa, sarebbe andato tutto in rovina. Mio padre, quando si ricordava di avere un lavoro, portava a casa uno stipendio minimo che usava poi per bere ogni sera. Avevamo debiti su debiti ma a lui non importava, lui voleva solo bere. Una volta avevo un conto per la mia università ma a furia di alcool lo aveva prosciugato interamente.

Puoi trovare di meglio da fare che badare a me, non ho bisogno di te!”

Per cercare di guadagnare qualcosa in più lavoravo part-time in vari posti differenti dopo le lezioni, ma non riuscivo più a resistere così; presto non sarei riuscita più a badare a entrambi, dopotutto avevo solo diciassette anni e non riuscivo a fare più di quanto già non facessi.

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