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La pioggia batteva incessante sulle vetrate della biblioteca distraendomi. Gli esami si avvicinavano e dovevo rimanere concentrata, non potevo permettermi di saltare un solo appello disponibile. Volevo laurearmi. E al più presto. 

La sala, con i suoi muri bianchi, era illuminata a giorno e le gocce che correvano lungo i vetri risplendevano alla luce artificiale. Le persone intorno a me rimanevano chini sui libri a catturarmi l'attenzione era un ragazzo dai capelli rossi che giocherellava con la matita guardando il panorama, era seduto nell'ultimo tavolo, riuscivo a distinguere il codice civile sotto i numerosi appunti e un panino morso a metà. Eravamo gli unici ad accorgerci di cosa stava accadendo fuori.

Per essere in piena sessione invernale l'aula non era molto affollata, si riuscivano a distinguere due tipologie di studenti: i precisi e i ritardatari. I precisi: avevano un libro, una bottiglietta d'acqua, un paio di appunti che ormai conoscevano a memoria e un evidenziatore che veniva aperto di tanto in tanto, sapevano che mancava ancora un po' di tempo all'esame, ma erano già pronti, avevano studiato volta per volta, sapevano che l'avrebbero superato a pieni voti senza la minima difficoltà. Poi c'erano loro, i consumatori di cancelleria, fogli volanti da tutte le parti, libri personali e in prestito aperti, matite, penne ed evidenziatori di tutti i colori, l'esame era alle porte e ancora non erano a metà programma, cercavano di leggere più informazioni possibili e pregavano per un venti. 

Io facevo parte della prima categoria, non mi piaceva prendermi all'ultimo momento, amavo studiare e di certo non puntavo a un voto mediocre, ma questa giornata era diversa, tutto mi deconcentrava, le montagne in lontananza con le cime coperte da nubi sembrava che mi parlassero, erano magnetiche. Odiavo l'inverno e soprattutto odiavo febbraio, con i suoi giorni che variavano dal grigio scuro al grigio chiaro, gli unici colori che si vedevano in giro erano quelli degli ombrelli. A pensarci bene non ho mai visto ombrelli neri, forse perché nelle giornate di pioggia si ha voglia di contrastare il tempo con questi oggetti essenziali. Si ha bisogno di colore per far spuntare un sorriso. Come sono strani gli esseri umani, riescono a prendersi in giro da soli.

Dopo la terza goccia che seguivo con lo sguardo e un paio di riflessioni sugli ombrelli capii che era ora di prendere le mie cose e andarmene; avevo fatto abbastanza per oggi, il mio cervello era saturo. 

Appena aperta la porta un'ondata di aria fredda mi colpì il viso che riuscì a schiarirmi i pensieri. Era come se il mio corpo si fosse risvegliato in quel momento da un lungo sonno, il calore dell'aula mi aveva atrofizzato. Decisi di godermi quella sensazione per trenta secondi, avevo bisogno di ricaricarmi.

"Tesoro ti stai bagnando tutta!"  La voce della bibliotecaria mi fece sussultare,aveva rovinato il mio momento di relax post studio. La sua gonna verdone nascondeva degli stivali rovinati, un tempo dovevano essere in vernice ma ora la parte lucida era stata sostituita da un velo opaco, ma per quanto cupo fosse il suo abbigliamento il viso risplendeva di gentilezza. Gli occhi nascosti da un paio di grandi occhiali marroni le coprivano il viso piccolino, poteva assomigliare a un topolino, l'unica sua preoccupazione era mettere in salvo dalla pioggia il libro che  teneva in mano.

Non volevo essere scortese anche se aveva rovinato il momento migliore della giornata, mi affrettai a sorriderle e corsi alla macchina.

L'avevo chiamata Chocolate anche se ero l'unica persona, oltre al ragazzo dell'autoconcessionaria, a vederla marrone scuro. Era accogliente, mi aveva vista felice, triste, depressa, ubriaca, nervosa, mi fidavo come se fosse un'amica. Mi sentivo al sicuro, sapevo che mi bastava premere l'acceleratore per essere in salvo da qualsiasi cosa. 

Avevo parcheggiato non molto lontano, ma con la pioggia che mi batteva in testa mi sembrarono chilometri. Il più velocemente possibile aprii lo sportello e misi la prima, con la musica che mi faceva compagnia iniziai a percorrere il tragitto che facevo tutti i gironi con una differenza, ero zuppa dalla testa ai piedi, ma un po' più colta di quando ero partita. 

Guidare mi piaceva, potevo cantare a squarciagola senza che nessuno mi sentisse, potevo rivivere discussioni cambiando il finale o aggiungendo frasi ad effetto, potevo ripetere quello che avevo studiato senza paura di sbagliare e potevo mandare registrazioni lunghissime alle mie amiche con la scusa che non potevo scrivere visto che ero alla guida. 

Casa mia non era molto lontana, abitavo in un quartiere residenziale, pochi rumori ma molte persone che si facevano i fatti degli altri. I miei vicini conoscevano i miei orari e andavano a comunicarli ai miei se ritardavo per assicurarsi che ne erano al corrente ripetendo la frase di circostanza: "Non si sa mai di questi tempi". 

Solo una casa non era abitata, o meglio, non ci abitava più nessuno. Il proprietario si era trasferito per lavoro, nessuno sapeva niente, non si faceva sentire da mesi. Avevamo capito che voleva affittare visto le numerose  visite, ma niente di più. Non era una casa molto fortunata, aveva visto saltare già tre coppie,  chi aveva l'amante, chi aveva una doppia famiglia e chi non la voleva affatto. Realtà diverse messe a disposizione per rallegrare i pranzi e le cene del vicinato. Avere troppi vicini alle volte non è per niente un bene soprattutto se nascondi dei segreti.

Eccomi arrivata, il cancello aperto e la luce accesa, mi stavano aspettando, non vedevo l'ora di farmi una doccia calda. Iniziai a cercare le chiavi in borsa, ma la porta si spalancò e il sangue mi si gelò nelle vene. Non era possibile, non volevo crederci. Mi mancò un battito. Rimasi immobile, quel profumo era inconfondibile.

IL RAMOSCELLO DI LAVANDADove le storie prendono vita. Scoprilo ora