Parte Quarta

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Apro gli occhi, ma invece di avere i muscoli doloranti, mi sento benissimo, e il calore del camino acceso mi sveglia ancora una volta. La sudicia camicia del manicomio che avevo abbandonato nell’armadio ha lasciato il posto al morbido e un po’ vecchio pigiama del mio ospite.

Mi alzo dal lettino e vado verso la cucina, dove trovo John intento a cucinare delle profumatissime frittelle.
Non capisco...fino a qualche momento prima ero in una casa abbandonata e malridotta, allora perché adesso sono di nuovo qui?L’uomo mi saluta con un cenno del capo. Dopo qualche istante, gli chiedo perché il giorno prima non mi avesse aperto, ma lui mi guarda con fare interrogativo.
- Cosa dici, figliolo? Hai passato tutto il giorno qui con me. -
Sono confuso, ma non continuo per non sembrare più pazzo di quanto lui già non creda.

Ringraziando, mangio le mie frittelle ed esco di casa, per schiarirmi le idee. Le voci nella testa sono sempre più fievoli, e l'astinenza si sente meno. Una giornata di sole accoglie la mia sortita.
Con i piedi nudi scivolo sull’erba bagnata dall’acquazzone di ieri, e senza pensarci vado verso la casetta della scorsa notte.

Questa è lì dove l’ho lasciata, con i suoi vecchi mobili e le sue pareti marce.
Ma i vestiti nell’armadio sono spariti. Tutto questo è molto, molto strano.
Mi metto a cercare un qualche indizio che possa ricondurmi alla giornata appena passata, ma non riesco a trovare nulla. Improvvisamente sento dei rumori, dei passi, e​ mi nascondo dietro il divano sgualcito pronto a scappare. Fortunatamente è John, che mi osserva alzando un sopracciglio. Mi alzo imbarazzato.
- Ho sognato questo posto stanotte - Gli dico balbettando.
- Volevo vedere se esistesse davvero. -

Dopo qualche istante di silenzio, replica:
- Senti, dobbiamo parlare di come farti superare il confine. Il treno passa non lontano da qui, se riuscissi a salirci… -
- È lo stesso che usano quelli di winnenthal. Preferirei un altro modo.
L'uomo mi prende per le spalle. Ha le mani ruvide e forti.
- So che quel posto ti evoca brutti ricordi, ma non c'è un altro modo. A meno che tu non voglia farti altri cento chilometri a piedi con le pattuglie che ti inseguono.

Ci rifletto a fondo. La mia meta è Zurigo, ma lo stato tedesco ha potere su una buona metà della Svizzera. Se ho davvero intenzione di andare lì, mi dovrò camuffare.
Abituati all’idea, - continua lui - parti domani. -

۲

La triste capanna è ancora gocciolante per il diluvio. Gli stracci che ho indossato fino a quel momento sono ancora umidi dentro l’armadio. Faticosamente li reindosso, lasciando una macchia di muffa su di esso.
Ogni articolazione mi fa male.
Sto cominciando a capire. Barcollando torno a casa di John, e sbirciando dalla finestra lo vedo cucinare. La stessa padella su cui ieri mattina ha cucinato le frittelle, ma senza frittelle. Solo una zuppa di avena per uno. La luce cordiale che gli aveva illuminato gli occhi quando ero con lui lo ha abbandonato. Ha lo stesso sguardo della prima volta che mi ha visto. Non è lo stesso John.

È come se dall’istante in cui sono svenuto sulla sua soglia, la mia vita avesse preso due strade diverse. Le ripetizioni notturne non ci sono più. Devo davvero abituarmi all’idea di vivere in due mondi separati?

Andrò alla stazione in ogni caso, con o senza l’aiuto di John, devo solo capire come. Qualche ora fa ho dato un’occhiata alla sua cartina, mi pare che si trovi a circa dieci chilometri a sud-ovest di qui, solo che non ho né un biglietto né qualcuno disposto a farmi salire sul treno per Zurigo gratis e senza documenti. Posso trovare un altro modo…  devo trovare un altro modo.

Mentre sono perso nei miei pensieri su come passare inosservato, arrivo fino alla stazione. Ho camminato così tanto, negli ultimi giorni, che dieci chilometri volano. La stazione è piccola e affollata, con giusto tre binari. La gente mi vede. Oh no. Continuo a camminare, provando a sembrare una normalissima persona che deve prendere il treno, ma mi sembra di tremare fin troppo, quando un uomo mi ferma:

- Hai perso qualcosa, figliolo? -

- Ehm… - inizio a balbettare - no no, sto solo cercando il treno per Zurigo… -

Dannazione. Sono proprio stupido. Non potevo mentire?

- Ah, perfetto! Io sono il capotreno di quella bellezza! Se vuoi puoi venire con me, da questa parte. -

- No grazie,  faccio da solo… -

Ecco, ora mi trema pure la voce. Perfetto.

- Va bene ragazzo, io comunque sono Rupert Braun, se ti serve qualcosa fammi un fischio. Com’è che ti chiami? -

- Hans, grazie dell’aiuto. -

Almeno ne ho fatta una giusta. Così non mi troverà.

- Arrivederci, Hans. -

- Arrivederci. -

Un ragazzo puzzolente e vestito di stracci, a cui servirebbe molto una doccia, parla con il capotreno: ho attirato l’attenzione. Questo non va bene.
Con la coda dell’occhio, scorgo dei poliziotti. No, no, no.
Lentamente, mi allontano dei binari. Esco dalla stazione. Quando sono abbastanza lontano da non essere visto, mi metto a correre.

Voglio dormire. Dormire e ritrovarmi a casa di John, e poi andrò a Zurigo. Anzi, ho già un’idea su come cavarmela...

۲

Ciocche di capelli cadono leggiadre al suolo, accompagnate dalla vibrazione  metallica che mi rimbomba nel cranio. Uno dopo l’altro, i ciuffi si adagiano a terra, abbandonandomi per sempre. Il rasoio mi gratta violentemente la testa, oramai ruvida e nuda, per gli ultimi ritocchi. Sebbene la febbre mi sia passata e i giorni ospitato da John siano stati un vero toccasana, rasato a zero ho comunque l’aspetto di un deportato. La barba ispida ha cominciato a ricrescere, merito del divieto di John di tagliarla.
Nonostante tutto ha ragione lui: con questo aspetto sembro un’altra persona.
Mi guardo allo specchio scettico, mentre la sua mano ruvida accarezza il lavoro appena svolto.

Non riesco a credere a quanta fortuna ho avuto: John ha un amico, un veterano della guerra. Ha passato sei anni della sua vita a uccidere sconosciuti, e ancora non dorme sonni tranquilli. Ora fa il capotreno e non credo rifiuterà di aiutare un fuggitivo.

Il mio benefattore mi illustra la strada per arrivare alla stazione e, sebbene la conosca già, non lo interrompo. Ho una nuova camicia, delle nuove scarpe, dei nuovi pantaloni e qualche moneta. Le poche ore prima della partenza scorrono rapide, scandite dai preparativi. A mezzogiorno, il momento è giunto: devo salutare John, per non rivederlo mai più.

Mi avvio verso l’uscio con una lentezza surreale. Mi fischiano le orecchie. Ci fermiamo sulla soglia e stiamo lì, uno di fronte all’altro, con un imbarazzo quasi palpabile. L’uomo mi mette una mano sulla spalla e dice sommessamente:

- Allora… te ne vai, eh? -

La voce mi esce di bocca flebile e tremolante.

- John, io… -

- Tranquillo, ragazzo. Va’. -

- Perché hai… perché hai fatto tutto questo per me? -

Lui mi scruta con gli occhi lucidi.

- Cos’altro ho da fare qui, per il resto della vita? Cosa mi servono quindici camicie, sei paia di pantaloni e cinquecento marchi al mese? Ho già vissuto settant’anni, Isaac. A cosa servono le persone, se non ad essere felici e ad aiutare gli altri? -

Scoppio a piangere e lo abbraccio.
Prendo un respiro, e gli racconto delle mie notti. Gli dico che non so che cosa è reale, che questo potrebbe essere un sogno. Che sono pazzo. All’inizio non risponde. Poi, solennemente, dice:

- Ognuno di noi ha paura. Io ne ho avuta più di tutti, quando ti ho accolto. Non sai quale delle tue due vite sia reale? Allora vivi. Vivi come se entrambe lo fossero. Addio, Isaac.

La stazione è affollata come ieri. Forse, perché potrebbe essere ancora ieri.
Mi dirigo a capo chino verso il binario 2, con il quale potrò arrivare in Svizzera. Nessuno sembra notarmi. Rupert, il capotreno, mi strizza l’occhio e mi fa salire sul vagone riservato agli addetti. John deve avergli parlato di me. Appena ventiquattr’ore fa, per lui io mi chiamavo Hans.
Guardo il treno partire lentamente, seduto su un sedile della sala macchine, col viso appoggiato sul finestrino. Sono profondamente felice e malinconico al tempo stesso. Senza cambiare posizione, mi addormento.

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