CAPITOLO 29

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DOMENICA 13 OTTOBRE

Il giorno successivo mia madre era passata ancora a trovarmi ma non le avevo rivolto la parola nemmeno questa volta.

<Signora Baker c'è un'altra visita per sua figlia, le lascio ancora qualche minuto.>

Intanto mi chiedevo chi potesse essere l'altra persona. Forse di nuovo Chloe e da una parte lo speravo. Credevo che dopo l'ultima volta non sarebbe più venuta.

Lei <Mi dispiace per tutto Arianna ma tu ce la farai okay? Andrai avanti ed insieme sconfiggeremo ogni tipo di problema.>

Disse per poi alzarsi dalla sedia ed uscire fuori.

Chiusi gli occhi mentre delle goccioline umide mi bagnarono il volto.

Non sapevo bene cosa sarebbe successo e cosa avevo intenzione di fare della mia vita a quel punto, sapevo solo che potevo scegliere tra due soluzioni... o finalmente riprendere a lottare, oppure mollare, ma non sapevo a che fine sarei arrivata con quest'ultima.

La porta si aprì e si richiuse in un suono flebile.

Quella persona si sedette di fianco a me ma non riuscivo ancora a capire bene di chi si trattasse. Non aveva ancora detto nulla e in questo modo era più difficile individuare questa persona.

Non mi importava però molto sinceramente perchè I miei occhi erano attratti dal paesaggio spento che c'era fuori.

Una leggera nebbia ricopriva la città e un po' di vento smuoveva qualche volta I rami di foglie facendone cadere qualcuna.

Ma quando quella persona parlò rimasi stupita e sorpresa di sapere di chi si trattasse davvero.

Mai e poi mai mi sarei aspettata di trovarmelo qui. Non dopo ciò che aveva fatto.

Lui <Ciao Arianna...> disse semplicemente all'inizio. <Lo so che vorresti con tutta te stessa urlarmi contro e dirmi di sparire ma voglio che tu sappia il perchè sono qui... anzi, sinceramente non lo so nemmeno io bene il perchè.>

Strinsi I pugni solo per non scagliarmi su di lui e prenderlo a calci.

Lui <Quando ti ho vista in bagno, sdraiata a terra con tutto quel sangue... io ho pensato che stessi davvero per morire. Vedevo il dolore impresso sulla tua faccia... poi ti sei ripresa e hai fatto come se nulla fosse. Dicevi che nessuno doveva sapere niente e che ciò che ti era capitato non era nulla di che, ma sai anche tu benissimo che non era così. Lo sappiamo entrambi ormai. Ciò che ti stava capitando diventava sempre peggio ma tu non volevi ascoltarmi e capirlo. Ho avuto paura di una cosa per un momento.> disse sospirando per poi lasciare qualche secondo di silenzio. <Avevo avuto paura che un giorno ti avrei trovata così, ma che però fosse troppo tardi ormai. Se io non avessi fatto qualcosa saresti morta, e so che forse a te non importa poi così tanto ma a me, e non solo a me, si.>

Passarono secondi e poi minuti ma lui era ancora lì, in silenzio a guardarmi mentre io non gli avevo ancora rivolto un'occhiata.

Lui <Tornerò, ti dico solo questo.> disse pero poi alzarsi ed uscire dalla stanza.

Decisi di alzarmi da quello scomodo letto e mi avvicinai alla finestra. Non si vedevano case o edifici, ma solo un giardino spoglio e freddo e poi niente, vuoto. Come se fosse al confine della città.

E questo tempo rendeva tutto ancora più angosciante e malinconico.

Tutto ciò che si poteva sentire oltre allo scorciare dell'acqua sul tetto, era il continuo ticchettio delle lancette dell'orologio che segnavano le 16:28.

Nessun suono si poteva sentire al di là della porta, quasi come se non ci fosse nessuno e ciò mi pareva strano dato che in un ospedale solitamente c'è un continuo movimento nei corridoi.

Eppure solo il silenzio faceva da rumore tra quelle quattro mura.

E dopo interminabili minuti la porta si aprì nuovamente lasciandomi comunque immobile.

<Arianna? Sono il Signor Jensen, lo psicologo. Andiamo nel mio ufficio okay?> Disse gentilmente.

Mi voltai verso di lui e, dopo aver camminato per un lungo e vuoto corridoi arrivammo nel suo ufficio.

Era ben arredato, dei quadri astratti e non ben definiti su ogni parete, una cattedra di vetro nero in fondo dietro alla quale si sedette lui su una poltroncina di pelle nera a rotelle.

Mi fece segno di sedermi e così mi accomodai su una sedia abbastanza scomoda. Continuai a guardarmi intorno osservando ogni tipo di particolare.

Sopra alla cattedra c'erano vari oggetti. Oltre ad un computer portatile nero si poteva vedere anche un quadretto in cui c'era raffigurata una famiglia di tre persone. Dietro ad essa un piccolo vaso contenente dei bellissimi girasoli.

Ritornai però ad osservare quella fotografia cercando di capire di chi si potesse trattare.

<Stai guardando questa?> disse con un sorriso malinconico prendendo tra le mani la cornice bianca e osservando quel piccolo ricordo. <E' la mia famiglia, io, mia moglie e mia figlia.> disse sospirando. <Mia moglie è malata di cancro in questo momento e nostra figlia è davvero piccola.>

Abbassai lo sguardo incapace di reggere il suo così dolorante.

<Mia moglie vorrebbe vedere nostra figlia crescere come ogni madre vorrebbe. Comprarle I vestiti, portarla a scuola, vederla fare nuove amicizie, vederla felice e aiutarla... vorrebbe tutte queste cose ma non può perchè sta morendo... lei vorrebbe vivere e non ne ha l'occasione, mentre chi può a volte butta via la propria come se niente fosse.> disse puntando le sue iridi nelle mie. Avevo perfettamente capito il senso della frase, si riferiva a me in un certo senso. Io che potevo vivere stavo gettando via questo dono che però sua moglie avrebbe tanto voluto.

E solo questa frase in me provocò qualcosa. Era riuscito a smuovere alcuni pensieri e a crearne altri. Aumentando di più quella piccola speranza che credevo fosse svanita da tempo.

~La ragazza della ferrovia~ (Wattsy2017)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora