Parte 1 - La Maledizione

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PROLOGO

Landssjúkrahúsið, ospedale di Tórshavn nelle Isole Føroyar, ore 00:47 del 17 Novembre 1989.

Sangue e muco. Troppo, troppo anche per me. Anni di studio e di ricerca non possono prepararti a questo, perché non sarebbe dovuto essere così, mai era stato così. Sangue e muco, e abbiamo centinaia di divinità che si affollano rivendicando questo schifo.

Eppure, ci riduciamo a questo. L'atto più straordinario della nostra esistenza si riduce a sangue e muco, urla e bestemmie, mani che si serrano con inaudita violenza, unghie che strappano flebili e bianchi lenzuoli, voci che si accalcano in un turbine di quiete e tempesta, finché tutto, magicamente, finisce e inizia nello stesso momento. Ripensandoci, c'è della magia, ma è corrotta, violenta, schifosa. E non sarebbe dovuto essere così.

Landssjúkrahúsið, ospedale di Tórshavn nelle Isole Føroyar, ore 15:32 del 16 Novembre 1989.

Aðalbjørg e io eravamo comodamente seduti fuori l'ospedale, perdendoci in quella tipica meraviglia che si crea stando seduti dopo sedici eterne ore di lavoro a combattere contro uomini terrorizzati e stupiti e donne sofferenti e urlanti; la magia, però, era completata da altri due straordinari elementi che si aggiungevano al già appagante riposo sulle panchine del giardino che circondava l'ospedale: la bellezza del paesaggio e Aðalbjørg stessa. Dio, quanto la desideravo in quel momento.

Un giorno mi disse che noi uomini siamo eterni egoisti, che ci nutriamo del nostro ego e che in realtà ci piace fare sesso soltanto con noi stessi, perché siamo ancora intrappolati in stupide contese primitive e in un senso di possesso che si appaga soltanto quando tramite l'altro possediamo noi stessi. Una teoria interessante, la sua, soprattutto perché la ripeteva ogni settimana, tutte le volte riuscendo ad aggiungere prove e citazioni illustri alla sua tesi: «Lo dice anche Joyce in The Dead, fjols!». Per fortuna teneva le chiacchiere fuori dal letto.

I minuti passavano come granelli di sabbia nel deserto, estremamente simili e monotoni, mentre i nostri occhi si chiudevano lentamente, ammaliati dalla promessa di poter dormire, circondati dalla natura e dalla bellezza. Sognavamo ad occhi aperti, ma i sogni non fanno parte di questo mondo, e la realtà venne a svegliarci prendendoci a calci nelle tempie.

«Aðalbjørg, Hóri! Dovete correre al reparto, hanno bisogno di voi». Quel fottuto supervisore aveva la voce più forte del corno di Heimdallr e in quel momento le sue aspre note rimbalzavano violentemente all'interno del mio cranio come pesanti palle di ferro arrugginito. «Tu, Hóri, in ginecologia, vai a far nascere qualche altro stronzetto». Non avrei mai immaginato di poterlo odiare così tanto. «E tu, mia dolce principessa, oggi mi farai d'assistente». No, non avrei mai immaginato.

Landssjúkrahúsið, ospedale di Tórshavn nelle Isole Føroyar, ore 16:59 del 16 Novembre 1989.

Per più di un'ora. La signora Yngvild ha urlato e scalciato per più di un'ora, e continua a farlo. Le ho assegnato la stanza numero 7, quella più in fondo al reparto, eppure riesco a sentire le sue urla anche nel più nascosto dei ripostigli. Non ce la faccio più. È il mio primo giorno in ginecologia e già odio l'intero genere femminile, e ancor di più quegli idioti degli uomini che rimangono increduli e spaventati quando mi avvicino alle loro mogli, fidanzate o figlie per fare il mio lavoro. Davvero credono che mi faccia piacere infilare la testa tra maledizioni e imbarazzo? Sono nato per fare il cardiologo, non per indossare questo cazzo di camice rosa!

In quel momento, odiavo il mondo intero. Le urla della signora Yngvild erano lo sfondo perfetto ai miei grigi pensieri, le urla mi ricordavano che non mi sarei potuto nascondere, mi ricordavano che ho studiato per cinque lunghissimi anni per essere qui, io, quell'Hóri che tutti pensavano non potesse riuscire in nulla, il ragazzino pieno di acne, quello che veniva pestato da tutti i bulli, e anche da quelli che cercavano di imitarli. Hóri il codardo, Hóri lo scemo, Hóri la capra. Ma era bello vedere quelle stesse bocche che avevano pronunciato quelle parole contorcersi verso il basso quando i loro genitori finivano in quest'ospedale, mi dava un senso di potenza, perché Hóri l'aspirante dottore aveva risposte ai loro dubbi, sapeva combattere la morte. E Hóri il dottore l'avrebbe fatto, sì se l'avrebbe fatto.

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