«Padre, la cercano. Nella 104». A parlare, riconobbe Don Andrea prima di voltarsi, era stato un giovane cameriere con il viso pieno di foruncoli. Si chiamava anche lui Andrea, se non ricordava male. Il cappellano attese pochi secondi, poi, sentendo ancora alle proprie spalle il respiro del giovane, rispose: «Va bene, cinque minuti e arrivo». Quindi aspettò che quello attraversasse il ponte di passeggiata della crociera e scomparisse in qualche scomparto interno della nave.
Respirò a pieni polmoni l'aria salmastra. Era buio e solo ogni tanto dai piani superiori, insieme a quella fastidiosa musica da discoteca, arrivava qualche fascio di luce colorata. Il prete sospirò. Sapeva di cosa si trattava. Gliel'avevano comunicato poco più di un'ora prima: un passeggero si stava sentendo male. Febbre alta, sputava sangue dalla bocca. Ogni tanto, gli avevano detto, cominciava a raccontare storie strane, insensate. Il medico di bordo non aveva saputo individuare la causa del male e il comandante aveva detto che sarebbero arrivati sulla terraferma solo la mattina dopo. Troppo tardi, probabilmente, si era detto Don Andrea, pur non avendo alcuna conoscenza medica: l'aveva intuito quando, mentre il capitano diceva che non sarebbero mai riusciti ad attraccare quella sera, il medico aveva abbassato lo sguardo.
Non capitava quasi mai che un passeggero morisse sulla nave. Da quando il mare era diventato tutto ciò che i suoi occhi potevano sopportare, era successo solo due volte. Quando, vent'anni prima, una donna era scivolata nella doccia e si era fracassata il cranio, l'onere dell'estrema unzione era toccato a un altro cappellano. Cinque anni prima, invece, lui ci aveva provato con un malato terminale, il cui ultimo desiderio era stato quello di trascorrere gli ultimi giorni sul mare. Quello aveva rifiutato il sacramento. Don Andrea ricordava ancora il volto di quell'uomo e la sua rassegnazione beata, ma incrinata negli occhi da qualche inquietudine ignota. Era per quello che la morte lo spaventava così tanto.
Si concesse ancora qualche secondo appoggiato al parapetto. I raggi candidi della luna annegavano nell'abisso dell'oceano. C'era alta marea e le onde facevano ballare la nave, tanto che il religioso dovette reggersi alle sbarre per non scivolare all'indietro.
In lontananza, l'intermittenza di un faro.
Chiuse gli occhi e si godette ancora per qualche attimo quell'armonia. Sospirò ancora, poi si voltò e s'incamminò sul ponte. Andò verso l'ascensore. La 104. Primo piano. Mentre la macchina lo portava giù, s'aggiustò il colletto della tunica e distese qualche piega che s'era formata sulla veste. Poi le porte si aprirono e lui si diresse verso la stanza.
La porta era socchiusa e l'altro cappellano, don Gianni, appoggiato al muro di fronte, faceva da guardia. Non che ce ne fosse bisogno: a quell'ora tutti dormivano o spendevano i propri soldi al bar o al casinò ai piani superiori.
«Come sta?» mormorò don Andrea.
L'altro alzò le spalle, come a scusarsi. Poi aggiunse: «Ancora non capiscono cos'ha».
Don Andrea annuì. Quindi, deciso che entrare di colpo sarebbe sembrato indiscreto, bussò, nonostante la porta aperta. Una voce strozzata gli rispose: «Avanti».
Era una stanza singola. C'era solo un letto attaccato alla parete più vicina, un piccolo scrittoio e una finestra rotonda, da cui non entrava che poca luce fioca. Per il resto la camera era buia, se non per una piccola lampadina poggiata sulla scrivania, che emetteva un bagliore sporco e tremulo. Il malato era a letto e sull'unica sedia di legno, spossato, sedeva il dottore.
«Allora?» chiese don Andrea al dottore, convinto che l'ammalato fosse in stato d'incoscienza.
«Padre, è lei? Devo parlarle» rispose invece quello, con una voce che era un filo fragile.
Il medico, nel frattempo, fece un cenno chiaro. Sta per andare.
«Certo, certo. Come ti chiami?» chiese il prete.
«Oliver. Oliver Ferri».
Don Andrea annuì, poi estrasse dalla tasca della tunica la boccetta che serviva per l'unzione.
«Dottore, può restare fuori per un po'?» chiese il malato.
Il medico parve un po' preso alla sprovvista, poi tentò di abbozzare una protesta: «Guardi, in realtà... potrebbero esserci delle complicazioni, quindi...»
«Non si preoccupi, la chiamerò io se serve. Tanto è una cosa da pochi minuti» intervenne il cappellano, aprendo il suo libro delle preghiere. Era buio e non riusciva a leggere bene le pagine, quindi arricciò gli occhi.
Il medico si guardò attorno, cercò una frase per ribattere, poi abbandonò la stanza in silenzio.
Don Andrea guardò il malato. Aveva gli occhi infossati e circondati da un alone nero e i lineamenti aguzzi. La sua immagine si rifletteva sul muro in legno e la violenza delle onde la deformava, disegnando una successione di figure macabre.
«Puoi togliere quelle cose? Non è per questo che ti ho fatto chiamare» disse Oliver, indicando il breviario del prete. La sua voce ora era più ferma e il religioso pensò per un attimo che quella storia della malattia sconosciuta fosse tutta una stronzata. Poi però il malato tossì per quasi un minuto e il suo viso si fece tutto rosso. Quando si riprese, disse: «Scusa se sono diretto, ma mi sto rendendo conto che il tempo stringe. E la storia che devo raccontarti è abbastanza lunga».
Il cappellano, con un po' d'imbarazzo, mise da parte gli strumenti per l'unzione. «Dimmi, di cosa si tratta?»
Quello non fece caso alla domanda e continuò: «Ho voluto parlarne con te perché gli altri non ci credevano. Ho accennato qualcosa, ma mi zittivano, mi prendevano per pazzo». Attese qualche secondo, poi un piccolo sorriso si formò sulle sue labbra: «Lo sono davvero? Chissà. Forse tu puoi credermi. Forse sei l'unico su questa nave che può farlo». Poi Oliver ebbe un altro accesso di tosse e chiese a don Andrea di portargli un bicchiere d'acqua. Il prete ne riempì due: uno per il malato e uno per se stesso. Sentiva la gola ardere.
Il malato scolò l'intero bicchiere in un sorso, poi lo lasciò sul comodino affianco a lui. Quello traballò, il vetro riflesse la luce della lampadina. «È una storia che... che inizia quando ero bambino. Sai, Ferri non è il mio vero cognome. Quello non lo conosco, o forse adesso non lo ricordo più. Comunque, sono stato adottato. I miei genitori, quelli veri, sono morti quando io ero piccolo. Un incendio che si è mangiato tutto il palazzo dove vivevo. Sono morti tutti gli abitanti e anche qualche persona che passava lì sotto».
Ci fu qualche secondo di silenzio, poi Oliver disse una sola frase: «Sai, il fuoco è bastardo». Sembrava un pensiero slegato dal resto del discorso. Don Andrea guardò il malato e non riuscì a capire se i suoi occhi fossero immersi in una riflessione profonda o se invece si stessero vuotando di ogni vitalità.
«Sono stato l'unico che si è salvato. I pompieri hanno scavato e hanno trovato il mio corpo dopo non so quante ore dall'inizio dell'incendio. Non ebbi neanche un'ustione, una bruciatura, almeno per quello che mi hanno raccontato anni dopo. Il bambino del miracolo, mi chiamavano.
«Non posso ricordare quell'incendio, ovviamente. Ma lo conosco, l'ho visto mille volte nella mia testa, posso replicare a memoria tutti i particolari. Non avevo mai visto le facce dei miei genitori fino a qualche anno fa, ma le avrei potute disegnare lineamento per lineamento, ruga per ruga. Ho visto mille volte il terrore sulle facce dei miei mentre le fiamme li carbonizzavano».
Il racconto di quell'uomo era così vivido. Anche don Andrea, nell'ascoltare, vide davanti a sé quello scenario. Si sentì scottare da quel fuoco, poi un brivido freddo gli percorse le spalle.
Oliver fissava il vuoto. Il suo viso ciondolava sul collo; ogni tanto, però, scattava verso l'alto, preso da chissà quale vitalità. Restò così per qualche minuto, poi riprese.
«I miei genitori adottivi non mi hanno mai fatto vedere foto dei miei veri genitori. Non so perché, forse non volevano ferirmi. E anch'io, fino a pochi anni fa, ho evitato quelle immagini. Te l'ho detto, le conoscevo già, ma speravo che quei volti fossero solo quelli che la mia mente immaginava. Avevo paura. Poi qualche anno fa mi sono fatto coraggio e ho cercato nei cassetti della mia vecchia casa delle foto dei miei veri genitori. Le ho trovate.
«Erano così come li vedevo nel mio incubo. Certo, non avevano quella smorfia terrificata sul viso, ma erano loro».
«Sei sicuro di non aver mai visto quelle foto prima di allora? Magari di sfuggita, quando eri piccolo?» lo interruppe don Andrea. Non era convintissimo, ma quella gli sembrava l'unica soluzione ragionevole al problema.
«Fanno tutti la stessa domanda» sussurrò Oliver con un sorriso amaro. «No, non le ho mai viste, ne sono sicuro. Ma anche se fosse... Conoscevo anche il viso del pompiere che mi ha salvato. Ho fatto ricerche anche su quello. Coincide».
Don Andrea era interdetto. Stentava a credere a quella storia, ma qualcosa di oscuro e pesante, ancorato alla base del suo petto, non gli permetteva di bollarla come l'ultima follia di un moribondo. «Forse...» azzardò, ma quello subito lo interruppe.
«E nel sogno c'è anche un suono. È un orologio a pendolo che batte le undici e mezza. E sai i giornali a che ora riportano l'accaduto?»
Don Andrea tacque. La risposta non era necessaria. Intanto l'acqua nel suo bicchiere era finita e approfittò di un momento in cui il malato riprendeva fiato per riempire entrambi i bicchieri.
«So che non ci credi, anch'io mi rendo conto che è assurdo. Però ascoltami, fino alla fine della storia. È importante». Il prete annuì, e intanto sentiva quel peso che gli si era attaccato al petto farsi più pesante.
«Un giorno, quando avevo sette o otto anni, ero a scuola, e vidi una fiammella comparire sulla faccia della mia maestra. Era piccola, bluastra, dai contorni malvagi. Ora non so cosa vuol dire "malvagia", ma i bambini certe cose le intuiscono. Glielo dissi, ma lei rise. E lo dissi anche ai miei genitori: risero anche loro. Però il giorno dopo la fiammella c'era ancora, e il giro dopo ancora anche. Durò per un po'. E sai qual era la cosa più strana? La fiammella cresceva. Alla fine era diventato un fuoco enorme. Potevo sentire il calore che emanava, ascoltare il suo scoppiettio.
«Poi la maestra scomparve. Doveva fare un servizio, ci dissero. Poi inventarono che si era trasferita. Al suo posto venne una supplente temporanea, ma i mesi passarono, finì l'anno scolastico e al ritorno a scuola la maestra non c'era ancora. Era morta, l'avevo letto sui manifesti funebri attaccati a qualche centinaia di metri dalla scuola».
Oliver tacque. Forse voleva studiare la reazione del prete. Don Andrea, intanto, si alzò per aprire la finestra. La stanza sembrava all'improvviso essersi fatta più stretta e gli mancava l'aria.
«A quattordici anni fu la volta di mia nonna. Non quella vera, quella adottiva. Quando la vidi la fiamma era già abbastanza grande e calda. Quella volta lo capii subito, ma non ebbi il coraggio di dirlo a nessuno. Per qualche motivo avevo intuito che non c'era più nulla da fare. Morì tre mesi dopo per un cancro rapidissimo che ora non ricordo.
«Poi a ventun anni vidi quella fiamma sul viso di mia madre. Quella volta glielo dissi: "Perché non ti fai qualche controllo? Ti vedo poco bene". Lo fece. Le trovarono le arterie ostruite. Ancora qualche mese e avrebbe avuto un infarto. L'avevo salvata, ma lei iniziò a guardarmi in modo strano. Era diffidente, mi evitava, cercava di non toccarmi. Spingeva perché me ne andassi di casa. Come se fossi un mostro. Aveva intuito qualcosa, forse aveva ricordato quella fiamma sul viso della maestra di cui le avevo parlato anni prima. Non lo so».
Don Andrea aveva la testa che strabordava domande. Innanzitutto, perché stava dando conto a quella storia? Erano tutte stronzate, era ovvio. Però lo stavano inquietando e sentiva una vena sulla fronte pulsare nervosamente. Riempì ancora il bicchiere: aveva le labbra secche.
Intanto Oliver s'era fermato. Respirava con la bocca aperta e il suo ansito era rumoroso, frenetico.
«Chiamo il dottore?» chiese il prete, allarmato.
Quello tossì un poco, poi fece di no con la testa. Ancora qualche secondo e riprese: «A un certo punto decisi di restare in casa il più possibile. Perché, sai, in giro c'era troppa gente. E molti di quelli che incrociavo sarebbero morti a breve. Vedevo le fiamme sui loro visi, e non faceva differenza che fossero vecchi o giovani, io sapevo che di lì a poco sarebbero morti. Poi magari incontravo la stessa gente qualche giorno dopo e vedevo le fiamme che erano cresciute. Non potevo intervenire, mi avrebbero preso per pazzo. E proprio per questo faceva male. Scottava.
«Poi, un anno dopo l'episodio con mia madre, mio padre morì in un incidente stradale. Ci avevo parlato pochi minuti prima che partisse per andare a lavorare e sul suo viso non avevo visto nessuna fiamma. Per questo quando me lo dissero pensai a uno scherzo. Poi credetti che quella maledizione fosse finalmente andata via, scomparsa, morta anche lei. Non era così: solo il giorno dopo rividi quella maledetta fiamma sulla faccia di un ragazzo che camminava per la strada».
«Perché? Cioè, voglio dire, come mai con tuo padre non è successo?» chiese don Andrea. E solo allora si accorse che l'inquietudine era diventata paura. Aveva bisogno di altra acqua.
«Non lo so. Ho pensato che forse... forse un incidente sfugge ai piani superiori, ecco. Non so come spiegarlo. O forse vedo queste fiamme solo quando ci sono delle malattie, ma non ne sono sicuro».
A quel punto qualcuno da fuori bussò, e don Andrea, che era tutto immerso nella follia di quel racconto, trasalì. «Chi è?» urlò senza volerlo.
Dalla porta s'affacciò la testa del medico. «Padre, non vorrei essere...»
«Manca poco. Non ci interrompa».
Quello tentennò, poi annuì e tornò a nascondersi oltre l'uscio.
Voltandosi verso Oliver, don Andrea notò la condizione in cui riversava. Il sudore gli scendeva a fiotti dai capelli e il viso s'era fatto tutto rosso, come se quell'uomo stesse spendendo le ultime energie per attaccarsi alla vita e concludere il suo racconto. «Sicuro di non volere che il dottore...»
«No, no, facciamo subito. Solo un po' d'acqua» mormorò il moribondo con voce strozzata. Il prete riempì ancora i bicchieri, Oliver bevve, poi riprese: «È stato uno strazio vivere così. Vedere la gente, sapere che la morte li avrebbe presto portati via in qualche modo. Avevo paura di me stesso, ho iniziato ad evitare gli specchi: temevo di vedere sul mio viso la stessa fiamma che incendiava le altre persone. Ho paura della morte perché non me la spiego, non so cosa c'è dopo. E se ci penso, se provo ad immaginare, vedo ancora delle fiamme, vedo il fuoco che continua a perseguitarmi. Già, le fiamme erano sul viso degli altri, ma a bruciarmi ero io.
«Poi, ieri mattina ho cominciato a sentirmi male. Non è un dolore umano, questo lo so, e non lo dico per fare il valoroso. È semplicemente un male diverso. Dev'essere per questo che il dottore non capisce cos'è. Allora mi sono guardato allo specchio. La fiamma c'era ed era già enorme».
Tacque. Don Andrea pensò di essere finalmente giunto alla fine del racconto.
Ancora il terrore che gli intorpidiva i pensieri. Una vaga nausea gli aveva preso la gola.
«Non l'ho chiamata per liberarmi, anche se averlo fatto mi fa sentire più leggero. L'ho chiamata per altro.
«Non mi chieda perché, non lo so neanch'io. Ma credo che questa... questa cosa che mi ha rovinato la vita, quando morirò, si attaccherà a qualche altra persona. È una cosa che intuisco e credo di non sbagliarmi. Dev'essere una specie di demone, che ha deciso che è arrivata l'ora di liberarsi di me e di rovinare un altro». Ricominciò a tossire, il suo viso divenne bluastro. Nella penombra, don Andrea notò le vene che sembravano troppo gonfie anche per un moribondo. Poi prese a dimenarsi sul letto.
«Il dottore... il dottore... Voglio un calmante» ebbe la forza di dire. Il prete corse fuori, il dottore si precipitò sui suoi strumenti, ma non c'era tempo. Oliver era morto.
Dopo qualche minuto, don Andrea e l'altro cappellano, don Gianni, s'avviarono verso la loro stanza. Prima però, su richiesta di don Andrea, si fermarono sul ponte di passeggiata. Il prete si poggiò sul parapetto, poi controllò l'orologio. Era passata quasi un'ora e mezza.
Il buio s'era fatto più fitto, ma le onde s'erano calmate. Nonostante ciò, il senso di nausea continuava a disturbargli la gola. Il vento ululava un lamento malinconico.
Don Andrea fissò l'abisso nero sotto di lui, immaginò una fiamma che divampava con uno scoppio. Sbatté gli occhi e quando li riaprì c'era solo il mare. Tirò un respiro di sollievo — tutto frutto della sua immaginazione —, ma la paura non era scomparsa. Un religioso come lui non avrebbe dovuto credere alle follie di un moribondo, si disse. Per un attimo si diede retta. Eppure... quella voce strozzata, ma lucida, che aveva narrato quella storia non poteva essere quella di un pazzo.
«Allora? Che ti ha detto? L'estrema unzione non dura così tanto» chiese don Gianni, ridacchiando.
«Oh, niente. I soliti deliri» si sforzò di sorridere don Andrea, mentre lottava per scacciare la convinzione che tutta quella storia fosse vera. Il buio non aiutava.
Dopo ancora qualche minuto si ritirarono nella loro stanza. Si cambiarono e si misero a letto, ma don Andrea non dormì.
La notte è terreno fertile per storie dell'assurdo. E quindi credeva di vedere quella fiammella bluastra e malvagia ovunque, intravedeva il viso di quell'uomo nelle ombre che si riflettevano nei muri, nelle pieghe che si formavano sul lenzuolo; quando, in seguito a una folata di vento, un'ombra svolazzò sulla parete, il prete credette che quel demone di cui parlava l'uomo fosse venuto ad impossessarsi della sua anima. Alla fine s'addormentò, ma il suo fu un sonno travagliato. Sognò prima un incendio, poi i volti dei suoi cari divorati da qualche fiamma immaginaria e folle.
Quando si svegliò ancora non albeggiava. Tutto sudato, don Andrea scattò verso il bagno, inciampando su un gradino ed emettendo un urlo stridulo. Si guardò allo specchio. La sua immagine era pulita, limpida, senza nessuna fiamma. La cosa lo rassicurò.
Tornando in stanza, realizzò che il suo urlo aveva svegliato il suo compagno.
«Che succede?» disse don Gianni, sbadigliando.
«No, niente, stai tranquillo. Torna a letto». Il tono di voce di don Andrea era allegro e scanzonato.
Don Gianni annuì. Stava per rimettersi a letto con un altro sbadiglio, quando la sua bocca si bloccò, aperta e a mezz'aria.
«Che c'è?» chiese don Andrea.
«La tua faccia» disse don Gianni. «Sulla tua faccia c'è una fiamma».
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Danzando nel vuoto
Short StoryRaccolta di racconti horror. Danzando nel vuoto. Lo sguardo confuso, lo stomaco che si stringe per le vertigini e le gambe svuotate dalla paura di cadere.