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"Dovresti seriamente prendere in considerazione di fare domanda in qualche college!" mia madre ha sempre avuto questo modo diretto e brusco di dire le cose e ,soprattutto, non riesce a far partire un discorso senza che sembri un rimprovero.
"non ti sembra un po' tardi per far partire questa discussione?!" rispondo, infatti, con una punta di acidità.
Sono quasi le dieci di sera, di un noiosissimo mercoledì di Novembre e, io sto scorrendo i canali in tv facendo zapping con il telecomando. Mio padre stanco per il troppo lavoro, ma anche troppo stanco per sopportare una discussione tra le uniche donne che si ritrova in casa, ci annuncia alzando il tono di un ottava: " buonanotte" e la sua voce mi arriva troppo stridula alle orecchie.
Si tira su dalla sua poltrona marrone che stona con il resto dell'arredamento, dato che mobili e divano sono verdi, e fa il giro largo del salotto con il suo solito passo pesante, penso sempre che possa inciampare, ma per fortuna non accade mai.
Da un bacio a mia madre e le sussurra qualcosa che suona come: " non la soffocare troppo, è l'unica figlia che ho" , infatti, lei prontamente gli lancia uno sguardo omicida e come se nulla fosse papà sorride divertito.
Come ogni sera, poi, si avvicina a me, mi scompiglia i capelli lunghi e io come mio solito"JOHN!" replico, ma papà non si scompone più di tanto. Con tutta la stanchezza che ha addosso si trascina su per le scale e scompare dietro il lungo corridoio, che lo porta dritto in camera sua.
Tutti dicono che sono come mia madre: capelli scuri; occhi verdi; corporatura esile; bassina, ma che nella botte piccola c'è il vino buono e di questo non mi devo preoccupare; ma che soprattutto,ho il carattere spensierato e pazzoide di mio padre.
"Cassie" mi richiama la donna seduta accanto a me.
Anche lei ha l'aria molto stanca, lo capisco dai suoi occhi, hanno un colore così chiaro, non capisco se siano più grigi che verdi. A volte mi chiedo se anche i miei occhi cambino colore in base al mio umore.
Nonostante tutto, nonostante la stanchezza e la sofferenza di mia mamma, non le do tregua.
Eh si! Qualcosina l'ho ereditata anche dalla mia cara e testarda mammina.
E di nuovo "Cassie" mi sento richiamare.
Giro lo sguardo verso la mia destra, dove è seduta, sono ancora insicura se far partire questa discussione, ma penso che lei sia più che decisa, quindi: " è il tuo ultimo anno di liceo! Mi preoccupo per te, voglio che tu prenda una buona strada! Non voglio che tu faccia la mia stessa fine: una donna stanca, disoccupata e.."
"infelice" questa volta sono stata io a parlare e non credo che mi tratterrò e, come previsto: " infelice! Insoddisfatta! Con un marito che fa il doppio del lavoro e una figlia che non si sforza nemmeno di scegliere un college. Povera Emily, che brutta vita che è costretta a condurre!"
Una mano si avvicina pericolosa al mio viso e subito un bruciore mi pervade la guancia. Il mio primo pensiero è che quella è la prima volta che qualcuno mi avesse mai schiaffeggiato, poi, subito dopo, capisco quanto faccia male moralmente anche a lei.
La distanza tra me e mia madre adesso è davvero tanta ed è stata lei a metterla, la mano che mi ha colpita è racchiusa nell'altra e la sua bocca è spalancata. Sussurra qualcosa, ma non riesco a sentirla e così mi decido a parlare: " questa è tua figlia! È come sua madre! È infelice! È insoddisfatta! Ricordi mamma?! Cassandra Jackson è caduta in depressione."
I ricordi mi inondano la mente. Le sedute dallo strizzacervelli; l'inizio del liceo; lo stress che comporta lo studio; ma soprattutto la causa del mio malessere: Victoria o meglio nota come Vicky.
Vicky è sempre stata una stronza, è più grande di me, ha concluso il liceo due anni fa (non lo stesso che frequento io), ma la sua presenza non mi è stata indifferente.
Eh si! Eccomi qui sono io, Cassandra! La ragazza che al suo primo anno di liceo ha perso ogni stima di se stessa per una bulla qualunque.
Vicky amava torturare una novellina all'anno, purtroppo, io non ho retto la situazione come le precedenti malcapitate. Cassandra Jackson è caduta in depressione.
Io, Cassandra Jackson, ho sbagliato a farmi mettere i piedi in testa da questa stronza. Tuttavia non ho mai ceduto, se non per quel fatale giorno in cui la dose di sonniferi è stata troppa perché, era troppo anche il dolore e cominciavano ad essere troppe anche le etichette.
No, state calmi! La dose era troppa, ma io non l'ho mai presa. Non sarò abbastanza forte, ma nemmeno tanto stupida.
Sono rimasta accasciata in bagno con la schiena poggiata al bordo della vasca, le mani chiuse a pugno attorno alle pillole, le gambe distese sul pavimento freddo, i capelli che mi ricadevano lunghi sul viso e le lacrime agli occhi per la frustrazione.
La mia mano non si è mai avvicinata alla mia bocca, ma quel gesto mi è valso un'altra etichetta, la più pesante.
Mia mamma, avendomi trovato in quelle condizioni, ha subito chiamato l'ambulanza, senza assicurarsi se sua figlia stesse ancora respirando, senza spostarsi di un millimetro dalla porta, senza urlare. Ha solo cliccato il tasto di chiamata dal suo cellulare.
Ovviamente non sapeva che sua figlia si fosse solo addormentata tra le lacrime e, per la prima volta in tutto l'anno, senza l'aiuto dei sonniferi.
Solo quando le sirene si fecero più vicine e il vicinato si svegliò, più per la curiosità che per la preoccupazione, io riuscì ad aprire gli occhi e mia madre ad urlare di gioia e tutti in quella scomoda cittadina iniziarono a "capire" e io divenni: Cassandra la ragazza che ha tentato il suicidio.
Continuai ad andare dallo strizzacervelli e mia madre divenne più oppressiva e più attenta a ciò che facevo, lasciò il lavoro per starmi più vicina.
A scuola quasi nessuno mi rivolgeva la parola (beh, se in modo meno evidente succede anche ora), tranne Jenna, la mia unica amica.
Il lato positivo di tutta questa faccenda è, se non altro, che Vicky venne espulsa e io ottenni un po' di pace in quelle quattro mura.
Tuttavia, New Placid divenne ancora più scomoda di quanto già non lo fosse e cominciai ad odiare questa cittadina. Le poche persone che ci abitano cominciarono a guardarmi con occhi compassionevoli o con aria di sufficienza.
Jenna mi era sempre accanto. A lei non fregava niente delle chiacchere. Lei è solare, sorridente e, come sempre da quel giorno, ride ancora per tutte e due quando io non ne ho voglia o non ci riesco.
Mia madre stava anche più tranquilla quando Jenna rimaneva a casa. E i signori Watson erano le uniche persone che accettassero che la loro figlia, nonché mia migliore amica ormai, frequentasse questa povera e instabile ragazza.
Non abbiamo molto in comune, quasi nulla in realtà. Lei ama le persone, io no; il suo colore preferito è il giallo, io lo odio preferisco il blu; adora i bambini, io mi ci trovo sempre a disagio; è bravissima a disegnare, io a stento tengo una matita tra le dita.
Le uniche cose che ci accomunano sono: cantare a squarciagola o meglio stonare le canzoni più belle e il gelato al gusto fiordilatte.
Tuttavia io e Jenna stiamo bene così e a modo nostro ci vogliamo bene.
Ormai tutti conoscono il rapporto che io e questa ragazza siamo riuscite a costruire. Ormai hanno smesso di guardarmi con quegli occhi stracolmi di pietà. Tutti quanti, ora, camminano per la loro strada senza più fare caso a me. Ormai la storia di Cassandra la ragazza che ha tentato il suicidio è superata.
È superata si, ma non per mia madre.
Non per questa donna, che dall'altro lato del divano sta piangendo. Non per lei, che a volte si sveglia durante la notte per controllare se sua figlia stia bene.
"mamma ho diciotto anni, voglio cominciare a decidere io cosa sia meglio per me". Non si muove di un millimetro, ma la vedo tremare e so che è un tremolio dovuto alla rabbia che le ribolle dentro.
"tu vuoi decidere per te stessa?! Tu vuoi scegliere cosa sia meglio per te?!" adesso sta urlando e non sopporto quando fa così. Non voglio che svegli papà. Non voglio nemmeno continuare questa discussione.
Mi alzo dal divano e vado verso la porta di casa. Prendo le converse con la fantasia a stelle e strisce,le indosso infilando accuratamente i lacci all'interno delle scarpe. Infine, afferro il giubbotto di pelle appeso all'attaccapanni e indosso anche quello facendo scivolare la zip verso l'alto per chiuderlo.
Sono gesti spontanei, ormai è questa la rutine e so che mia madre non mi seguirà.
Non ho più avuto un discorso sereno con lei da quel fatidico giorno. Tutte le nostre conversazioni si concludono così. Io esco di casa e lei rimane sul divano, addormentandosi lì.
Tuttavia questa sera qualcosa sembra cambiare, stravolgere la quotidianità.
" Cassandra!" le sento urlare. Mi affretto ad uscire allora.
Sono sul portico di casa quando la sua mano gelida mi afferra il braccio, all'altezza del gomito. Stringe. Le sue dita sono ferme e strette sulla mia pelle. Ora non trema più, ma il suo sguardo è buio.
" non puoi sempre scappare in questo modo!" la sua voce è ferma, ma sta comunque continuando ad urlare.
" sono tua madre, non puoi evitarmi per sempre! Ho bisogno di parlare con te! Non sei un libro aperto e io non sono brava a leggere al buio! Aiutami Cassie"ha continuato ad urlare, ma quest'ultima parola era quasi un sussurro, una supplica.
Prima che possa ricominciare a parlare mi libero dalla sua presa con uno strattone.
Le pronuncio quelle parole, ma non sono sicura che lei mi abbia sentita: "ho bisogno di fare luce su me stessa e, forse, allora riuscirai a comprendere ciò che cerchi di leggere da anni".
"Cassie" la sua voce ora è spezzata, ma io sto già andando via.
Uno, due, tre. Conto gli scalini che devo scendere per uscire da quella casa. Conto anche i passi che mi ci vogliono per attraversare il vialetto, per raggiungere il cancello. Conto per non pensare a mia madre. Conto per non piangere.
I miei passi sono lenti, non ho alcuna fretta di andare via perché, vorrei tornare e abbracciare mia madre e consolarla come non faccio più da tempo.
Appena raggiungo il cancello faccio scattare il chiavistello per aprirlo e dietro di me sento il rumore di una porta che si chiude. Mi volto, di solito non lo faccio, mia madre è rientrata in casa, ma la luce del salotto è ancora accesa. Dalla finestra aperta il suono della televisione mi arriva sottile e incomprensibile.
Fisso il portico, nella fretta di rincorrermi ha spostato il tappeto con la scritta "welcome", la luce fioca ancora illumina la porta di legno con il pomello un po' scheggiato.
Poi, ad una ad una, le luci si spengono: prima quella del salotto, poi quella del portico.
Rimane solo una luce flebile, quella del televisore, e con quelle poche parole che arrivano ovattate alle mie orecchie anche io mi chiudo il cancello alle spalle e continuo per la mia strada, passo dopo passo, per raggiungere il posto di ogni sera, il mio posto.
Da quando tutti hanno cominciato ad additarmi, ho cercato un luogo che fosse solo per me, dove poter pensare o anche solo per svuotare la mente e rilassare i muscoli. Ho trovato quel luogo a soli tre isolati da casa mia, saranno circa cinque minuti di cammino. Ma non appena ho scoperto quel parco giochi abbandonato è subito divenuto la mia tana, il mio rifugio, il mio posto.
"brutta discussione eh?!" mi fermo a quelle parole, freno i miei passi quasi di colpo.
Non mi sono spaventata, so anche a chi appartiene quella voce. Il suo tono è sempre così cupo e roco e si, forse, in una sera come questa potrebbe fare anche paura.
Mi volto, lo faccio in modo lento e anche un po' scocciato. Adam è seduto sul marciapiede, sta con le gambe incrociate. Un paio di jeans scuri gli fasciano le gambe e i suoi piedi coperti da un paio di converse bianche giocano con un sassolino. Tiene una sigaretta nella mano sinistra, quasi del tutto consumata. Fisso lo sguardo nel suo: "che cazzo vuoi Johnson!" sputo acida.
I suoi occhi scuri come la pece si chiudono in due fessure. Avvicina la sigaretta alla bocca e inspira per poi liberare l'ultima nuvola di fumo perché, subito dopo, lancia il mozzicone che finisce molto vicino ai miei piedi.
Come un gesto meccanico, poggio la suola sul mozzicone per spegnerlo, premendo e girando la pianta del piede. Lo facevo sempre anche da piccola, quando mio padre si dimenticava di spegnere la sigaretta terminata.
Ritorno con lo sguardo sul suo viso. Ancora gli occhi ridotti a due fessure, ma sta ridendo. Si passa la mano nei capelli e la smette di ridere, come se improvvisamente si fosse ricordato di qualcosa di spiacevole.
"brutta serata direi" dice " anche se acida lo sei sempre Jackson" aggiunge subito dopo.
Faccio un cenno con la testa, non so nemmeno io cosa dovesse significare quel gesto. Ricomincio a camminare. Non ho voglia di stare a sentire le cazzate che escono dalla bocca di Adam Johnson.
"e dai Jackson, fermati!" probabilmente si è alzato perché sento dei passi dietro di me.
"Jack.. ehm, Cassie dai! Stavo solo scherzando".
Si, abbiamo questo modo strano di chiamarci per cognome, forse perché ci sopportiamo a stento o forse perchè è l'unico modo che abbiamo per comunicare.
"allora, dove si va?" chiede, adesso stando al mio fianco.
"tu da nessuna parte! Io a sbollire e forse a cercare un po' di zucchero. Sai?! Giusto per risultare un tantino più dolce e un po' meno acida!" detto questo ci sarebbe stato bene un bell'occhiolino, ma io non lo so fare e credo che con la poca luce dei lampioni non si sarebbe nemmeno visto.
"così mi piaci! Più ottimista, ma io vengo con te. Potresti non riconoscere lo zucchero!" risponde con una risata soffocata sulle labbra.
Lo spintono con la poca forza che ho in corpo. Riesco a scostarlo di poco, è più alto di me, ma anche più possente.
"seriamente, che vuoi? Ci rivolgiamo a stento due parole e tu finisci sempre col dirmi che sono acida. Quindi perché dovresti seguirmi?"
"Jackson non pensare sempre male delle persone" dice con una tono serio, ma divertito.
"hai ragione non ci sopportiamo molto, ma nulla mi impedisce di aiutarti" continua con la stessa voce sommessa di prima.
Non rispondo, penso che potrebbe mollare la corda e tornarsene a casa.
Siamo arrivati, bisogna solo svoltare l'angolo a destra. Così mi decido a parlare: " Johnson" abbozzo con voce insicura " cosa ti fa pensare che abbia bisogno di aiuto?"
" tua madre, il modo in cui la tratti, il modo in cui litigate. Ormai succede spesso, vi sento".
"non pensavo che i muri di queste vecchie case fossero fatte di carta velina" scherzo un memento. Poi ripenso al posto in cui l'ho trovato e al fatto che avessse davvero ascoltato gran parte della discussione fra me e mia madre.
"cos'è un nuovo hobby?" mi guarda confuso, non capendo a cosa mi stessi riferendo.
"fumare fuori casa e origliare le conversazioni altrui?!" continuo e vedo che gli si illumina una lampadina.
"non stavo origliando e fumo dove mi pare!" risponde in modo alterato.
Poi continua: " mia madre non vuole che fumi dentro casa, non lo sopporta. Così la sera esco, mi siedo sul marciapiede e mi godo quei pochi minuti" lo guardo indifferente, ma poi schiude le labbra per dire altro: " è solo che poi ci siete voi. Tu e tua madre. Dovresti dare un po' di tregua a quella povera donna!" lo fulmino con lo sguardo.
Come si permette di fare certe affermazioni, non è nessuno. Non sa nulla di me. Non sa nulla della mia famiglia.
Lo lascio a qualche passo di distanza e mi dirigo verso le altalene, l'unico gioco ancora in condizioni discrete. Questo posto ormai è in condizioni discutibili.
I cavalli a dondolo non esistono più, l'unica cosa che ne rimane è la molla sulla quale poggia mezzo busto di quell'animale in legno.
C'era anche uno scivolo, una volta, era di un rosso vivo. Ora, la vernice ha lasciato posto alla ruggine.
E per quanto riguarda il pavimento è completamente irregolare, a causa delle radici degli alberi che si fanno spazio per un po' di luce e di aria.
Mi siedo sull'altalena e mi dondolo un po' lasciando le gambe penzoloni e ogni tanto facendo sfregare i piedi sul suolo di erba, ormai consumato.
Non sopporto Adam. Non so come mai continui a dargli retta. Non so come mai lui continui a darne a me.
"così è qui che vieni! Ti osservavo ogni sera! Io entravo e tu uscivi, ma non sapevo mai dove ti dirigessi. Finora".
Smetto di dondolare e sento le catene dell'altalena accanto che tintinnano quando Adam si siede su di essa.
"Com'è che questa sera eri ancora fuori?! Desideravi tanto seguirmi per sapere dove andassi?!" chiedo con un tono un po' sfacciato.
"in realtà sono uscito a fumare tardi o forse tu hai finiti di litigare troppo presto!"
Mia madre non è l'unica persona con la quale non si può parlare serenamente. Ecco uno dei motivi per cui io e Adam non ci sopportiamo e ci teniamo lontani a vicenda.
" dopo la frana non ci viene nemmeno un bambino" dico. " forse i genitori temono per l'incolumità dei loro figli" continuo con una risata amara.
"è l'unico posto della città che non è frequentato, nemmeno l'affaccio è più accessibile" con un dito indico un punto nell'oscurità e vedo Adam seguire la traiettoria, da me segnata, con lo sguardo.
"dopo la frana la piattaforma che dava sull'affaccio non è stata più ricostruita. Ci hanno costruito una staccionata in legno al suo posto e affisso un cartello con la scritta pericoloso" spiego abbassando il dito e tornando a dondolarmi.
Sento fare lo stesso da lui. È strano condividere questo posto con qualcuno.
Passa un po' prima che si decida a dire qualcosa, ma poi lo fa: " quindi vieni qui, tutte le sere?!"
Annuisco alla sua domanda e poi inaspettatamente aggiunge: " scommetto che è il tuo posto! Si, quel posto che tutti si creano per sfuggire alla realtà dei fatti. Quel posto dove puoi pensare a tutto o..." fa una pausa, con lo sguardo perso nel vuoto.
"o non pensare a nulla" concludo io.
"hai scoperto il mio posto Johnson" sussurro. "speravo che potesse rimanere solo mio, ma mi sbagliavo" dico con tono amaro, voltandomi verso di lui.
Ha lo sguardo ancora perso e in modo impercettibile continua a dondolare aiutandosi con i piedi. Le mani si fanno strette sulle catene.
" sai Cassie, se solo mi dessi il permesso potrei entrare a fare parte della tua vita" dice quelle parole con fermezza , eppure mi arrivano quasi come un sussurro.
Adam si alza dall'altalena e con passo insicuro si dirige verso il cancello, ormai inesistente, del parco giochi. Lo vedo avanzare e poi fermarsi di colpo come se stesse dimenticando qualcosa di importante.
"aiuta chi ti vuole bene. Da sola non riuscirai mai a fare luce su te stessa." Non ha bisogno di urlare per farsi sentire. Non è molto distante da me, ma a parte la sua voce, nella notte no si sente nulla.
E così, con quelle parole, si allontana lasciando solo il buio dove poco prima c'era la sua sagoma in piedi. Lasciando il vuoto sull'altalena accanto alla mia. Lasciando me da sola e con un grande dubbio a ronzarmi in testa. 


un patto di eterna amiciziaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora