Capitolo Uno [ Parte I ]

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I capelli umidi si intrecciavano sul viso di Seung Hyun

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I capelli umidi si intrecciavano sul viso di Seung Hyun. Non vedeva nulla, nemmeno i piedi che calpestavano la terra squarciata dalle pozzanghere. Il fango appesantiva le caviglie. La mano piccola e tonda si teneva stretta a quella di suo padre, che lo strattonava perché aumentasse il passo. Le dita erano viscose e la rudezza sfregava contro il palmo. La pioggia, in un torrente di lacrime, si abbatteva su di loro e sotto le palpebre erano rimasti incastrati solo cristalli d'acqua. I fulmini inondavano il cielo metallico. I tuoni divampavano nell'aria, simili ai gong che i monaci percuotevano nei monasteri. La polvere risaliva dalla terra, come fumo di un incendio spento.

Suo padre si fermò. Inclinò il busto e tossì. Teneva il dorso della mano serrato contro le labbra, ingurgitando quella malattia che lo stava uccidendo. Seung Hyun ne era certo: sarebbe morto anche lui, come sua madre. Si era spenta solo poche settimane prima e il pianto non lo aveva sollevato dal dolore che ora si era attaccato sotto ai piedi. Quando suo padre riprese a camminare, Seung Hyun, colto alla sprovvista, inciampò. Le ginocchia caddero in una pozza di fango e acqua. Nel riflesso incontrò occhi lunghi e spenti, come disegnati da fili di ragnatele. Le guance scavate erano circondate dai capelli e dalla frangia troppo lunga.

Non aveva mai amato specchiarsi. Per quanto apprezzasse studiare il mondo, non era mai riuscito ad apprezzare se stesso. Preferiva osservare, studiare le cose che capitavano, ma mai guardarsi dentro. Era un mondo oscuro, spiacevole e malinconico. Persino alla sua età ancora inconsapevole.

L'unica mano di suo padre lo aggrappò per il tessuto vecchio del jeogori [1]. Seung Hyun fissò la manica bianca, vuota, schiacciata contro il fianco. Quell'arto, suo padre, lo aveva perso in guerra. Era nato senza che lui potesse vederlo, mandato a combattere ai confini di Silla, tornato nove anni più tardi, quando lui aveva ormai messo piede nel mondo. In quei nove, interminabili anni, si era chiesto che aspetto avesse suo padre, ma non era tornato in tempo. Di lui era rimasta solo l'ombra di un soldato, un mezzo uomo, ormai incapace di vivere con dignità.

«Non possiamo farci attendere ancora, Seung Hyun» gli disse, stringendo ancora la sua mano.

Di rado lo aveva chiamato per nome. Non vi era calore sotto la sua lingua, ma un distacco maturato, insapore. Continuò a seguirlo in quel percorso cieco, trascinato in un vortice di ignoranza.

Sollevò il mento e incontrò il reticolo di fulmini che esplodeva nel cielo. Le strade erano vuote. Doveva essere l'alba, poiché nonostante le nuvole oscurassero la terra, vi erano gocce di sole ad est. Come un pupazzo privo di volontà imitò i suoi passi tirati, finché non comparvero mura solide a cingere una casa. Seung Hyun non aveva mai messo piede in edifici simili. Lui che abitava ai confini della Capitale, nella sua casa dal tetto di paglia e legno e con le mura di fanghiglia. Quella che aveva davanti era una casa con un tetto di tegole. Doveva appartenere ad una famiglia nobile.

Suo padre lo strattonò ancora e nel tamburo di fulmini che scandiva i loro passi, Seung Hyun non disse una parola. Chiuso nel suo silenzio, ubbidiente, sfilò all'interno del cortile. I servitori all'ingresso visionarono la targa d'identificazione che suo padre mostrò loro e li lasciarono entrare. Come potevano solo osare di mettere piede in un luogo simile! Per nove anni aveva vissuto nel villaggio dei pescatori, alla stregua di uno schiavo, ed ora calpestava il pavimento di proprietari dalle Vere Ossa [2].

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