LE UNGHIE DEL DIAVOLO SONO I MIEI PENNINI, IL MIO SANGUE L'INCHIOSTRO

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LE UNGHIE DEL DIAVOLO SONO I MIEI PENNINI, IL MIO SANGUE L'INCHIOSTRO

È una notte afosa di luglio. La luna non s'è ancora alzata nel cielo, languisce in lontananza dietro i palazzi e la campagna.
Fa tanto caldo ed è tanto umido che sento un velo bagnato d'acqua stendersi sopra il sudore che mi copre la pelle.
Mi rigiro nel mio letto assonnato, ma di dormire non se ne parla, non ne ho la forza né la voglia, né le intenzioni. M'addormentassi non sarei capace di svegliarmi all'orario esatto domani e sarebbe un dramma.
Non per il mondo di certo, a nessuno interessa veramente che io mi svegli all'orario esatto o meno, ma per me lo sarebbe e non me lo posso permettere.
Il cuscino mi infastidisce con le sue tentazioni.
M'alzo in piedi e rifaccio la coda ai capelli, tanto per distrarmi, tanto per fare qualcosa, tanto per rimanere sveglio.
A passi minuti, contandoli, così che qualcosa occupi la mente mentre sono in piedi, mi infilo in cucina di soppiatto; non c'è nessuno in casa ma m'aggiro dentro come se potessi svegliare famiglie e famiglie di miei parenti e madri e padri e fratelli: un pensiero assurdo.
Nella cucina le mie mani si muovono automatizzate da sole, io e loro abbiamo deciso insieme che ho bisogno di carica, che non resisterò un'intera nottata sveglio senza un surrogato, un nootropico, un qualche maledetto aiuto che mi tenga sveglio.
Così le mie dite stuprano di nuovo la macchinetta del caffè, è passata solo un'ora da quando l'ho pulita, ma a quanto pare non è servito.
Evito di pensare: sarebbe peggio, mi concentro su quel che i polpastrelli fanno. Cucchiaino alla mano lo infilo nella polvere scura e marrone, a grani fini ma non così tanto, lo tiro fuori pieno, lo misuro con gli occhi, lo sgrullo leggermente e lo rovescio nel filtro. L'operazione si ripete uguale per un po' di volte, una decina più o meno o giù di lì.
Il cucchiaino ora è come una minuscola vanga nella mia mano, spingo e spargo, appiattisco e spando. Poi ricomincio di nuovo, dieci cucchiaiate di caffè nero e giù di nuovo ad appiattire a concentrare quella che diverrà la mia salvezza, la mia ambrosia, il mio etere.
Non penso: è controproducente.
Preparo un piccolo monte di granelli al centro del filtro pieno e lo infilo nel fondo della macchinetta già riempito d'acqua fino a metà della valvola.
Sono sempre stato un inetto a preparare il caffè, tra le altre cose, ma in dieci mesi priorità ha fatto virtù.
Avvito la parte superiore a quella inferiore. Ci metto un po' a farlo bene, i solchi si sono incastrati sfalsati due volte, rovinando la mia montagna scura all'interno così attentamente creata: non sono un gran ché con le macchinette. Alla fine infilo i solchi negli spazi giusti. La macchinetta si chiude docile e senza altri problemi.
Apro il gas e accendo un fiammifero, l'ultimo, subito dopo. La fiammella blu si spande per la cucina a contendere il primato a quella fioca e gialla che brilla più in alto: la macchinetta la schiaccia, senza rimorso e io rimango ad osservarla incuriosito per un minuto o due. Ma fa caldo e stare così vicino al fuoco non è bene.
Stancamente apro la porta-finestra della cucina che porta sul balcone. Non ci ho messo così tanto come avrei voluto a prepararmi il caffè. Selene si è liberata degli edifici solo per due terzi, la sua ultima parte ancora resiste tra i piani di palazzi lontani ignari del mio occhio. Mi fa sorridere la similitudine. Una dea che esce fuori dal profano.
M'accascio sulla sedia pieghevole di legno sul mio balcone e osservo la strada. È una strada buia la notte e non vi si aggira nessuno. Non ha lampioni o luci cittadine ad illuminarla, il vento non vi tira dentro e il caldo la rende insopportabile, ma di fronte al mio palazzo è pieno di giardini privati ricavati tra gli edifici, ve ne è uno rialzato dal manto stradale, sopra un muro-terrazza alto almeno due metri. Lo trovo molto affascinante: sa di giungla metropolitana con i suoi alberi, con il cane che abbaia sempre, sebbene non adesso, con i suoi cespugli bassi e la minuscola luce di un minuscolo lampione a dargli un aspetto crepuscolare quasi di inferno o di purgatorio, mi piace guardarlo, non ne ho mai capito bene il motivo.
Attraverso la porta-finestra sento la macchinetta lamentarsi della mia assenza e chiamarmi. Si sgola come una soubrette da cabaret mal pagata e leggermente bravina. Resisto all'impulso di correre dentro. I piedi sudati mi condannerebbero ad infrangermi sul pavimento bollente. Un passo alla volta arrivo al cassetto delle stoviglie e prendo il cucchiaino più piccolo che riesco a trovare. Scoperchio la genitrice di caffeina e ne massaggio il liquido con quel bastoncino di metallo, lentamente per rialzare la posa, lentamente per innalzarne il vapore e assaporarne l'odore.
La macchinetta resiste stoica alla insistente violazione della sua intimità.
Abbasso il livello del fuoco blu portandolo al minimo. Mentre il suo partner scoppietta tetro al di sopra.
Vi sono quasi cinque tazzine lì dentro. Sono totalmente assorbito dalla voglia di berle, sorseggiarle, una dopo l'altra, una alla volta, come un avido drogato qual sono. Ma resisto, anche quello è piacere, e tempo perso da infilare un secondo dopo l'altro prima che arrivi la mattina, a rubare minuti al giorno che sembra così lontano e patetico.
Mi siedo dentro stavolta, non so che farmene della mancanza di vento e dell'afa che imperversa sul mio balcone, nonostante il giardino, nonostante la luce crepuscolare.
Riempio la prima tazzina di ceramica e me la sorbisco lenta. Fa schifo. Proprio come mi ero aspettato. So prepararlo il caffè, ma a farlo buono non ci sono mai riuscito.
La seconda va giù per l'esofago come la prima, con un misto di disgusto e di orgoglio ferito.
Mentre preparo la terza con la forza della disperazione e della rassegnazione, per quello schifo che mi ritrovo per bevanda, mi taglio un sigaro.
Lo fumerò per bruciare il tempo. Dopo il caffè, probabilmente, per allungare l'attesa.
La radio nella stanza accanto manda ancora canzoni rock che non riconosco. Si mischiano al clack del tagliasigari e delle mie dita che lo maneggiano per capire se il tabacco fruscia e scrocchia; lo tengo tra le dita e bevo, non posso far altro che questo per lasciare che il tempo passi: sorbirmi del pessimo caffè.
Quarta e quinta scendono giù fino allo stomaco assieme: l'ultima sarebbe stata così striminzita che le ho mischiate in una sola.
La caffeina mi corre per le vene, nelle sinapsi, nel cervello tra i neuroni, ma non fa gran presa, rimane lì fastidiosa a darmi un bel mal di testa ma niente di più.
Non ha quasi effetto e questo mi irrita e mi spaventa, come supererò la notte insonne così?
Voglio accendere il sigaro con un cerino: un vezzo, una inutilità, una codardia mentale. Ma di cerini non ne ho più: così sono sceso in macchina a prenderli. Li ho cercati ovunque, poi mi sono ricordato che l'ultimo lo avevo usato tre settimane prima, e nella macchina c'è solo una scatolina vuota, di fosforo consumata.
Svogliato mi incammino verso il tabacchino sempre aperto che fa angolo non poco distante da casa. Fa caldo, ma lontano al di fuori della strada e dei giardini tira una leggera brezza che dà la parvenza di una battaglia contro il caldo, la cerco col collo nudo, con le mani di tabacco piene e frementi, la cerco con gli occhi guardando le foglie degli alberi muoversi tra le immobilità notturne. A piedi non gira quasi nessuno. Hanno paura. E non a torto. A me non interessa, peso quasi cento chili, che mi venissero a disturbare: chi non ha niente da perdere è sempre un cattivo cliente. Vedo signorine scosciate, seminude bellissime che mi fanno ciao con la mano. Non mi piace la compravendita umana, l'ho sempre trovata ributtante, non per le ragazze, (o gli uomini a volte), probabilmente sono persone splendide o più facilmente disperate, ma l'idea di fare qualcosa in cambio di soldi, senza amore, senza attrazione da entrambi mi deprime, mi toglie ogni voglia. Guardo quei splendidi pezzi di carne e li sorpasso sconsolato: l'umanità non imparerà mai.
Il bar notturno è aperto, come prevedevo. Pago una scatola di cerini, un'altra di sigari, (sarà un notte lunga), un accendino (non si sa mai) e un caffè, (un altro). La tazzina è bollente, il liquido nero-marrone all'interno pure e forse è anche peggiore, in sapore, del mio: chiedo al barista di correggermelo alla sambuca e vado a pagare la differenza.
Due avventori sono davanti a me e faccio la fila: odio le file sono uno dei mali che ci affligge. Sono la perdita di tempo per eccellenza, l'emblema del non vivere, della rassegnazione. Attendo ubbidiente il mio turno e pago come se di caffè me ne stessi bevendo due.
Torno al bancone e la correzione non è stata ancora fatta. Chiedo di nuovo al barista. Lui mi guarda imbambolato, deve essere stanco per il turno notturno. Le sue sopracciglia folte si uniscono in una espressione pensosa, resa buffa dal naso butterato e grosso. Mi viene quasi da ridere. Molto lentamente prende la bottiglia di liquore e cerca d'aprirla, lo zucchero della sambuca ha saldato il tappo al vetro.
Vorrei consigliarlo su come aprirla ma ci ripenso: altro tempo rubato all'arrivo della mattina.
L'uomo sbuffa e maledice, si sforza e si lamenta. Ma il tappo rimane lì al suo posto. Molla in malo modo la bottiglia nel lavandino e ne prende una nuova. Aveva provato a declamare del maraschino, ma ho declinato: la sambuca è il liquore preferito da mio nonno, e anche prima che sparisse mi apriva il cuore correggere il caffè così, quindi per me o sambuca o niente.
Sbuffando e ingiuriando sottovoce, un po' me un po' la bottiglia, l'uomo apre quella nuova e mi versa una goccia microscopica di liquore nel caffè. Si gira, poggia le due bottiglie alle sue spalle e fa per andarsene. Ma io ho pagato un caffè corretto alla sambuca e voglio una quantità congruente di liquore dolce. Sbuffa di nuovo ma m'accontenta.
Così modificato il caffè è quasi passabile, lo sorseggio pian piano per prendere tempo.
Fuori dal bar apro la scatoletta bluastra, scelgo un fiammifero qualsiasi e lo struscio sulla striscia laterale: lo spezzo. Impreco e ne prendo un altro. Questa volta ci metto più attenzione a strusciare ma l'intera testa rossa salta via sgretolandosi. Mi innervosisco. Prendo il terzo bastoncino di legno e inizio a ringraziare la mia lungimiranza per aver comprato l'accendino, ma al secondo tentativo il terzo fiammifero s'accende senza intoppi. Una folata calda lo spegne inesorabile! Ora ricordo perché non compro cerini: li spreco sempre tutti. Prelevo il quarto, metto le mani a coppa, e accendo: fiamma rosso-gialla al primo tentativo, tra le mie mani che sembrano la culla di un neonato infilo la testa del sigaro, il mio collo si piega innaturale per assecondare il movimento. Una due, tre boccate e il sigaro s'arroventa rossiccio; con una schicchera tiro il fiammifero lontano, m'intasco la scatoletta e inizio la passeggiata di ritorno.
Per mia fortuna la luna s'è alzata finalmente.
Prendo una strada nuova per arrivare a casa, non ho voglia di vedere mercenarie del sesso: mi fanno troppa pena. Dopo la prima curva mi accorgo d'essere seguito. Infilo la seconda strada a caso che trovo e cerco di capire che succede. È un uomo che in mano ha un coltello, io in mano ho dieci euro, quando li vede si mette a ridere. "Ho solo questi amico, prendili e lasciami in pace!"
"Dammi il bracciale!".
"È latta, non vale niente...", con un polpastrello piego una delle maglie larghe color argento.
Il tizio mi crede e desiste, "Svuota le tasche...", ma in tasca ho solo quel che avevo appena comprato fortunatamente, il portafoglio è a casa, le chiavi sono alla cintola attaccate al moschettone e non le nota.
L'uomo mi guarda i sigari e capisco. Apro la scatola e gliene porgo uno, "Scusami ma dopo essere stato rapinato ne avrò bisogno più di te...", mugugna una risata, "Sei stranamente calmo", mi dice.
"Sono calmo perché tu sei calmo: io non voglio battermi e tu vuoi solo i soldi."
"Come l'accendo sto coso?", vuole fumarsi il sigaro alla maremmana, lo assecondo e gli porgo la scatola dei fiammiferi.
Anche lui impreca un cerino dopo l'altro.
Gli lancio l'accendino. Lui lo guarda volare verso le sue mani: potrei attaccarlo ora, è distratto, disattento, un diretto al volto, un destro di quelli che il mio istruttore di pugilato è tanto fiero e sarebbe a terra, e saremmo pari. Ma domani è una giornata importante, ho un colloquio importante, e quelle parole che si pronunceranno valgono di sicuro più dei dieci euro, dell'accendino e del cerino.
"Tieniti scatola e accendino, buona serata.", il tizio mugugna, ma non mi segue.
Nessuno guarda mai gli orecchini di un uomo, uno è un diamante nero, l'altra una ametista vecchia di dieci anni. Avesse voluto quelli probabilmente mi sarei battuto: l'ametista per me ha un valore che va oltre al suo prezzo, non glielo avrei mai dato, ma sono stato fortunato.
A forza piego la maglia del bracciale in posizione, il bracciale è in argento, ma quella forse perché fallata si è sempre piegata, un'ottima coincidenza. Domani lo vorrei regalare quel bracciale. Me lo hanno chiesto spesso negli anni, amiche e donne, ma l'ho sempre tenuto gelosamente, lo ho da quando sono adolescente. Se lei lo vorrà o se la conversazione non sarà tesa glielo metterò al polso...
La luna brilla e mi guarda. Aspiro il sigaro ma non ha sapore, sembra aria calda che soggiorna in bocca e poi riesce. Non mi da nessuna sensazione, stranamente. La luna canta le sue note argentine per la città assonnata e io mi perdo sulle serrande e sulle luci dei negozi chiusi. È noiosa la notte se non fosse per il silenzio che pervade tutto e ovatta l'ambiente circostante, per la penombra che rende tutto diverso. Mi piace la notte mi penetra come uno spirito straniero e mi rilassa. Fumo il sigaro velocemente ma non me ne preoccupo. So che non lo sto fumando per i suoi sapori ma solo perché sono nervoso.
Apro la porta di casa e il fresco temporaneo dell'interno mi colpisce, è quasi una panacea. La stanchezza inizia a farsi sentire in maniera perentoria, ma devo vincerla, devo resisterle, non posso soccomberle: non posso permettermelo. M'aggiro per casa come uno zombie, un sonnambulo, un mentecatto redivivo. Tocco i muri caldi per tenermi sveglio, sfioro la carta da parati ruvida e bollente e ne assaporo le pieghe che sfrusciano sulla mia pelle lasciandomi brividi lungo la spina dorsale. Accendo la radio e ascolto musica, salto da una stazione all'altra per avere qualcosa da fare, trenta secondi di Elvis, dieci di Screaming Joe, venti di Freddie... la musica è di livello, ma non mi aiuta, la sonnolenza monta in me come una marea che sembra un quadro giapponese, quasi come se la stessa "Grande onda al largo della costa di Kanagawa" si facesse viva nel mio corpo e si riflettesse negli specchi di casa ogni volta che vi puntassi dentro gli occhi cerchiati di nero. Prima mi rifugio sul balcone, poi alla finestra: prendo aria come posso, ne ho bisogno. Mi tengo sveglio per non pensarti, per non pensare a cosa ti dirò, a cosa mi dirai. A quel No che pronuncerai e che uscirà dalle tue labbra come un macigno che si staglia dalla slavina che scende dalla montagna. Non posso farci niente, che tu dica No o meno devo vederti, devo parlarti.
Delirio e sonno si mischiano alla mia notte insonne, non so come ho vagato per casa finché la Luna è calata e poi ho atteso finalmente che il sole sorgesse infame.
Tutti i colori del rosso e dell'ocra, si sono susseguiti all'orizzonte tingendo il nero della notte di bianco e blu e porpora e dannazione.
Ancora sei ore, sei lunghe interminabili ore e avrò la mia sentenza.
Eccolo Boia lo prenda pure è colpevole. Colpevole del peggiore dei mali, del più ingrato dei peccati: lo si chiama Amore, ma forse nel suo caso è il suo contrario.
Ecco cosa dirai. E io non saprò obiettare, tutta la mia parlantina, la mia retorica, la mia dialettica da filosofo, da storico, non sarà che conoscenza al vento, parole ingarbugliate in una mente, come un ente senza connessione.

La mattina è rimarchevolmente e splendidamente fredda. È meraviglioso crogiolarsi ai suoi venti dopo l'inaspettata calura notturna.
Sono un coccodrillo al contrario e invece che scaldarmi al sole mi raffreddo al vento.
E attendo.
L'ultimo mio pasto da condannato non è il sontuoso banchetto che si elargisce all'ergastolano che va sulla sedia elettrica. Sono due spremute e un tramezzino: mentre attendo la tua telefonata, mentre attendo la fatalità di una disposizione, di una indicazione, dove vederci, se vederci.

Attendo sotto il sole di mezzogiorno senza poter fumare. Non posso fumare prima di vederti: tu lo odi. Osservo la gente passeggiare: le persone scappano veloci alla calura. Un questuante spazza la piazza per pochi spiccioli. Gliene regalo anche io qualcuno per buon augurio. Monetine per un karma positivo: avrei fatto ricco il poveraccio per poterne avere una quantità bastante anche solo alla tua neutralità e io non sono un santo!

Salgo le scale fino al secondo piano, mi aprono: sei seduta di fronte a un tavolo, mi fai ciao con la mano come se questa non fosse parte del tuo corpo. Una urgenza incorporea di abbracciarti mi assale e dopo non ricordo altro...

Vago per le strade cercando casa ore dopo, in mano ho un sigaro e lo fumo, non me ne ero quasi accorto. Parlo con me stesso e ripercorro una conversazione che non è più nella mia mente è nascosta nelle pieghe delle nostre memorie come chicchi di una spiga ormai falciata. Non ho idea di quel che ti ho detto. Non ricordo le tue parole. Aleggia soltanto la consapevolezza che sebbene non vi sia stato un no, sicuramente non vi è stato un sì. È una sensazione strana ineluttabile di tristezza e disperazione.
Aggiungo un passo dopo l'altro alla distanza dal mio letto. Ho bisogno di dormire sono stanco. Persone sconosciute mi sfrecciano accanto indaffarate non so a cosa. Sembrano come prepararsi ad una domenica da sabato del villaggio. Io i miei venerdì, sabato e domenica li ho già scontati e so già d'aver perso. Ma non m'arrendo, devo solo riposare: sono mortalmente stanco.
Lasciami dormire e domani avrai un'altra poesia, la dovessi anche scrivere con le unghie del diavolo e col mio sangue.
Lasciami dormire e per cinque minuti mi leggerai e penserai solo a me.
E niente sarà stato invano.

LE UNGHIE DEL DIAVOLO SONO I MIEI PENNINI, IL MIO SANGUE L'INCHIOSTROWhere stories live. Discover now