Capitolo 46

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Maddalena

Quando tornammo in camera vedemmo Attilio piegato come un bitorzolo sul grande letto a sponde alte. Stava sopra la moglie e le toccava le gambe e i seni, e poi le piegava le ginocchia e infilava le mani sotto la vestaglia blu. Lei stava ferma e sopperiva con le braccia magre piegate ai lati della testa. Lui continuava con grande foga a spogliare prima lei e poi se stesso, e non ci notò.
Calpestando gli spartiti sparpagliati per terra, Riccardo gli fu dietro, lo prese e lo scaraventò sul pavimento. Sua madre scivolò giù dal letto come un'anguilla, mi venne vicino e si strinse a me. Attilio lamentò un dolore all'addome, e quando sollevò lo sguardo verso il figlio lo vidi molto vecchio. Aveva i capelli spioventi sul viso, quei pochi che gli rimanevano, perché non c'era più il gel a tenerli fermi, e tra una ciocca e l'altra si individuava la pelata piatta e lucida. Sembrava una brutale creatura della fantasia che aveva bevuto molto.
Per Riccardo oramai non faceva più nessuna differenza; raramente lo si vedeva sobrio, ma quando era ubriaco interferiva con il figlio, e io lo odiavo. Andava avanti da anni tutto questo, e Riccardo mi diceva che i litigi dei genitori non avevano senso, non voleva discuterne, si prendeva in giro per questo, e li imitava per resistergli. Ma io vidi molto senso in tutto, e mi spaventò.

Riccardo vide la madre al mio fianco e si tranquillizzò. Lo sentii sospirare a lungo, ma sospiravamo a fatica tutti e l'aria si era intiepidita con i nostri aliti. Fu tentato di aiutare il padre a rialzarsi, ma questi strisciò fino alle gambe del figlio. Si aggrappò ai suoi pantaloni e, in quella surreale scena di prostrazione e imploro, gli disse: <<Stai bene attento che nessuno ti stia mai più a cuore. Non amare.>>
<<Io amo.>>
<<Non farlo.>>
La camera era rischiarata solamente dall'alone ocra del tramonto che tagliava i vetri della finestra. A volte questi tremavano quando una motocicletta o un'auto viaggiavano scoppiettando a grande velocità, e tremarono anche in quel momento. La madre di Riccardo tremava accanto a me.
Si sentì un clicchettio e la fiamma di un accendino venne accesa. Attilio recuperò il suo pacchetto di sigarette. Se ne portò una alle labbra, ma non l'accese. La vampata del fuocherello si muoveva nell'aria, mentre lui guardava verso gli spartiti. Riccardo fu molto veloce: si piegò e provò ad agguantare i fogli, uno ad uno, sollevandoli rapido come si fa con le erbacce. Ne teneva due accartocciati tra le mani, e provava a spianarli sul petto, ma suo padre lo tirò per i pantaloni e lo fece scivolare a terra al suo fianco. Sentii il rovinio delle sue ginocchia colpire con forza le piastrelle.
Attilio lo afferrò per il bavero della maglietta e lo strattonò. Riccardo rimase fermo, con gli occhi strabuzzati. Era la prima volta che lo vedevo tanto immobile, eppure non mi pareva padrone delle proprie reazioni. Era una bottiglia che si stava gonfiando, ma aveva un tappo robusto e non si sturava facilmente. Fu sbalorditivo, per me, pensare poi, in un guizzo di consapevolezza, che volesse dare una misura alla propria rabbia a causa mia, perché potessi così considerarlo con più favore. Mi aveva chiesto di andarmene e di non rimanere ad assistere a quello sfacelo familiare, ma io ero rimasta e probabilmente mi considerava una pazza per quella decisione più di quanto pensasse che io potessi credere pazzo lui. Mi guardava e poi guardava sua madre e con la testa ci faceva cenno di uscire dalla stanza. Io e lei non ci muovemmo.

Suo padre si sfilò la sigaretta dalle labbra e cercò di spingerla in quelle del figlio. <<Fuma>> ringhiò. Teneva gli occhi molto aperti. <<Fuma, ti ho detto. Fuma con me. O li incendio tutti.>> Diede alcuni scrolloni all'accendino perché si ravvivasse la fiamma e con le mani che tremavano l'avvicinò alla sigaretta. Riccardo la sputò. Allora davvero diede fuoco prima ad uno spartito, poi ad un altro, e le fiamme rugghiarono e mangiarono la carta, ed essa si ritirava e scompariva, lasciando solamente una crosta bruciata che diventava nera, prima di sbriciolarsi. Il fumo che saliva verso il soffitto rendeva i contorni delle cose bagnati e imprecisi.
Attilio si sollevò sulle gambe, barcollando. Ci venne incontro e guardò la moglie con aria di belligeranza, ma Riccardo si frappose tra noi e lui. Il vecchio ubriaco gli disse che doveva smetterla di difendere le donne, perché tutte le donne sono come la Eva biblica.

<<Per chi sono quegli spartiti?>> 

<<Sono per me, papà.>> Riccardo percorse la camera. Andò verso il pianoforte spinto contro la parete in un angolo buio. Lo aprì. Iniziò a suonare solamente quando ebbe la certezza che suo padre stesse guardando lui e non noi stipate contro la porta. Suonò qualcosa che non conoscevo, un'esplosione musicale struggente, un dissidio altisonante e possente, forse anche brutto e sinistro, che fece tremare i vasi di vetro poggiati sopra il pianoforte. Mentre le sue dita erano svelte e si malleavano sui tasti, il suo viso si illuminava con il trionfo dell'azzardo, e i suoi occhi provocavano. Guardava il padre oltre una spalla. <<Sono per me, quegli spartiti>> mentì. <<Ti piace? L'ho inventata adesso. Mi ricorda te, papà.>> Immaginai che l'avesse davvero improvvisata in quel momento, perché erano suoni spigolosi e brutti, e lui aveva paura e si sentiva.
Quando il padre lo prese e lo sbatté sul pianoforte, Riccardo sogghignò. Provava dolore mentre lo scrollava più volte e la sua schiena spingeva sui tasti, ma non reagì, anche se il padre gli urlava di farlo. Forse aveva paura di spezzargli le ossa se gli avesse restituito i colpi, quindi si fece schiaffeggiare sul viso, e quando la sua tempia raggiunse uno spigolo del pianoforte iniziò a sanguinare copiosamente. Temetti che cadesse giù svenuto, perché rantolò un poco.

Raggiunsi Attilio e gli montai sulla schiena infilandogli le dita nelle ossa delle spalle. Io caddi e mi feci male, ma lui ora era lontano da Riccardo e guardava me, avvinazzato e spiritato come uno spettro. Lo vidi ghermire come una lince uno dei vasi sul pianoforte. Me lo scagliò accanto alla testa e una scheggia piccola mi colpì e mi si infilzò sulla fronte. Non potevo retrocedere, perché avevo frammenti di vetro sparsi tutt'intorno. Attilio alzò un braccio, mentre nella mano teneva minacciosamente un coccio di vetro, guardandomi. Non ero coinvolta in quella storia di ripudi e gelosie, ma la sua rabbia investì con la stessa ferocia anche me, e capii che era una di quelle furie impersonali e pericolose. Riccardo gli bloccò il polso. Nello stesso istante, sua madre gridò forte.

Non ebbi la chiara immagine di cosa succedette subito dopo, ma l'urlo riverberava ancora tra le pareti, quando Attilio cadde a terra. Aveva cercato di mantenersi in piedi aggrappandosi al pianoforte, ma scivolò contro il petto del figlio. Rimase nell'aria il suo ultimo strimpellio.

Riccardo si piegò sopra di lui respirando con affanno. Gli tastò il polso e gli guardò gli occhi. Questi erano aperti e vacui, dritti verso il soffitto. Lo spogliò e gli toccò il petto, lo auscultò posandovi un orecchio, e poi tremando ancora gli mise una mano davanti alla bocca schiusa.

<<Non respira>> concluse. <<Mamma, mamma, mamma. Mamma, papà non respira.>>

A Riccardo non fu chiaro subito, ma io capii senza ulteriori indugi che era morto di un infarto stroncante.

L'aria ora era lavata di fresco. Nessuno parlava più. Si respirava, male, perché c'era ancora il fumo degli spartiti bruciati, ma l'aria era rimessa a nuovo. Il corpo di Attilio giaceva a occhi ancora aperti sul pavimento e non li avrebbe chiusi più. Me ne accorsi perché rimanemmo lì a lungo. Gabriella chiamò un'ambulanza e guardò il marito con molta cautela. Riccardo, che era stufo e nervoso, sanguinava dalla tempia e impallidiva davanti al vecchio cereo morto, e piangeva come un agnello, stringendo il padre così come io stringevo lui. Gli baciai le spalle tante volte e lui volle cercare la mia mano. Mi sentivo il cuore battere contro la sua schiena, e pensai che avevo sprecato ogni giorno della mia vita a non capire alcune cose.
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Ebbene sì, ho ucciso un personaggio. Che ne pensate? 

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