Capitolo cinque - Molting

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La Penn Station sulla trentaquattresima era parecchio affollata quel giorno

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La Penn Station sulla trentaquattresima era parecchio affollata quel giorno. Gente diretta a lavoro andava e veniva, sempre di fretta nella più grande stazione della metro di tutta New York. Roxanne aveva percepito la stessa sensazione del mattino prima, alla Peach-Tree Station: quella di essere in un gigantesco formicaio. Si trovava circondata da enormi folle organizzate, che non si perdevano nella confusione solo grazie a delle regole non scritte. Tutti sembravano sapere esattamente dove dovessero andare, per seguire il programma della loro vita già interamente pianificata. Lei da una parte invidiava la loro sicurezza, ma, dall'altra, si era ritrovata a pensare che ci fosse una sorta di gioia anche nella malinconia dello smarrimento.

In quel momento, tre metri sotto terra, le sembrava di stare in una scatola di latta o addirittura in un bunker, con l'unica differenza che gli spazi erano enormi. Negli angoli meno affollati faceva freddo e l'umidità le si attaccava alla pelle fastidiosamente. Sentiva un rumore di gocce che cadevano a terra, seguendo sempre lo stesso ritmo, eppure non riusciva a capire da dove provenisse. Poi arrivò altra gente a percorrere le grandi gallerie di cemento e quel suono venne coperto, letteralmente inghiottito. Un po' le dispiacque: la rilassava.

Tutto quel vociare, unito allo stridere delle metro dall'altra parte dei muri spessi, le stava dando alla testa. Odiava starsene in posti del genere per troppo tempo. Aveva bisogno di concentrarsi su qualcosa.

Qualcuno doveva aver ascoltato la sua muta supplica, difatti, all'interno del frastuono, mentre avanzava, si fece largo l'eco di una voce profonda che valeva davvero la pena di essere ascoltata e che alle sue orecchie appariva come il canto di una sirena.

Si avvicinò prima lentamente, con circospezione, poi a grandi falcate raggiunse il luogo dov'erano riunite in cerchio almeno una cinquantina di persone. E, mentre l'emozione cresceva impetuosa dentro di lei, tentò di infiltrarsi in mezzo a quel muro umano. 

Dopo qualche tentativo riuscì ad arrivare in prima fila, proprio davanti a colui che stava cantando. 

L'uomo era di colore, sulla sessantina. Dei jeans larghi e consumati, una maglietta a righe bianche e blu che sembrava avere un bel po' di anni, scarpe da ginnastica bagnate di pioggia, consumate dai passi, un cappello grigio sulla testa e una voce in grado di rubare l'anima. Sembrava gli venisse direttamente dal cuore, troppo pura perché qualcuno potesse ascoltarla senza perdersi in un vortice impetuoso di emozioni impossibili da gestire.

Sulle note di Unchained Melody si stava mettendo a nudo davanti a tutti, porgendo ad ogni singolo ascoltatore il pezzo più privato della sua anima. A pochi passi da lui, un ragazzo giovane dai lunghi capelli neri lo accompagnava con la sua Epiphone Casino in una melodia lenta e malinconica, a testa china. Teneva gli occhi chiusi mentre sembrava perdersi in un mondo parallelo a cui faceva da ponte.

L'uomo camminava avanti e indietro a passi piccoli, muovendo le mani per aiutarsi ad interpretare quel racconto così semplice, ma allo stesso tempo così complesso. Stava raccontando la sua storia, forse senza nemmeno saperlo; le vicende di una vita, tutte le gioie più grandi, talmente grandi da essere state capaci di togliergli il fiato, a loro tempo, e tutti quei dolori che lo hanno segnato fino a farlo diventare chi era. Il tutto mischiato a tanta passione e voglia di celebrare la vita a modo suo.

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