La pioggia sui gessetti

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L'aviatore aprì la finestra. La primavera, timida bimba alla fine di marzo, sembrava ora essere diventata una giovane donna, appena più tiepida dell'estate in cui si stava per mutare. Maggio sbocciava delle promesse rose, che tingevano di rosa e arancio i cigli delle strade, invadendo i vasi e le aiuole che le ospitavano e protendendosi all'infuori, verso un morbido infinito. L'aria era profumata, insinuandosi nella sua casa arrivava fino a lambirgli il viso, depositando sulle sue guance fugaci baci di bambini, e tra i suoi capelli piroettava, in sempre più elaborate coreografie di ninfe danzanti, fino a convincerlo ad uscire. Fuori, il sole scaldava i ciottoli delle vie, e si rifletteva nei vetri delle finestre spalancate, agghindate di gerani. C'era gente in ogni angolo, e dappertutto l'aviatore vedeva bambini che giocavano e che si rincorrevano. E c'erano farfalle. Chissà perché, chissà come, ma quel giorno il vento era pieno di farfalle. Volteggiavano intorno alle teste dei passanti, si perdevano fra i banchi dei fiorai e quelli dei gelatai. Una dalle ali bianche e picchiettate di un verde che si allungava verso le estremità come sospinto da un pennello ormai scarico di colore, si posò sul naso dell'aviatore, come a guardarlo negli occhi. Cosa vuoi dirmi, farfalla?, chiese l'aviatore telepaticamente. Lei non rispose. Che l'avesse scambiato per un'altra persona? Dopo qualche secondo ancora, lei se ne andò, lasciandolo lì; solo, abbandonato, e privo di risposta. E così, rimasto dunque senza farfalle, decise di seguirle. E continuando a camminare per il paese ecco che notò come tutte sembrassero venire da un unico punto. Forse avevano un nido lì vicino, al pari delle vespe e delle api. Non sapeva se le farfalle facessero il nido o meno. Forse erano in migrazione o in vacanza, forse era un circo itinerante che le sfoggiava come esibizione di punta. Girò un'ultima volta a sinistra. Chissà se c'era un biglietto da pagare, o se quel primo spettacolo il circo lo offriva gratis. Nuvole variopinte si libravano al di sopra della terra pochi metri davanti a lui, e al suo passaggio si scostavano. Si chiese se non fosse un ospite atteso. C'era, in quella piccola piazza, una decina circa di persone, ma tutti mantenevano una certa distanza da lui, e da quel tornado dalla vita così effimera. Non poteva essere l'unico attirato da quei giochi di colori volanti, d'altronde. Ma si sentiva il solo a poterlo davvero ammirare. Che presuntuoso. Che presuntuoso, si disse. Si avvicinò all'epicentro, e probabilmente era solo una sua impressione, ma gli sembrava di vedere la gente arretrare mentre gli sciami di farfalle si diradavano. Sulla strada, dove prima era tutto un turbinio d'ali di carta velina, comparve una figura. Comparve un bambino. L'aviatore rimase fermo, e il bambino aveva i capelli biondi come i campi di grano. Era inginocchiato in quella posizione così teneramente infantile, con le ginocchia davanti al volto, le gambe chiare scoperte accarezzate dalla brezza. Alla sua sinistra giaceva vuota una scatola di gessetti colorati, sparsi tutt'intorno a lui. Disegnava per terra calcando con forza, consumando quei piccoli bastoncini dalle tinte vivaci o pastello. E quello che disegnava era un deserto, e un cielo di notte, e le stelle accecanti, e un minuscolo pianeta, e uno sgabello, e una rosa. Era un bambino biondo che disegnava per terra, e la folla si allontanava devotamente da lui. L'aviatore si prese qualche secondo per pensare alla sabbia di quel deserto.

«È bello» disse.

Il bambino si girò, sollevò la mano sporca che teneva poggiata aperta sul disegno, si grattò il naso, lo arricciò probabilmente infastidito dalla polvere di gesso. Si voltò di nuovo verso la sua opera d'arte.

«Grazie»

La sua voce aveva una nota traballante, malferma, vibrò per un tempo così breve prima di cadere. Che deliziosa voce da normalissimo bambino aveva, quel bambino che in realtà sembrava un principe.

«Che cos'è?»

L'aviatore si inginocchiò, poggiando una gamba per terra, come gli adulti.

Il bambino corrucciò le labbra. Stimò la sua età sugli undici anni. Non poteva averne dieci, le sue membra erano troppo snelle perché fosse coetaneo dei bimbi dalle tondeggianti e paffute carni, ma la sua algida, torrida grazia aveva ancora i contorni morbidi e indefiniti di chi non è ancora giunto ai quei dodic'anni che stanno per fiorire d'adolescenza.

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