37. Truce

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Therese e Nicholas erano ancora seduti al tavolo quando Camila rientrò in casa, le spalle abbassate e il capo chino.
Loro avevano continuato imperterriti a mangiare, e la ragazza era sul punto di salire sul primo gradino delle scale quando sua madre la chiamò.

«Camila, torna a sederti, gentilmente»

La bruna si era fermata, rimanendo immobile come una statua per più di una manciata di secondi, non totalmente certa di aver sentito correttamente.
Poi si era voltata lentamente verso la donna che, incredibilmente perfino per lei, l'aveva data alla luce, e l'aveva guardata con quanto astio e rancore avesse in corpo. Voleva che almeno un briciolo, almeno un frammento di sofferenza che stava provando in quel momento le venisse trasmesso, in una speranza folle che ciò potesse in qualche modo smuovere il suo animo gelido.

«L'hai fatta andare via» mormorò, stringendo la presa attorno al corrimano fino a far sbiancare le nocche.

«No, tesoro» rispose sua madre, facendo tintinnare la forchetta sul bordo del piatto mentre la posava su di esso.
«È stata lei ad andarsene, fra l'altro senza salutare - il che dimostra una grande educazione e maturità da parte sua»

«L'hai fatto apposta!» esclamò Camila, mentre alcune lacrime iniziavano a scenderle sulle guance. Si strofinò il viso con il dorso della mano con furia, arrabbiata anche con se stessa per essersi mostrata vulnerabile di fronte a lei.

Nicholas si alzò da tavola, confuso, e puntò gli occhi su sua moglie in uno sguardo che non ammetteva repliche. Poi tornò a rivolgersi alla figlia.
«Va tutto bene, Camila... Mi dispiace se questo pranzo non è andato come speravi... Sono sicuro che potremo organizzarne un altro e alla tua amica non dispiacerà venire» cercò di rassicurarla e, anche in mezzo a tutto quel marasma, Camila riuscì ad essergli grata per lo sforzo.
A differenza di sua madre, infatti, almeno lui provava a comprendere.

Questo perché lui non sa tutta la verità, le suggerì una voce dal profondo della mente, dove giacevano tutti i pensieri oscuri e scomodi da portare alla luce.

La ragazza annuì debolmente, sopprimendo un singhiozzo.
«Scusami, non ho più fame» sussurrò, e poi salì di corsa a chiudersi in camera propria.

-

Nei giorni dediti a "riflettere", le due ragazze spesero il loro tempo a fare solo questo.
Nella lontananza delle proprie case, trascorsero l'ultimo fine settimana di vacanze natalizie ad arrovellarsi su cosa avessero sbagliato l'una con l'altra, senza mai venire a capo di una soluzione ma accumulando rimorsi e pentimenti fino a formare un'angosciosa catasta di pensieri negativi.

Lauren era sdraiata sull'amaca appesa a due alberi del giardino sul retro, un libro aperto sull'ultima pagina che aveva letto posato col dorso rivolto al cielo sul proprio addome, ed un braccio che copriva il viso dal sole.
Quel movimento semi rotatorio la rilassava poiché, nella psicologia del suo io infantile ormai da tempo dimenticato, le produceva un remoto ricordo di sua madre che la cullava quand'era ancora in fasce.

La sua mente era uno spazio bianco, sul quale rimbombavano suoni indistinti di parole dette, ridette, o nemmeno pronunciate.
Ma fra tutte spiccava una frase.

«Io ti amo»

L'aveva detto con la voce rotta da un pianto sommesso, impaurita di ricevere una reazione indesiderata. E fu esattamente ciò che Lauren le inflisse: un rifiuto.

Quando aveva suggerito la "pausa", non aveva messo in conto niente.
Non aveva messo in conto la terribile nostalgia che la attanagliava, il bisogno fisico di stringerla a sé e coccolarla come se non ci fosse un domani, la necessità recondita di parlarle, scusarsi e chiarire per far tornare tutto come prima.

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