Capitolo 51

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Maddalena

Alle cinque stavo lavorando. La gente beveva boccali di birra, si avvicinava al bancone e spizzicava noccioline e tacos. Poi arrivavano amici di amici e anche loro chiedevano qualcosa da bere. Me ne sbrigavo senza metterci troppa cura, e capitava che versassi del Martini in un bicchiere da champagne, o che tagliassi spicchi di limone quando erano più adatte scorze d'arancia, ma nessuno mi badava, perché la gente si raccontava storie e parlottava a lungo, allungava spiccioli e girava il viso dall'altra parte. Poi quelle che nacquero come liti traboccarono verso risse, e tutti si allontanavano e guardavano gli ubriachi malcapitati.
Fausto si era trovato un nuovo compagno e ora giocava a carte con un tale che era calvo e aveva due guance pendenti che lo facevano assomigliare ad un brutto cane con il muso grinzoso.
Aspettavo Riccardo, ma non arrivò. Era trascorso qualche giorno dal funerale e non lo avevo più visto. A scuola non si presentava. Le sue assenze venivano segnate con una penna rossa, e pensavo sempre che era davvero un colore adatto. Sapevo che nei lutti, dopo le scene commoventi, c'era l'isolamento e il silenzio.
La porta si aprì ed entrò Alessandro. Era solo. Indossava una lunga giacca color cammello e aveva al collo la sciarpa rossa che conoscevo. Portava il bavero alzato. Se lo ripiegò sulle spalle.
<<Spero che cali il vento>> disse.
<<È freddo?>>
<<No, ma c'è vento.>>
Capii che quelli erano convenevoli di rinforzo, perché da qualche tempo non rimanevamo soli ed eravamo imbarazzati e dubbiosi.
<<Qui fa caldo.>>
<<Sì.>>
Si sfilò la sciarpa e se la arrotolò attorno ad un polso e poi attorno ad un altro. Aveva le punte delle scarpe sporche. Il tratto di marciapiede lì davanti era sempre fangoso. Ebbe l'accortezza di piegarsi e di pulirsele con un fazzoletto.
<<Ti dispiace sederci per parlare? Devi lavorare in questo momento?>>
Scossi la testa e lo condussi ad un tavolino nella sala adiacente. Qualcuno giocava a biliardo. Per il resto non ci avrebbero disturbato.
Quando si sedette mi guardò molto intensamente. Gli chiesi perché fosse solo. Non mi rispose, ma una sua espressione mi fece intendere che non aveva bisogno di essere sempre accompagnato.
<<Andrai ancora da Ceccarelli?>> mi domandò.
Sussultai. <<Perché me lo domandi?>>
<<Ho visto che cosa può succederti. E mi mette paura.>>
<<Ti mette paura?>>
<<Perché mi sembra che tu soffra. E hai brutte visioni. E mi ci sento catapultato dentro, come tutti gli altri.>>
<<Dovrei tornarci. Riccardo mi ha buttato gli antidepressivi. Mi serve una nuova prescrizione>> risposi. <<A mia madre serve: la fa stare meglio sapere che la mia testa è manipolata dalle medicine. Crede che sia più placida. In realtà è sempre un uragano. Una ruota della sfortuna.>>
<<Non vorresti essere orfana anche tu, a volte?>>
<<Non ci ho mai pensato perché mi hanno insegnato che è un peccato desiderarlo.>>
<<A me non interessa di tutto il resto del mondo. Non posso soffrire per chiunque e per gli sconosciuti, altrimenti non vivrei più. Quindi dico che vorrei essere orfano, ma avere mio fratello.>>
Ero impegnata ad osservare come cambiava il suo viso quando parlava e che movimenti faceva la sua bocca o come indugiava la sua lingua sul palato, lui che dosava molto bene le parole e che quando osava essere più loquace diventava come un'opera teatrale che si ascolta con deferente mutezza e che si ha sempre il timore di non capire fino in fondo. Poi pensavo anche che quella giacca così chiara e quei capelli ben pettinati un poco più lunghi del solito gli conferissero una vera presenza scenica, anche se in quel momento non mi pareva un attore, perché mi sembrava molto sincero. Per tutte queste ragioni, rimasi in silenzio e non gli risposi.
<<Credi che io sia egoista?>> mi chiese.
<<No, affatto.>>
Guardavo l'orologio appeso alla parete. Era sera.
<<Credi che arriverà Riccardo?>>
<<È tardi ormai.>>
<<Ho paura che si senta un grandissimo fallito.>>
<<Gli faremo capire che non lo è.>>
<<Tutto questo è molto triste.>>
<<Sì, lo è.>>
Alessandro si sporse verso di me con le mani aggrappate al tavolo. <<Non intendo solo la faccenda di Riccardo.>>
<<Scusami. Forse ti infastidisce che si parli sempre di lui ultimamente. Non ci penso che io e te e io e lui e tu e lui... È strano.>>
<<Ti ho già detto che non sono fatto così. Per me va bene se parli di lui. Amo lui come amo te. In un senso profondo, ma non lo dico.>>
<<A me va bene se tu non lo dici.>>
<<Invece io vorrei dirlo più spesso. Sembro freddo.>>
<<Non lo sei.>>
<<Forse lo sono.>> Sospirò.
<<Cosa intendevi dire?>>
<<È molto triste che tra poco vi dovrò salutare, e non ci godremo quest'estate, e avevo pensato che dovremmo vivere prima tutta la nostra vita, ma voglio farlo con tutti.>>
<<Riccardo non è un tipo che troverai sdraiato sul letto a piangere. Non a lungo. È forte ed io lo so.>>
<<Tu dici che è forte?>>
<<Io spero sia forte.>>
<<Ma sta affrontando un lutto.>>
<<So che cosa vuol dire>> risposi.
Lui non disse nulla per qualche momento. <<Mi dispiace.>>
<<Tu stai male?>> domandai.
<<Un po'.>>
<<Parli come se ci dimenticherai del tutto. Non parti per il fronte, Alessandro. Non voltare troppo pagina. Rischi di non sapere più che cosa scrivere se volti pagina.>>
<<Forse non sarò l'unico a farlo.>>
<<Io non volterò pagina. Io starò sempre qui. A Roma. Riccardo anche. Carla ed Emanuele faranno qualcosa di strano oppure non faranno nulla, ma rimarranno qui.>>
Alessandro distolse lo sguardo. Aveva due grandi isolotti neri insondabili negli occhi. Quando erano così scuri pensavo che non avrei mai potuto comprenderlo abbastanza.
<<Non fare affidamento su di me quando parli degli altri. Sicuramente farò qualcosa che non ti piacerà>> disse.
<<Non potresti mai non piacermi.>>
<<Non mi guarderai con gli occhi dell'amore. Mi odierai.>>
Credevo avesse altro da aggiungere, ma si alzò e mi raggiunse. Mi alzai anche io. Si avvicinò fino a far toccare i nostri petti, e il mio grembiule nero e macchiato toccò la sua giacca di maglia pregiata e mi parve un oltraggio. Mi baciò, ma fu diverso. Non perché non lo faceva da molto tempo e avevo dimenticato quella sensazione. Anzi, oltremodo mi investì il ricordo dell'umidità rosea e profumata delle sue labbra e anche la mia bocca si ricordò e fu come averlo sempre baciato e averci fatto l'amore tante volte. Fu diverso perché non mi parve un saluto. Quello sarebbe stato breve e conciso. Mi baciò invece a lungo e premette sulle mie labbra con forza e mi strinse la guancia. Mi sembrò una richiesta di perdono che non aveva in quel momento nulla a che fare con i nostri sentimenti. Davvero non capivo che cosa doveva farsi perdonare da me, da me che avevo molto da farmi perdonare da lui.
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Emanuele

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