Mi prendevo cura della mia pelle.
Sceglievo con attenzione le parole da utilizzare, le spalmavo sul corpo come una crema rinvigorente.
Ero diventato abile a capire quali mi avrebbero aiutato a non essere scoperto.
A rimanere fedele al mio personaggio.
Scivolavo nelle giornate come uno dei tanti, perfettamente integrato nei severi meccanismi della società.
Dispensavo consigli e lunghi discorsi, mentre le persone che mi erano accanto annuivano attente.
Però dovevo rimanere vigile.
Ognuna di loro, alla fine del nostro incontro, portava con sé una parola.
Sradicava le lettere che avevo incollato, lasciava una lunga striscia pallida sulla mia pelle scura.
Al calare della sera mi affrettavo a tornare a casa.
Forse era solo un'impressione, ma sentivo di essere osservato.
"Mi hanno scoperto" pensavo allora, in preda al panico.
Alzavo il passo, il viso coperto dalla visiera del cappello.
Indossavo sempre un lungo cappotto nero, che mi sfiorava le caviglie.
Le donne dicevano di apprezzare la mia aurea di mistero, ma tutto ciò che avrei voluto era potermi mostrare liberamente.
Quando mi chiudevo la porta d'ingresso alle spalle, tiravo un sospiro di sollievo.
Ero fuori pericolo.
Facevo scivolare i vestiti sul pavimento e con loro le poche parole rimaste.
Mi muovevo nudo e disinvolto tra le strette mura dell'appartamento.
Trascorrevo così la maggior parte del mio tempo libero.
Girando intorno, osservando le stanze della casa come se le stessi visitando per la prima volta.
Ogni minimo particolare era fonte di stupore.
Mi rendevo conto di ciò che il mio sguardo aveva grossolanamente ignorato, troppo preso da me stesso.
Allo scoccare della mezzanotte, l'incantesimo svaniva.
Il mondo avrebbe presto imposto di rispettare i suoi canoni.
Mi forniva un intervallo limitato, prima di rivendicare prepotentemente ciò che sentiva di sua proprietà.
"Se vuoi vivere sul mio suolo" sembrava ammonirmi "dovrai seguire le mie regole."
Era un genitore pressante, che avevo imparato a rispettare.
Sfioravo con le dita i miei arti privi di copertura.
Le frasi si formavano con naturalezza sotto al mio tocco, quasi nascessero di loro spontanea volontà.
Le avvolgevo strette attorno ai fianchi, alla base del collo, dovunque ci fosse spazio.
Pregavo che durassero più di qualche ora.
Essere colto dal silenzio, dalla necessità di essere spontanei, costituiva sempre un rischio.
Ero il tassello scheggiato di un mosaico complesso, dovevo lavorare costantemente per non rovinare la sua apparente perfezione.
Alla fine dell'operazione, mi guardavo allo specchio soddisfatto del risultato.
Non mi sarei definito un ingannatore.
Cercavo solo di sopravvivere.
"Buongiorno."
Stavo camminando per il centro della città, quando una ragazza mi rivolse un cenno di saluto.
Sentii le parole vibrare sopra le vene pulsanti.
"Salve."
Lei mi sorrideva, affabile.
Immaginai le sue unghie acuminate grattarmi sulla pelle in superficie, per poi entrare sempre più in profondità.
Le lettere erano ormai sbiadite o pendevano miseramente a mezz'aria.
Cercai di ricomporle scuotendo le braccia.
Alcune di loro volarono sul ciglio della strada.
Lei si era chinata a raccoglierle, divertita.
"Queste devono essere sue."
Me ne aveva porto una manciata, si muovevano convulse sui suoi palmi tesi.
"Ridammele subito."
Tamponai gli spazi vuoti con foga.
Qualche rivolo di sangue aveva già cominciato a fuoriuscire dalla carne rosea ed esposta.
Mi guardai intorno freneticamente.
"Dannazione."
Sapevo di essere osservato, che al minimo passo falso sarei stato escluso dalla frenesia dell'esistenza.
Sognai un capannello di gente attorniare il mio corpo grottesco.
Le palpebre spalancate, si bisbigliavano qualcosa all'orecchio.
Parole che avrei voluto catturare, imprimere nell'anima ancor prima della carne.
"Non preoccuparti." Cercava di rassicurarmi lei.
Si era chinata sul mio petto, la testa poggiata in direzione del cuore.
La allontanai bruscamente.
"Lasciami ascoltare."
Protestò avida, la curiosità che le accendeva lo sguardo.
Le strinsi i polsi, disperato.
"Promettimi di non rivelare a nessuno ciò che hai visto."
Si avvicinò piano, il suo respiro caldo mi accarezzava le guance.
"Non posso."
Mi affondò i denti nel labbro.
Le ultime, timide frasi andarono in pezzi.
Urlai.
"A me non importa."
Aveva detto, allontanandosi di un passo.
Si era passata il dorso della mano sul viso, grumi di sangue che le imperlavano la bocca.
Cominciai a correre, il terrore che mi faceva tremare le ossa.
"A me non importa."
Aveva ripetuto, agitando un braccio nella mia direzione.
Mi voltai a guardarla.
Tra le dita, sventolava l'ultima parola rimasta:
Libertà.
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LE PAROLE
Short StoryUna corazza di parole che media tra te e il mondo: una gran fortuna o il tuo peggior incubo?