Capitolo 7 - Alberto

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Alberto
13 giugno 2014

Come al solito, senza fare eccezione per l'ultimo giorno di scuola, sfidavo il tempo: erano le sette e cinquantasette ed io dovevo ancora uscire di casa, consapevole che non sarei mai arrivato puntuale per le otto. Serena era sempre in orario e sebbene le avessi chiesto di aspettare qualche minuto sotto casa mia aveva deciso arbitrariamente, con il consenso non vincolante di mia madre, che sarebbe salita per mettermi ancora più pressione. Si fermò a parlare con mia madre, anche lei pronta per andare a lavoro, e dopo sentii il rumore ovattato dei suoi passi salire le scale e avvicinarsi alla mia stanza.

"Alberto!" pronunciava il mio nome per intero soltanto quando era arrabbiata o nervosa. "Ti sto aspettando da mezz'ora, che ne dici se ti dai una mossa?" alla sua domanda risposi con una smorfia.
"...che ne dici se ti dai una mossa?" ripetei le sue parole con tono acuto e sgarbato per farla innervosire più di quanto non lo fosse già, divertito dalle sue stravaganti reazioni.

Per arrivare a scuola bastavano appena un paio di minuti: bisognava percorrere la nostra strada e dirigersi verso il 'centro'. La scuola era in piazza, come la chiesa, come la bottega, come ogni altra cosa che fosse di primaria importanza per almeno un terzo del paese. Camminavamo velocemente, come se fossimo inseguiti da qualcuno o trascinati da una forza invisibile.
"Quanto la smetterai di correre come una pazza? Hai una cattiva influenza su di me" le dissi a un passo da un attacco di cuore.
"Se non ti sbrighi ti do un calcio e ti faccio arrivare direttamente al terzo piano" rispose ridendo. Dimostrava un'affetto che sapeva trasmettere soltanto con una cattiveria fittizia, ormai la conoscevo meglio di me stesso.

Mentre giravamo l'angolo, con lo sguardo mi soffermai ad osservarla silenziosamente: cercava di darsi equilibrio con le braccia perdendolo ogni tanto quando cercava di reindirizzare la sua convergenza verso una direzione che non fossi io. Adoravo i suoi capelli rossi, forse più di quanto piacessero a lei; le cascava continuamente una ciocca ribelle sul viso e per quanto cercasse di riportarla al suo posto, questa tornava al punto di partenza. Spesso minacciava i suoi riccioli affermando di volerli tagliare tutti, ma sapevamo entrambi che non lo avrebbe mai fatto.

In fondo ci sono cose che rimangono sempre le stesse per quanto ci rendano infelici, semplicemente perché fanno parte di noi.

Il nostro sguardo si incrociò per un attimo, un attimo in cui sembrava che il tempo si fosse fermato ad osservarci. Nei suoi occhi c'erano tutte le incertezze della nostra età e le insicurezze che nascondeva a fatica sotto un velo di cattiveria. Erano di un azzurro abbagliante, sembravano riflettere il cielo o mostrare ad esso qualcosa di migliore, qualcosa che potesse far invidia. Quando riuscivo a scovare la sua naturalezza mi rendevo conto di quanto fosse stupenda, di quanta luce fosse in grado di emanare da sola; alcune volte non ascoltavo le sue parole, mi bastava lo sguardo per capirla fino in fondo, per captare quelle emozioni che non possono essere spiegate. Anche i miei occhi, neri come la pece, trovavano appiglio nei suoi come pianeti che giocano a rincorrersi l'un l'altro. Proprio in quell'attimo, poco apprezzabile per la fugacità, trovammo un equilibrio che solo noi potevamo raggiungere. Pesi della stessa bilancia. Frammenti della stessa anima.

Arrivammo davanti la scuola e passando davanti ad alcune classi capimmo di essere estremamente in ritardo. Ringraziai la preside, anche l'ultimo giorno, per averci dislocato nella classe più lontana dall'entrata; salimmo le scale a due a due, aggrappati alla ringhiera.

Eravamo appena tremila abitanti e sembrava strano che in un paese tanto piccolo ci fosse anche un liceo classico; in verità il nostro istituto comprendeva anche tre classi di scuola media oltre le nostre cinque. C'era una sola classe per anno e nessuna di queste superava i venti alunni, superando la scuola dell'obbligo eravamo ancora meno: molti si ritiravano cercando disperatamente di trovare un lavoro soddisfacente, alcuni sceglievano altre scuole e altri venivano bocciati ma continuavano gli studi costretti dai genitori fiduciosi. Io, Serena e pochi altri avevamo scelto questa scuola perché eravamo veramente intenzionati a completarla e l'università, ormai alle porte, era tutt'altro che un progetto astratto.

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