not enough

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23/settembre/2017
ukatake,

23/settembre/2017ukatake,

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Lo ammetto. La prima volta che ti vidi, tutto indaffarat con una pila di scatoloni più alta di me tra le tue mani e una sigaretta accesa quasi in bilico tra le tue labbra, pensai - anzi, sperai - di aver sbagliato persona.

Ma, ecco, non mi sono mai lasciato cadere in quella buia nube di pregiudizio in cui la gente tende a rifugiarsi in molte occasioni, e così scacciai quelle nuvole scure dall'azzurro cielo che era la mia testa. Lo feci per loro, per lo sguardo di coraggio che mi aveva trasfesso il nuovo capitano della squadra di pallavolo nel dirmi che sarei stato perfettamente in grado di trovare un degno sostituto come allenatore della squadra.

E così i era arrivato tra le mani, con diversa fatica ammetto, il numero di quell'uomo che si occupava del konbini non lontano dalla scuola.

«C-Con perm-mes-s-so!» avevo balbettato a voce alta - anzi, l'ho gridato praticamente - quando aprì con forza la porta del tuo luogo di lavoro. Ti vidi leggermente sussultare a quest'azione, sorpreso dal mio comportamento improvviso. Ma nonostante questo borbottasti un benvenuto, tornando poi ad occuparti dei tuoi propri affari.

Il tuo aspetto mi intimoriva leggermente, nel profondo delle mie ossa, ma mi ricordai ancora una volta di quei ragazzi del club di pallavolo. Allo sguardo che il ragazzo dai capelli rossi e spettinati mi aveva rivolto, illuminato di luce propria, esclamando la propria felicità all'idea di avere un coach. Ero lì per loro, per convincere il nipote di Ukai - il grande allenatore che ha portato tempo fa la Karasuno alla gloria - di allenare quei ragazzi.

E quell'aspetto, davvero, mi faceva solo venir voglia di darmela a gambe. Ti stavo giudicando così in fretta, me ne vergogno davvero molto. Eppure, quando ti parlai ancora, la tua voce non sembrava quella giusta. Era morbida, come una canzone, e non sembrava appartenere al resto di te.

«Lei è il signor Ukai?» domandai.

Lui alzò gli occhi dal giornale che teneva tra le dita, e anche un sopracciglio. «Sì, perchè?» domandò, con però estrema gentilezza. Non mi aspettavo nulla di tutto questo, anzi, ero quasi grato che non avesse usato un tono scazzato come mi ero immaginato.

Cercai di dire qualcos'altro, ma la mia lingua sembrò annodarsi a sè stessa, facendomi solo gettare un po' di saliva fuori dalla bocca, insieme a qualche parola mozzicata e confusa. Le mie guance si colorarono così tanto di rosso che avrebbero potuto pensare che le avessi colorate con dei pennarelli, e i palmi delle mie mani cominciarono a sudare. Mi azzittii, imbarazzato, e uscii dal negozio senza aggiungere altro.

La seconda volta che ti vidi eri ancora nel tuo negozio, con uno di quegli affari piumati che servono per pulire e spolverare. Tenevi un pugno sul fianco, con la schiena dritta. I capelli biondi tiranti ancora indietro dal cerchietto. Visto in quel modo, piuttosto che un uomo dall'aria poco affidabile come molti avrebbero potuto scambiarti, sembravi più una perfetta donna di casa. Sentii imbarazzo di nuovo per aver pensato qualcosa di così stupido.

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