Aprii gli occhi di colpo. Come se un improvviso rumore mi avesse svegliato.Eppure regnava una calma piatta. Nei reparti d'ospedale vige sempre un certo decoro acustico, in special modo dove risiedono i comatosi.Si dedica loro lo stesso referenziale silenzio che si riserva ai morti. In quel momento non sapevo però dove fossi. Ricordavo tutto, vi giuro. Ricordavo alla perfezione anche l'ultima cosa vista prima di aprire gli occhi. Non avevo però idea di come fossi finito in quel letto.
Cercai di alzarmi, non ci riuscii. Era come se il mio corpo si fosse dimenticato di me. Un ammutinamento anatomico che mi rese difficilissimo persino pronunciare qualche suono. Fu un rantolio, a metà tra un colpo di tosse catarroso di un novantenne e il lamento di un cane a cui si pesta la coda. Le mie intenzioni erano ben altre, ovvio. La loquela forbita era sempre stata motivo di vanto per me.Dovetti tuttavia accontentarmi di quei primitivi segnali per richiamare l'attenzione. Bastò. Due occhi sbarrati dall'incredulità entrarono nel mio campo visivo. L'infermiera mi guardava con uno sguardo che sarebbe potuto rientrare appieno nella categoria "aver appena visto un fantasma". Nel suo caso però non c'era paura. Ero a quanto pare un fantasma innocuo. Solo in seguito invece scoprii di essere un eroe.
Quello che seguì lo ricordo a costo di un terribile mal di testa, quindi taglierò corto. La processione di medici e infermieri che s'intervallarono al mio capezzale mi parve infinita. Avrei voluto dormire, ma credo che quelli avessero timore che chiusi gli occhi sarei tornato all'incoscienza, trasformando quel risveglio allaLazzaro in una breve parentesi di vana speranza. Solo dopo accertamenti, prelievi, esami e questionari mi fu permesso di incrociare lo sguardo con un volto noto. Quello di mia sorella.
Entrò che era già in lacrime. Smisero di uscire solo dopo la quarta volta che la rividi. La cosa mi irritava un po'. Lo so: la sensibilità non è mai stata un mio pregio e ho sempre mal sopportato i piagnistei altrui, però in mia difesa vorrei solo dire che i singhiozzi di mia sorella possono essere davvero fastidiosi. È come tentare di intavolare una conversazione con una radio dalla frequenza disturbata. Davvero insopportabile.
Si avvicinò a me con lentezza, quasi timore. Ogni passetto accompagnato da almeno tredici singhiozzi a distanza ravvicinata. Solo quando la salutati con la voce che, grazie a Dio, era tornata, si lanciò in un abbraccio estemporaneo che mi spezzo il poco fiato che avevo.
Nascose il volto tra la mia spalle e il collo, inondando la vestaglia a fiorellini blu che indossavo.
–Sei tornato – mormorò.
–Sono tornato – le risposi.
Mia sorella si chiamava Marinella, Mary per i frettolosi. Aveva trentaquattro anni, tre figli e una laurea in scienze e tecniche psicologiche in un cassetto. Ad ammuffire. Suona molto come un cliché, ma con tre figli piccoli non puoi concederti azzardi professionali. Lei non sembrava però dispiacersene. Era una cosa chele avevo sempre invidiato, la sicurezza. Aveva la lacrima facile, è vero, ma una cosa che non le avevo mai visto negli occhi era il rimpianto. Proseguiva a testa alta lungo qualsiasi strada la vita sembrava riservarle, lasciando dietro di sé un fiume di emotività, nel quale io in quel momento rischiavo di affogare, ma, se devo essere del tutto sincero, non le avevo mai visto versare lacrime di tristezza. Solo gioia. Era una persona positiva mia sorella. Forse fin troppo. Per i cinici come il sottoscritto tale positività è spesso scambiata per ingenuità. È chiaro come si fosse esaurita del tutto con lei. Al secondogenito, nonché il sottoscritto, di ottimismo non ne era rimasto nemmeno un goccio. Realismo, quello ne avevo in abbondanza. Quello che le persone come mia sorella spesso scambiano per pessimismo. Chissà se aveva pianto quanto ero entrato in coma. Non glie lo chiesi. Non mi sembrava il caso. Anche perché in realtà era ben altra la domanda che mi assillava. Alla quale i medici e infermieri avevano evitato di rispondere: come diavolo avevo fatto a finire in coma?
–Davvero non riesci a ricordare?– Mi chiese incredula.
Risposi con un'espressione che nessun coma avrebbe mai potuto cancellarmi: occhi spalancati, sopracciglia arcuate verso la fronte, come se volessero fuggire dal mio volto, mento in fuori, labbra serrate in un ghigno supponente. Marinella aveva imparato cosa significasse quell'espressione appena fui in grado di comunicare con il mondo esterno. Spesso sosteneva che fu quella a essere la mia vera prima parola. Difficilmente ne troverete la traduzione esatta in nessun dizionario del mondo, ma più o meno significava questo: "Mi prendi per scemo?"
Come ogni volta, mia sorella ignorò quell'affronto facciale e continuò:
– I dottori dicono che non hai riportato danni cerebrali, eppure a quanto pare hai perso la memoria. Mi hanno chiesto di aiutarli nel capire cosa ti ricordi e cosa no.
–Tutto, mi ricordo tutto. Merito dei gusti musicali della nostra defunta madre, mi chiamo Geordie. Pelagalli è invece il lascito, forse l'unico che ci lascerà, di nostro padre, al momento impegnato a intossicarsi i polmoni in qualche bettola dell'Avana. Hai tre figli, Andrea, Michele e Piero, avuti con quel laccato di tuo marito. Ho ventinove anni, un'inutile laurea triennale in scienze della comunicazione e un lavoro che non mi piace, ma ehy: chi non ce l'ha? Amo le passeggiate al tramonto, i cuccioli e desidero la pace per tutto il mondo. Ultimo, ma non ultimo: ho uno spirito dell'umorismo tutto mio.
Le labbra arricciate di mia sorella mi dimostrarono di averla convinta della mia sanità mentale, tuttavia si premurò di aggiungere:
–Tutto corretto. Tranne una cosa: non hai più ventinove anni. Ne hai fatti trenta durante il coma.
–Da quanto tempo sto in questo cazzo di letto?!
–Un mese – rispose, e stavolta le labbra erano ben stirate, senza nessuna piega.
Ammetto che dal mio risveglio avevo del tutto perso il senso del tempo, anzi a essere precisi: avevo proprio perso il tempo stesso. Mi era stato sottratto. Rubato da un ladro crudele. Questo lo sapevo per merito del coniglio. Quello bianco. Quello che non sapevo ancora era l'identità di tale ladro. Mia sorella mi spiegò quindi come ero entrato in coma. Capii perciò come avvenne il furto, ma sull'identità del ladro Marinella non poté aiutarmi.
I giornali avevano intitolato "L'eroe del San Genesio" per via del cinema che aveva fatto da scenografia alla mia impresa. Parlo del riferimento al santo, così infatti si chiamava quel triste cinema parrocchiale che invano tentava di rivalutare la propria immagine con una scaletta di pellicole d'essai. Tuttavia, il "dove" aveva un'importanza relativa, soprattutto in confronto al "cosa". Erano infatti i fatti accaduti ad avermi reso un eroe. Un eroe nel senso mediatico del termine, intendiamoci. La mia eroicità era durata giusto il tempo dell'interesse dell'audience, quindi mezza giornata al massimo. Tuttavia quello che Mary mi disse mi parve in effetti abbastanza eroico, e dunque assolutamente non da me. Avevo salvato qualcuno. Da un'aggressione. La colluttazione che ne era seguita aveva salvato chi doveva essere salvato, messo in fuga il carnefice e fatto sprofondare in un sonno durato un mese l'eroe. Il sottoscritto.Chi fossero gli altri attori della tragedia non era dato saperlo. La vittima aveva chiamato i soccorsi, dato giusto qualche frettolosa spiegazione ai volontari del 118 e poi era sparita nel nulla.Rendendo il mio sacrificio ancora più eroico? Misterioso?Appetibile? Fatto sta che spenti i riflettori, non erano giunte altre parole di lode a consolare la mia carcassa comatosa, rendendomi dunque, in realtà, la vera vittima di tutto ciò. In ogni caso alla fine mi ero svegliato. Sveglio e incazzato. Quello sì che sarebbe stato un bel titolo per descrivere il "miracolo". (Fu quest'ultima parola invece a essere abusata negli articoli che descrissero il mio risveglio). Perché che fossi sveglio era ormai certo. Che fossi incazzato ancora di più. Perché ero stato derubato. Mi ero addormentato da ventenne e risvegliato trentenne. In un'epoca in cui tutte le lancette dell'universo avevano iniziato a ruotare più velocemente, il tempo era diventata una merce da non farsi sgraffignare sotto gli occhi così facilmente. E non l'avrei fatto. Avrei trovato il ladro e mi sarei fatto restituire il maltolto. Meschino da parte sua tendere una trappola come un salvataggio. Richiedere il mio soccorso solo per derubarmi del bene più prezioso. Ero certo fosse andata così. Dopotutto, era quello il significato di ciò che avevo visto appena prima del mio risveglio. No?
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Geordie
General FictionGeordie ricorda tutto. Ogni aspetto della propria insoddisfacente vita, ogni attimo delle proprie visioni oniriche. Geordie ricorda tutta della vita prima del coma, tranne come ci è entrato.