Capitolo 2

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Capitolo 2

Rientrai in casa subito dopo essermi fatto un giro, ero un po’ triste dato che Lucy non mi aveva letteralmente notato per la millesima volta. Il problema? Ero cotto, stra-cotto di lei. Una ragazza così innocente, così diversa. Non ce n’erano molte in giro di questo genere. M’immaginavo la sua morbida (nei miei sogni era soffice al mio tatto) pelle con quel soffio di lentiggini appena appena sulle guance. Linee del viso dolci e femminili, un collo strepitoso dove poter  lasciare centinaia di baci. Puahahah, sogna Harry sogna.

Aprii la porta di casa infilando le chiavi che avevo tirato fuori dalla tasca dei miei jeans. Il casco del motorino lo avevo nell’altra mano. Anche se avevo già la patente papà non mi lasciava prendere il pickup del nonno, mi considerava alquanto “irresponsabile”, non lo capisco. Mamma mi ha raccontato che quand’aveva la mia età papà ne ha combinate di cotte e di crude, ha lasciato la scuola a diciassette anni e usciva tutte le sera frequentando club e strip. Buttava via soldi a pocker (per com’era scarso in matematica ci credo che perdeva sempre) e si portava a casa dei nonni puttane su puttane. Poi sarei io l’irresponsabile.

Appoggiai casco e chiavi sul tavolino dell’ingresso. Appesi disordinatamente il mio ghiacchino di pelle e salii lentamente le scale. Scostai i capelli, come al solito. Odiavo quando i ricci mi andavano in viso, sugli occhi.

Entrai in camera tuffandomi sul letto. Il mio era il più comodo dell’intera casa e me ne vantavo. Accesi il computer sul comodino accanto a me, anche se rimasi raggomitolato sulla coperta. Ancora pensavo a quel “ciao”, che figura di merda. Arrossivo al solo pensiero. Quant’era bella Lucy, mamma mia. Uno spettacolo di ragazza.

.il giorno dopo.

Percepii i primi raggi del sole perforarmi la pelle, di prima mattina. Stranamente il sole era potente. Si sa che per una città come quella di Londra (meglio dire per la lontana periferia) non è quasi mai bel tempo.

Feci colazione al volo con un sorso di caffè e poi saltai in sella al mio mostriciattolo di motorino. Misi il casco e andai con fuga a scuola.

“Ehi, Harry!”

Fece Jake dandomi una pacca.

Anche Sam mi salutò con un cenno e dopo poco si avvicinò di più baciandomi sulle guance. Per quanto mi aveva riferito Jake, Sam era cotta di me. Questo mi dispiaceva molto perché per quanto mi potessi sforzare non riuscivo a volerle più che un bene dell’anima. Io, Sam e Jake eravamo amici per la pelle sin dall’asilo. Tutto ciò grazie al fatto che abitavamo praticamente nello stesso quartiere. 300 passi ed ero a casa di Jake, centro-tre passi più avanti ero a quella di Sam. La nostra amicizia era fondata sulle uscite in bicicletta, solitamente percorrevamo tutto il quartiere raggiungendo il bosco più vicino. Lì facevamo spesso dei bei pic-nic con il cibo che portavamo da casa. Dopo giocavamo per un po’ a carte Sam ci stracciava sempre. Era un mito in tutti i giochi che conoscevamo, per noi non c’erano speranze di vittoria. Ma ci giocavamo lo stesso, faceva piacere ad entrambi vederla sorridere. Poi facevamo lo storico bagno nello stagno. Che esperienze, mamma mia.  

“Chi ci porti al ballo?”

Sussurrò Jake durante la lezione di trigonometria.

“Che?”

Chiesi non capendo ciò che aveva detto.

“Il ballo rincoglionito, c’è tra un paio di giorni. Vendono i biglietti in mensa.” Deglutì. “Allora, con chi ci vai?”

Rimasi un po’ scioccato, frequentando il quarto anno dovevo andarci per forza, era una cosa a cui dovevo partecipare assolutamente.

“Non mi starai mica chiedendo di andarci con te spero!”

Feci ridacchiando tra una parola e l’altra.

“Ma sei scemo!?”

“Ehi voi, finitela o vi mando in presidenza.”

Echeggiò la voce della prof di trigonometria.

Per il secondo giorno di fila mi stavano fissando di nuovo tutti.

“Scusi”

Dissi sfoggiando il più finto sorriso che potessi fare.

Sapevo con certezza che quella strega aveva un debole per i miei sorrisi, così mi salvai il culo.

Uscii dalla classe di corsa. Mi diressi in mensa per comprare un paio di biglietti per il ballo. Avevo deciso, c’avrei portato Lucy. Il problema era invitarla. Non m’avrebbe sentito neanche se avessi usato un megafono. Certi giorni leggeva anche se la banda della scuola faceva esercizio in giardino e non distoglieva lo sguardo di un minimo centimetro dal libro.

Ne acquistai un paio. Scrutai tutte le persone che s’aggiravano in torno a me trovando finalmente il volto di Lucy. Mi avvicinai cautamente cercando di attirare il meno possibile l’attenzione.

Arrivai di fronte a lei, Era seduta al suo tavolo con una delle sue amiche anoressiche, credo si chiamasse Clara o Clarissa o qualcosa del genere.

Non so con quale coraggio mi uscirono le parole di bocca.

“Ti andrebbe di venire al ballo con me?”

Ero appoggiato con le mani sul tavolo in attesa di una risposta quando uno della squadra di football (era grosso, tanto grosso) mi afferrò per la maglia sollevandomi da terra come se fossi un moscerino.

L’amica di Lucy rise mentre lei rimase impassibile, con quei suoi occhi di ghiaccio e il suo sguardo perso.

Il fustacchione mi prese a pugni il viso lasciandomi un occhio nero (piccolo dettaglio: mi scaraventò a terra); ci volle il preside per fermarlo. E indovinate chi la prese la colpa della rissa? Naturalmente io.

Mi venne privato come punizione di andare al ballo, ma tanto che me ne importava più, potevo considerare quelle botte come un “No grazie, lei viene con me”. La solita sfiga.

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