Ray Bradbury
Fahrenheit 451
(Fahrenheit 451, 1953)
Traduzione di Giorgio Monicelli
PARTE PRIMA
Il focolare e la salamandra
Era una gioia appiccare il fuoco.
Era una gioia speciale veder le cose divorate, vederle annerite, diverse.
Con la punta di rame del tubo fra le mani, con quel grosso pitone che
sputava il suo cherosene venefico sul mondo, il sangue gli martellava
contro le tempie, e le sue mani diventavano le mani di non sai che direttore
d'orchestra che suonasse tutte le sinfonie fiammeggianti, incendiarie, per
far cadere tutti i cenci e le rovine carbonizzate della storia. Col suo elmetto
simbolicamente numerato 451 sulla stolida testa, con gli occhi tutta una
fiamma arancione al pensiero di quanto stava per accadere la prossima
volta, l'uomo premette il bottone dell'accensione, e la casa sussultò in una
fiammata divorante che si dette ad arroventare il cielo vespertino, poi ad
ingiallirlo e infine ad annerirlo. Egli camminava entro una folata di
lucciole. Voleva soprattutto, come nell'antico scherzo, spingere un'altea su
un bastone entro la fornace, mentre i libri sbatacchiando le ali di piccione
morivano sulla veranda e nel giardinetto della casa, salivano in vortici
sfavillanti e svolazzavano via portati da un vento fatto nero dall'incendio.
Montag fece il sorriso crudele di tutti gli uomini bruciacchiati e respinti
dalla fiamma.
Sapeva che quando fosse ritornato alla sede degli incendiari avrebbe
potuto ammiccare a se stesso, specie di giullare negro, sporco di carbon
fossile, davanti allo specchio. Poi, all'atto di andare a dormire, si sarebbe
sentito quel sorriso di smorfia ancora artigliato nei muscoli facciali, al
buio. Non scompariva mai, quel sogghigno, non se n'era andato mai
nemmeno una volta per lontano che risalisse con la memoria.
Appese il nero elmetto color coleottero e si dette a lustrarlo; appesa poi
la giubba antipirica, con molta cura, si abbandonò lungamente alle gioie di
una doccia; poi, fischiettando, mani in tasca, attraversò il piano superiore
della casa del fuoco e cadde nel buco. All'ultimo momento, quando il
disastro sembrava inevitabile, si trasse le mani di tasca e interruppe la
caduta afferrandosi al palo dorato. Scivolò fino a un arresto stridulo, con i
talloni a due centimetri dal piancito di cemento del pianterreno.
Uscì quindi dalla casa del fuoco e si diresse per la strada notturna – era
mezzanotte – verso la ferrovia sotterranea, dove il silenzioso convoglio ad
aria compressa, scivolando come un'ombra entro il suo budello bene oleato
nelle viscere della terra, lo rigurgitò con uno sbuffo possente d'aria calda,