La vita di neve

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Meno dieci.

Era una giornata di neve; una bella giornata di neve. O, per essere più giusti nel definirla, un'orribile e pessima giornata di neve.
La bambina dai capelli dorati la guardava scendere con la bocca leggermente aperta in grandi fiocchi - i più grandi che avesse mai visto - dalla finestra non troppo pulita della sua aula, ma il suo pensiero e, a tratti, il suo sguardo, erano rivolti tutti alle rondini.
Amava le rondini.
Nei nidi così carini non c'era più nulla: gli abitanti, come loro abitudine, erano andati via, e ora il cielo nel piccolo cortile non era più oscurato dalle loro veloci, piccole ombre. Senza gli uccellini, quei nidi erano ridotti a molto poco più di palline di fango lasciate sotto le grondaie dell'edificio della palestra, attiguo a quello scolastico, senza alcuno scopo pratico.
Forse era troppo piccola, o forse era solo troppo triste per formulare un collegamento del genere: ma la sua situazione assomigliava molto alla loro. L'unica differenza consisteva nel fatto che lei non sarebbe più tornata.

Solo dieci giorni.

Papà non faceva che ripeterlo: non è poi così grave, diceva, io l'ho già fatto tante volte. E poi ti prometto, e qui alzava la voce, ti prometto che ti porterò ancora a rivedere i tuoi amici.

Ma non erano le persone che le sarebbero mancate.

Ha sospirato, e si è voltata verso la classe desolatamente vuota. Si sentiva tale anche dentro: sola; ma in fondo non le dispiaceva. Il numero di persone che avrebbe sofferto per la sua partenza, e quindi il numero di persone per lasciare le quali avrebbe sofferto si sarebbero palesate nell'interezza della loro quantità proprio in quegli ultimi dieci giorni di scuola insieme. Era felice di poter contare quelle persone sulle dita di una mano.
Le pareti bianche dell'aula la rendevano luminosa e grande nelle giornate di sole, e i disegni e le stampe appese rallegravano il loro aspetto. Il pavimento di marmo scuro era sempre ingombro di materiali caduti a tutti i bambini, con un addensamento di matite e quaderni verso il suo banco - anche la mamma le ripeteva sempre che era una pasticciona e una gran disordinata, ma lei che colpa aveva se il caso l'aveva fatta nascere in quel modo?
Ha alzato gli occhi al soffitto di polistirolo grigio-bianco, appeso a quadrati contornati di metallo e intervallati a tratti da delle luci al neon candide, messe in montature di alluminio lucido che sembravano specchietti un po' storti; poi seguendo la colonna (stranamente pulita) che si ergeva come un totem in mezzo alla classe ha riportato lo sguardo davanti a sé. Le nubi cariche di rovesci, scure e pesanti, facevano sembrare tutto più tetro: assomigliava alla notte - la notte che sentiva crescere anche dentro di sé, giorno dopo giorno e un ostacolo alla volta.
Quella vita le era piaciuta, e non riusciva a credere che dopo tante aspettative fosse già arrivata al capolinea. Lo spirito pessimo che derivava da quell'esperienza - l'esperienza del limite, della fine -, che è la cosa peggiore di tutta la faccenda, aveva già attecchito al suo animo, ma la sua giovialità prevaleva senza difficoltà, appena qualcun altro era con lei. Solo quando era sola, come allora, una tristezza quasi nociva prendeva il sopravvento, e mischiandosi a una paura dalle origini dubbie rendeva il suo viso paffuto un po' più cupo.

Aveva iniziato ad avere incubi.

Ma mischiati ai bei sogni, diventavano solo ombre; e contro il muro, dietro le altre cose belle o neutre, come vere ombre rimanevano. Solo in futuro avrebbero accumulato abbastanza forza da farsi rivalere ed oscurare tutto, ogni fonte di luce, come la nebbia che fino al giorno precedente aveva avvolto ogni cosa nascondendola: ma come avrebbe potuto saperlo? E cosa fare per vincerli? Nonostante avesse molto in comune con i chiacchieroni, non era quel tipo di persona disposta a parlare senza timore, parlare di ogni cosa, parlare con chiunque. C'erano molti argomenti che forse potrebbero essere definiti "tabù", per lei; e se una parte della sua immaginazione, quella buona, era alla conoscenza e alla portata di qualunque suo conoscente, c'erano tanti sogni, dubbi, vizi e malesseri che non voleva che nessuno sapesse. Quello spaventoso angolino di sé stessa rientrava tra quelle cose  di cui non andava affatto fiera.
Non aveva idea del fatto che anche l'uomo ha memoria limitata, e se inizia così presto ad intasarsi il cervello, resterà poco spazio per sempre.
Si è avvicinata a una sedia, si è guardata in giro e si è seduta. Se la sua amica non fosse stata assente, non sarebbe mai stata sola; ed era strano, lei non mancava praticamente mai...
Senza saperne affatto il perché, le sono venuti in mente dei versi di una canzone corta e stupida - ma bellissima, la sua preferita. L'avrebbe cantata volentieri, ma la sua voce non le piaceva (non le sarebbe mai piaciuta, mai, mai) e non voleva affatto che nessuno scoprisse come nemmeno sapesse usarla. Era stonata, per quanto si sforzasse di rimediare. Era stonata e, come per troppe altre cose, non poteva farci nulla. Ha stretto il pugno: non poteva piangere, non era il caso di piangere, perché l'unica volta che si era permessa di farlo la maestra e tutti i compagni si erano allarmati peggio che se avesse perso un braccio a causa dell'attacco di un dragone; e non desiderava davvero che qualcuno la invitasse ad aprirsi, l'ultima cosa che voleva era che qualcuno - chiunque - scoprisse chi lei era davvero, dietro l'ingombrante impulsività a cui era soggetta in presenza di altri.
Ha preso un bel respiro e si è imposta di sorridere nuovamente, prima che qualcuno vedesse che era tutta sola e triste invece che essere giù come tutti gli altri a giocare a palle di neve o quel tipo di cose.
Ha preso un bel foglio bianco, un pastello e ha provato a sfogarsi. Disegnare le piaceva, anche se si rendeva conto di non essere molto brava a farlo. Terminato in poco tempo quanto aveva in mente di fare l'ha stropicciato - era venuta una schifezza, come sempre - ed è tornata al suo posto. Ha guardato l'orologio - riuscendo a decifrarlo solo dopo un minuto buono - ed ha di nuovo sospirato. Tra poco la pausa sarebbe terminata.

Dolce fiore di rugiada,
Accompagna il mio cammino;
Scopri gli angoli di strada
Che la stella ci ha lasciato;
Gli occhi tuoi hanno il calore
Che ci porterà lontano;
Ha' il profumo della terra
Riscaldata dalla stella...

Chissà se sarebbe mancata a qualcuno. Il luogo in cui stava andando a vivere aveva un nome dal gusto esotico, sembrava un paese esageratamente lontano; eppure non appariva come nulla di nuovo, anzi suonava come un borgo medievale o poco oltre. Ripensando e ripetendo diverse volte quel nome in testa, si è ricordata che certe persone non riuscivano nemmeno a pronunciarlo, un po' come accadeva col nome straniero di suo fratello.
Bì, o... Enne, u...
Per qualche tempo si è persa nei suoi stessi pensieri, a ripetere e ripetere lo spelling di quella parola assurda perdendosi nella cacofonia e nell'impressione di caos che questa sapeva generare.
Bì, o... Tì, a...

Quando è uscita da quello stato di rimbambimento, ha di nuovo consultato l'orario; e ha considerato saggio andare in bagno, per non farsi sorprendere tutta sola in classe.
Anche là era deserto e quieto, solo che le grida dei bambini piccoli come lei o un po' di più risultavano meglio udibili. Con calma ha lavato le mani col sapone, le ha asciugate con la carta e infine è tornata a fissare i fiocchi che non accennavano ancora a voler finire di cadere: il fatto che ogni cosa fosse coperta di uno strato di bianco, come una bella passata di gomma sul pasticcio della civiltà, un alito di bianco sul foglio sporco della modernità, illuminava l'atmosfera. Non abbastanza, ovviamente, da renderla "allegra".
Era quella la sua vita. Illuminata ma non dalla fonte giusta, e mai quanto sarebbe stato necessario. Era proprio così, e sarebbe stata tale anche in futuro, e per sempre.

Prenderà i cuori affranti
Sulle ali della luce;
Scaccerà le tue miserie
Con la scia del calore;
I suoi cavalli voleranno
Nelle terre di pianura,
Dove gli alberi di canto
Sono i frutti della vita... *

Ha indugiato ancora dentro il locale toilette, in attesa.
Poi la campanella è suonata: l'intervallo era finito.

***
*Testo tratto da La Chiarastella, A. Sparagna. 

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