Riccardo
<<Non ho soldi da mandarti su. Non sto mentendo... Deve arrivarmi la pensione di tuo padre... E poi dobbiamo pensare a come vivere noi... Mi avevi detto che avevi un lavoro... Sì, scusami se l'ho nominato, ma come posso... Ti ho detto che ho le tasche vuote. Faccio le pulizie e basta, non prendo molto... Fattelo dire da Richi, dài, te lo passo... Ma perché non gli vuoi parlare? Ora te lo passo, così te lo dice anche lui.>> A nulla era servito il mio scuotere energicamente la testa, ché me la passò davvero.
Mia madre aveva uno di quei vecchissimi cellulari della Nokia pesanti come un sasso e lunghi quanto una barretta di cioccolato quando ancora è barretta di cioccolato. I frutti delle nuove tecnologie non li sapeva usare e si rifiutava di essere una delle antesignane poco più che quarantenni che decidono di sguazzare nell'universo evoluto della generazione dei loro figli.
Mi portai il Nokia all'orecchio.
<<Chiami sempre e solo per i soldi>> dissi.
Linda stava fumando, perché la sentii tossire di quella tipica tosse piena di catarro e di respiro mancante che viene su proprio dai polmoni. <Non lavoro come dovrei.>>
<<Non voglio chiederti cosa fai.>>
<<Sono fatti miei.>>
<<Mamma ha ragione. Non possiamo mandarti su neppure una lira.>>
<<E io come faccio a continuare? Se non pago l'affitto qui mi sbattono fuori.>>
<<Torna a casa da noi.>>
<<No. A fare la serva a te e a sentirti comandare e prendere il posto di papà! Saresti autoritario.>>
Intanto vedevo mia madre che fingeva, docile, di guardare la televisione e la sua soap opera brasiliana o spagnola, con la sedia a pochi centimetri dallo schermo e gli occhi strabuzzati, ma aveva le orecchie ben tese verso di me. Io mi stavo arrabbiando molto, quindi puntai un dito su un tasto del telecomando e spensi la scatoletta nera.
<<Ma tu sogni! Torna qui a Roma. Cosa ci stai a fare al Nord? Io sono certo che non mi muoverei mai di qui, neppure per lavoro.>>
<<Aspetta a dirlo.>>
<<No, non andrei da nessuna parte.>>
<<Sì, invece. Lo faresti.>>
<<È arrivata l'autopsia di papà. È stato un infarto. Gli si è rotto qualche cazzabbubbolo nel pacemaker.>>
<<Come ha fatto ad avere un infarto se aveva il pacemaker?>> Linda diede un'ultima boccata di fumo ed espirò.
<<Ascolta, io non ci capisco una sega di medicina, ma tutti avremmo il pacemaker se prevenisse gli infarti. Potrei morire anche io di infarto domani>> dissi.
<<Magari.>>
<<Non l'ho ucciso io.>>
<<Non discolparti. Non voglio più sentirti. Me li mandi i soldi? Puoi lavorare. Sei grande e grosso e sei un fannullone, ma le mani le hai.>>
<<Tu usi tutto il corpo per certo.>>
<<Vai all'Inferno.>>
<<Meglio regnare all'inferno che servire in paradiso.>>
<<Eh?>>
<<Non lo so. Lo diceva qualcuno di famoso. Non ricordo chi. Sistemo le auto che mi mandano all'officina. Vedo cosa raccimolo. Poi ti mando su tutto.>>
<<L'officina? Quella era di papà e solo papà avrebbe saputo lavorarci bene! Tu cosa sai fare? Trovati un lavoro bell'e buono. L'officina di papà... tzè!>>
<<Allora vai a fanculo.>> E ce la mandai davvero. Lanciai con forza e con irritazione il Nokia sul tavolo, tanto ero certo sarebbe rimasto intatto. Mia madre si spaventò e sussultò e mi guardò con due occhi che parevano due biglie trasparenti e liquide, e pensai fosse sull'orlo di un pianto. Si portò le mani al viso e si tirò con le dita la frangia bionda.
<<Non voglio che litighiate. Siete i miei figli. Era così bello crescervi insieme! Ti voleva fare le trecce quando eri piccolo... Tu le dicevi che non avresti mai avuto i capelli lunghi, perché erano da donna.>> Si tamponò la rima inferiore degli occhi con i polpastrelli e tirò su con il naso. Mi guardò. <<Se ti vedesse adesso, invece. Dovresti tagliarteli.>>
<<Hai ragione.>>
<<Come eravate belli! Credevo vi sareste protetti... Come avrei voluto anche io un fratello o una sorella! Invece voi... vi odiate...>>
<<Non ci odiamo.>>
<<Lei odia te. Odia noi.>>
<<Ma a me non interessa.>>
<<Farete pace?>>
<<Non abbiamo più dieci anni, mamma.>>
Le dissi che sarei uscito e andato dal barbiere a farmi tagliare i capelli. In realtà, quando fossi tornato, sarebbe stata troppo stanca per notare le orecchie ancora coperte e il collo spolverato di capelli che crescevano un po' qui e un po' là. Avrebbe trascorso la serata a fumare e a bere del vino fuori il balcone e a guardare la notte spenta nella nostra via e a lamentarsi di come l'indomani mattina si sarebbe dovuta svegliare presto per un lavoro che non soddisfaceva la fame che tutti avevano di qualcosa, e in quel grande trasporto emotivo non mi avrebbe badato.
Non volevo che sapesse che mi ero arreso e che anche io, come lei, avevo deciso di fare contento qualcuno e pian piano fare contenti tutti, dato che era più facile che giustificare perché sarebbe stato più comodo farsi i fatti propri e lasciare tutti gli altri a rimediare agli errori della propria vita. Ero stanco ed ero solo e la nostra famiglia era sola, e questa frase suonava così male alle mie orecchie, perché come può un sostantivo collettivo indicare un tale senso di solitudine? Non potevamo avere anche i sensi di colpa. Allora saremmo stati non solo soli, ma anche dannati.
Quando arrivai dabbasso pensai che c'erano ancora molti spazi vuoti sulla saracinesca da riempire con le etichette degli alcolici.
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Maddalena
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I cinque nomi di Roma
Narrativa generaleLa storia tratteggia le vite di cinque amici che vivono a Roma, un sottofondo pulsante e onnipresente, che annebbia agli occhi altrui le personalità di Maddalena, adolescente sensitiva dotata di poteri di chiaroveggenza, innamorata del bell'Alessand...