Sangue Ferrigno

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Brucia il volto, spighe e scomodi arbusti graffiano senza chiedere alcun permesso. Il vento ulula, terge le orecchie e intona un canto dal gusto di malinconia. L'odore nauseabondo dell'acqua stagnante intima di storcere il naso screpolato.
Quanto tempo impiega una nascita? Ho l'impressione che esso non differisca troppo dalla morte. Quando tutto tace, succede qualcosa che cambierà l'universo in modo irrimediabile. Quasi nessuno percepisce tale fenomeno, in pochi prestano attenzione a ciò che scuote le canne sottili di una palude. Il gorgoglio dell'acqua, rigurgito di esistenza. Il dubbio di affrontare la nascita, oppure la stessa morte. Non posso azzardare una o l'altra risposta, la memoria mi inganna. Ma se il bagliore di un solo ricordo mi acceca forse è la morte, quella che saluto, perché una nascita non può tornare.
Una patina sul volto che lentamente si asciuga, le labbra turbate da mille taglietti che sanno di terriccio e frammenti di passato. Il collo pesante, gli arti che gravano sul torace nudo, immerso nel calore di un'acqua preservatrice della mite temperatura dell'organismo. L'afa spinge i polmoni a strillare, un'improvvisa necessità di ossigeno stuzzica il corpo e gli occhi presto si spalancano. L'ombra di giovani arbusti mi salva da uno stato di disidratazione, ma una mano cerca i raggi del sole che si tuffano nell'acqua, priva di fondo. Un dolore intercostale attraversa il tronco posato su un lato, sopra al fusto piegato dei ramoscelli acquatici. Muovo le gambe e le ginocchia scricchiolano, provo a reggermi sui gomiti e i capelli si oppongono alla vista troppo luminosa. La consapevolezza improvvisa di miliardi di gocce che corrono dentro le vene.
-R... Ra...
Un nome che strilla per chiamare la luce. Non lo ricordo, seppur io mi impegni. Quante volte devo averlo ripetuto, in passato. Esso rincorre una consapevolezza in fuga, prega per un addio.
Qual è il colore del mio sangue? Questa è la domanda che mi terrorizza, mentre mi desto sul terriccio della palude. Luogo sconosciuto, tanto soleggiato quanto temuto. La pelle reclama raggrinzita. Una moltitudine di pieghe scomode emergono sull'epidermide, quando esso rimane immerso nell'acqua per troppo tempo. Bizzarro come il corpo sia insofferente a tale sensazione. Nel liquido è nato, ma potrebbe morirci.
Spalancati gli occhi sul mondo sconosciuto che ammiro, mi metto in ginocchio e scopro la pelle nuda, scossa da brividi che rizzano i peli in superficie. Il fango mi accarezza, non infastidisce. Provo un senso di freddo che spinge la mia sete di sopravvivenza a coprirmi di terriccio umido, per quanto io riesca. Osservo la pelle raggrinzita e la gracilità dei miei arti. Un buco si espande nello stomaco e inghiottisce tutto quello che trova.
-R... Rya...
Fitta maledetta, perché ti accanisci sul cervello? C'è un motivo apparente, a giustificare la presenza imprecisa di un nuovo nome che emerge, da qualche parte, nell'immensità della psiche? Provo a ricordare, ma è più forte di me. La vista trema, il capo duole. Il calore del clima tropicale, in contrasto con il vento freddo, suggerisce uno smarrimento primitivo.
Non conosco il mio nome, né la provenienza. Pian piano mi accorgo che dispongo di viscere, quasi le percepisco muoversi dentro le ossa. Abbasso lo sguardo e noto genitali femminili: un debole indizio. La sete suggerisce di assaggiare l'acqua stagnante ed è quello che faccio: grandi sorsate deglutite in fretta e furia. Provo a sporgermi verso le rive della palude e fisso i piedi sul terreno, ma essi sprofondano ripetutamente. Sabbie mobili, me ne accorgo troppo tardi. Aggrappo gli arbusti legnosi del canneto, ne strappo le foglie affusolate e secche per trarmi in salvo e grido, come posso, pur sapendo che il mio lamento non assicurerà nulla. Non riconosco la voce che raschia la mia gola, per diverso tempo deve essere rimasta intrappolata da qualche parte, sul fondo del diaframma.
Mi affanno per riuscire a estrarre una caviglia dal terreno, affondo le unghie troppo lunghe nel muschio, distante all'incirca un metro dalla sabbia. Ho trovato un punto stabile, stringo i denti e lo sfrutto al meglio per riuscire a liberarmi dall'infame trappola naturale.
Esausta e priva di energie, mi stendo sul tappeto verde e umidiccio, lascio che esso accolga lo scarso accenno di ciò che rimane dei miei muscoli. Percepisco una massa di capelli imbrattati di fango posarsi sul viso.
Una scena mi acceca all'improvviso, come se appartenesse a un'altra realtà. Visioni, risate, capelli scuri agitati e piccole mani che si liberano nell'aria. Una sensazione piacevole, come se riguardasse un tempo trascorso in serenità.
Ero qualcuno, ma non qui. Sono stata qualcosa, ma non in questo tempo. Non riconosco la direzione del vento, né la provenienza della luce solare, come se questo posto non mi appartenesse. Una distesa priva di posizione e tempo, persino di speranze di fuga.
Mi abbandono a tale consapevolezza, ormai rassegnata. Non ricordo come sono giunta fin qui, né ho una vaga idea di come me ne andrò. Andare dove, esattamente? Da cosa fuggo e dove sono diretta? Per quanto ricordo, potrei morire in un luogo che non riconosco. O forse è proprio in questo posto primitivo che è avvenuta la mia nascita?

****

Riapro gli occhi e non so quanto sia trascorso. Forse il tempo rimane un vago ricordo che non esiste più, forse non c'è mai stato. Il fango è ormai secco sulla pelle, il freddo intrappola i muscoli. La luce si è affievolita; le sfumature calde del cielo che ricordo, ora sembrano diluite in colori freddi e violacei, divoratori dell'arancione diurno. Eppure non ricordo nulla di simile, in una vita trascorsa. Tali colori, quando il buio inghiottiva l'orizzonte, non sono mai esistiti.
Provo a reggermi sugli arti e d'improvviso mi sento in grado di farlo. Come se il corpo si sentisse rigenerato, mai più oppresso da una temperatura esageratamente elevata. Scorgo arbusti, più in là del tappeto di muschio, spighe e canne talmente alte da soffocare lo sguardo. Non so se tutto, in questo luogo, sia caratterizzato da tale vegetazione o qualcosa si impadronisca dell'immensa palude, prima o poi. Non so se i miei sensi si siano sensibilizzati al punto da consentirmi una fuga.
Muovo qualche passo, fino a prendere confidenza con le dimensioni del mio corpo. Svelta, infreddolita, comincio a dirigermi verso una direzione imprecisa, affronto gli arbusti che suggeriscono all'inconscio la presenza di terraferma. Provo freddo, terrore, comincio a vederci sempre meno e il fiato affanna i polmoni, fino metterli a dura prova. Sento l'improvvisa necessità di correre: attraverso l'acqua sporca, tra le canne, sul muschio, fino a giungere all'erba spinosa che graffia i piedi. Non mi sento al sicuro, l'ululare del vento e il frusciare delle canne suggeriscono la presenza di predatori.
Mi hanno parlato di questo posto, pian piano qualcosa emerge.
Il buio, terrore occulto, tenebra di giorni trascorsi a tremare. La visione di un luogo che la mente tenta di ricordare, fatto di bizzarri trabiccoli e umani, strade costruite artificialmente e non incaricate alla natura. Di paludi nemmeno l'ombra. Vegetazione, sì, ma alberi ai lati delle strade e spazi fatti di erba e fiori. Abitazioni, non canne e muschio. Vere e proprie costruzioni, realizzate per ospitare. Calore, tranquillità, contatto. Tutto svanito nel corso di un istante, un minuto, un'ora oppure un giorno.
Non so per quanto tempo io abbia camminato, instabile e poco costante sui miei arti. La fatica emerge e sento di avvicinarmi a qualcosa. Potrebbe trattarsi di un'impressione, una sensazione dettata dal caos di questo luogo. La confusione mi assale e mi inginocchio sulla terra umida. La sponda di un ruscello che pare stanco di correre nel proprio letto. La penombra lo spinge a scintillare sulla superficie, come un filo che, incessante, scivola all'infinito. Mi sporgo e colgo un contorno a delineare ciò che sono. Il residuo di luce gioca con gli sprazzi scuri dell'acqua e mi specchio in quel debole riflesso, intento a raccontare le forme del mio corpo. Una figura magra, sporca, dai grandi occhi neri e terrorizzati. Ossa che premono contro petto e nervi,  venature spingono sul collo per uscire. Graffi sul volto, sangue secco che pare grigiastro. Una vista terribile, scuote l'intestino. Non sono mai stata così e ne sono certa.
Poi, nel silenzio di un istante, un rumore scomposto mi scombussola. La paura più profonda stringe la bocca dello stomaco e volto la testa di scatto. Percepisco una presenza, ma non la scorgo nell'erba della radura che mi corconda. Il vento mi avverte, grida e intima una corsa sfrenata. Ciò potrebbe indurmi all'ambita salvezza, almeno per il momento. Balzo, come un animale che non può fare altro che scappare. Stringo i pugni e porto il mio scarso peso in avanti, per accelerare il moto del corpo. I denti appiccicosi che cozzano, le grida di terrore che quasi stento a riconosco come mie.
Eccolo, il ricordo che cercavo: d'improvviso avverto una voce che mi parla, o forse parlò. Narra di radure, paludi, zone mai scoperte dall'uomo. Dimensioni eccessivamente lontane, creature troppo distanti per raggiungere l'umanità. Periodi di luce, alternati a tenebre e terrore. Due soli nei periodi critici, tempeste e tuoni che distruggono ciò che incontrano. Il costante rischio del predatore, il freddo che attacca quando meno ce lo si aspetta.
Eccolo, quel lampo che scuote la terra. Lo guardo ed esso si fa strada nella tenebra violacea che d'improvviso inghiottisce il cielo. Tanta luce e altrettanto calore non sembrano essere mai esistiti. Il freddo pungente graffia gli arti, quasi mi strappa i capelli.

****

Nessun umano sopravviverebbe troppo, in questo mondo. Ecco quello che mi dissero in un passato remoto. Soltanto chi proviene da un luogo tale può fare ritorno e sperare di non essersi rammollito abbastanza da perire, come una bestia spacciata. Qui sono nata, ecco la conclusione. Faccio ritorno perché la natura l'ha voluto, come un ordine superiore al quale non posso disubbidire.
Inciampo nella radice di un arbusto, mi ferisco la caviglia e il sangue brucia, a contatto con il vento violento. Il mio corpo rotola nell'acqua gelida del ruscello, la voce si blocca in gola e non può più esprimere il terrore che provo. I muscoli raggrinziti che non osano muoversi, riesco a strisciare fino alla riva e all'improvviso mi accorgo di un'ombra. Caccio la testa sott'acqua e trattengo il respiro, aggrappata con ogni forza alla radice di una pianta subacquea. Attendo il tempo necessario, mi accorgo che l'apnea non mi spaventa. Non sono umana, non lo sono mai stata. Ora me ne rendo conto, il mio corpo e la capacità di recupero delle ferite lo confermano.
Riemergo e scorgo la figura eretta che, pian piano, si allontana dalla sponda e procede verso gli alberi altissimi che solitamente indicano il nord. Ecco che ricordo i punti cardinali, ma in questo luogo non posso avere certezza che essi esistano.
Esco dal ruscello, deglutisco. Quella creatura mi somigliava, gli arti denutriti e il colore pallido della pelle rispecchiavano ciò che sono. Ma se è stato quell'essere, a infondere in me tanto terrore, non posso rischiare di scoprire la sua natura.
Mi ergo in piedi e prendo un profondo respiro. Strappo le erbacce che trovo sulla sponda, le premo contro il corpo perché il mio sangue freddo e grigiastro implora la ricerca di calore. Come so questo? Lo percepisco fluire nelle vene, raffreddare la temperatura corporea per permettere la sopravvivenza in un luogo tanto ostile. Mi dirigo verso gli alberi a passi stentati, raccolgo foglie tal terreno e me le appiccico dove riesco. I primi rami sembrano troppo alti, per arrampicarmici, ma il sonno si fa sentire e devo individuare un rifugio dove riposare.
Mai fidarsi, disse quel tale, quello con un bizzarro apparecchio a due specchietti rotondi appoggiati sul naso. In molti vantavano tale marchingenio, nel posto dal quale provengo, ma non ne ricordo il possibile utilizzo. Egli pareva vecchio, se ne stava sdraiato sopra una superficie morbida e dal colore forte, sommerso da strani oggetti affusolati, come si chamavano... cavi?
Le gambe cedono sempre di più, avverto la vista traballare nel buio. Inciampo e cado sopra a quelli che ricordano aghi di sempreverdi, una pigna mi preme la schiena, ma la posizione supina è quella che manterrò. Lotto con me stessa per non abbandonarmi al sonno, ma esso sembra volermi rapire irrimediabilmente. Non devo addormentarmi, non posso farlo.
Un fruscìo, rumore costante in avvicinamento. Qualcosa giunge fino a me, qualcuno mi ha individuata. Avverto un verso scomposto che immobilizza gli arti. È il terrore, non respiro, non ci riesco. Non posso scappare, non posso fare altro. Non ricordo, non c'è alternativa.
-Ra... Rach...
Il collo si tende all'indietro, scorgo la creatura dalla quale scappavo. Al contrario, essa si avvicina fino a guardarmi dall'alto, poi cede sugli arti e si inginocchia. Emana cattivo odore, le sue mani lo reggono e il volto sporco e sconvolto mi osserva, come soddisfatto. È maschio, ora riconosco la sua natura. Pare umano, ma probabilmente non lo è: esattamente come me. Gli arti e le spalle malnutrite sporche di fango, erba e una poltiglia secca e grigiastra, che riconosco come sangue anche in penombra.
Piove, la tempesta imperversa e i tuoni mi spaventano a ogni colpo. Prendo a tremare, il suo fiato freddo mi punge il volto. Più osservo il suo viso che mi guarda al contrario, più mi rendo conto di quanto tali occhi scuri, che paiono pozzi di petrolio, assomiglino ai miei. I lineamenti appuntiti, magri, i capelli sulle spalle che paiono il nido di qualche animale. Esso è la creatura dalla quale scappavo, ma mi sembra di ricordarla.
-Rach... Rachel.
Forti colpi di tosse lo scuotono ed egli sputa sul mio petto. In seguito cede alla stanchezza e cade, lasciando che il suo torace pesante piombi sul mio. La mia testa premuta sotto il suo ventre, la sua sopra il mio. Cerco di farmi spazio e me lo scrollo di dosso, ma poi sento il bisogno di toccarlo e respirare il suo odore forte. Striscio verso i suoi piedi e lascio che i miei premano contro il suo volto. Entrambi i corpi riversi sul fianco, che si guardano a vicenda. Stringo le sue gambe gelide e il liquido mi invade gli occhi. Una sensazione fredda sul viso, la pelle bagnata da quelle che si chiamavano... lacrime? Non ricordo in quali condizioni esse si riversassero sul mio volto, un tempo. Non posso rammentare un ricordo tanto doloroso. Non mi sento bene, la psiche è scossa. Sono forse aggradata, oppure soffro?
-Ryan.
Ecco che il suo nome mi fulmina in bocca, come il lampo che disegna striature bianche tra i rami degli alberi. Chiudo gli occhi e mi lascio andare a un pianto sfrenato, abraccio le sue gambe, prego perché egli non mi abbandoni.
Grido perché ricordo, filnalmente. Rammento colui che per me può essere definito importante. Un legame di sangue ci unisce, riconosce la nostra nascita come proveniente da un comune genitore. Come si chiamava, questo legame? Siamo forse... fratelli?
Quel vecchio che parlava, quello che portava... occhiali. Ha raccontato di tale posto a entrambi, lo faceva spesso prima che ci addormentassimo. Fratelli... gemelli. Dormivamo nella stessa abitazione. Esso era forse nostro... nonno? Morì, quel giorno, sopra un letto morbido, quando ci ha parlato per l'ultima volta di questo posto. Quello abitato da creature con il sangue grigio, nero, a volte candido.
Non c'è calore, in questo posto, non esiste riparo o fiducia. Non posso più fidarmi di mio fratello. È questo, il compromesso per ritrovarsi nel luogo del quale tanto mi parlarono? Quello che sognavo ogni notte, che mio nonno mi prometteva sempre. Ryan diceva che il nonno era vecchio, forse pazzo, che si era inventato tutto e ci raccontava di questo posto per farci felici. Ma io non ho mai creduto a mio fratello, mi piaceva ciò di cui il nonno parlava.
Piango, allora, più forte che posso. Ryan non risponde più agli stimoli, né ai richiami. È forse... morto, nel luogo di origine dei propri sogni? Il suo sangue ferrigno l'ha condotto fin qui, per farlo poi morire? Le nostre mani sono sempre state gelide, la nostra temperatura corporea piuttosto bassa. Ma appartenere a tale luogo, perché? È questa la verità?
Lancio un ultimo grido di terrore, chiamo ciò che ricordo e le mie più tremende paure sembrano animarsi. A volte i sogni deludono, questa è la conferma di tale teoria. Il posto che più di tutti mi ha attratta nella mia vita umana, mi donerà la peggiore delle sciagure.
Il sangue sporco che scorre nelle nostre vene ci ha condotti fino a qui, in un luogo che ci appartiene più di quanto ammetteremmo mai. Quello che sognavamo, al quale aspiravamo, che avremmo voluto affrontare come le più forti delle creature esistenti in ogni realtà. Ma siamo deboli, lo siamo sempre stati. A volte non c'è motivo a giustificare quello che accade, a volte non si decide per il proprio destino e non ci si oppone. Lo si accetta, si resta a perire nel proprio corpo freddo e privo di speranza. Una goccia fresca di sangue che pare l'acqua sporca della palude scorre di fronte ai miei occhi, scivola dal mio polso congelato e inumidisce la pelle del mio gemello.
Acqua sporca, perlacea, ferrigna. Con lei ho vissuto la nascita per la seconda volta. Ma , ogni principio comporta un'estinzione. Irrimediabilmente, ecco che il tramonto rapisce la mia pelle gelida e la porta con sé. Curioso, come la morte giunga lenta e incalzante per ognuno. Eppure non mi spaventa, ora che acquisisco il dono della memoria. Le palpebre premono, un sonno profondo mi avvolge. Conosce una risposta, finalmente: la nascita terrorizza più della stessa morte.

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