C'è uno spiraglio di luce all'inizio di questa storia ed è il banale spiraglio che, alle sette del mattino, filtra prepotentemente dall'unica fessura aperta della persiana. Non è il cliché della luce in fondo al tunnel, non c'è via d'uscita, via di fuga dal rumoroso ticchettio che scandisce i tempi della mia esistenza, dal meccanico ruotare delle lancette che disegna le fasi della mia quotidianità.
Mi tiro su con la schiena dopo essermi svegliata da un brutto sogno. Son quasi tentata a ritornarci, per quanto brutto fosse, ma il senso del dovere si posa sulla coscienza, come il diavoletto sulla spalla sinistra del protagonista di un cartone animato, e inizia a schiaffeggiarla sonoramente. Alquanto scombussolata e disorientata, mi dirigo in cucina con la speranza di non trovarvi nessuno. In realtà, ad attendermi c'è mia madre, all'estremità del tavolo dove prendo posto. E' un po' intontita anche lei, ma questo non le impedisce di inondarmi di domande, mentre i miei pensieri si fanno un tuffo elegante in quella tazza in cui verso sempre o troppo latte o troppi cereali. Se in un qualsiasi momento della giornata la mia mente è capace di esplorare le galassie più lontane e di sostenere i ritmi più frenetici, il resto al di fuori è sistematicità, ripetizione, il brivido del niente. Terminata la mia silenziosa colazione, mi allontano velocemente, rimuginando su quante volte a quell'ora ho assistito ad una scena simile e dico "assistito", come se fossi uno spettatore esterno, estraneo, perché non mi pare si possa vivere nulla con intensità ed attenzione quando si è svegli da pochi minuti, neanche il sesso. A dire il vero, non vivo niente con intensità da almeno una manciata di mesi, ma questo è un altro discorso. Vedo scivolare nel lavandino metà del dentifricio che avevo spremuto sullo spazzolino e poi, guardandomi riflessa, con i capelli arruffati e la faccia stropicciata, penso che mi sto buttando via proprio come quella scia bluastra. Raccolgo tutto e me ne vado stringendo tra le dita le bretelle dello zaino. Corro verso la fermata del bus mentre un cielo nero mi rovescia addosso un pianto eterno. Quando incrocio quelle quattro solite facce, sento il desiderio imminente di tornare a dormire, di tornarmene a casa: l'interrogatorio di mamma è meglio delle risatine infantili dei ragazzini del primo anno, di quello snervante spettegolare mattutino delle donne di paese, del già visto, del già sentito, del già odiato. Punto lo sguardo in una spaccatura del marciapiede e attendo l'autobus così, beccandomi l'acqua, perché la pensilina è occupata da viziate ochette con il cappotto nuovo di zecca ed io non ho un ombrello.
Il tragitto per arrivare a scuola sembra sempre così lungo sotto la pioggia, infinito, ma niente è più lungo del tempo trascorso sui banchi, niente più lungo dell'attesa della sigaretta delle undici, della fila ai bagni, di quell'interminabile ansia che ti immobilizza ogni qualvolta ti sottopongono ad una prova che prevede una valutazione. Io la chiamo "ansia del numero". Siamo numeri a scuola. Matteo, il mio compagno di banco, è il numero quattro nell'elenco. Mi siedo accanto lui, biascico un "ciao" assonnato e mi scolo i resti del caffè acquoso comprato frettolosamente alle macchinette del piano di sotto. Non ho voglia di ascoltare né di scrivere un appunto, ma meccanicamente mi alzo all'arrivo dell'insegnante, mi unisco al coro dei "buongiorno", mi risiedo, ascolto, scrivo. Immagino di essere dentro lo schermo di quella serie tv distopica che stavo guardando l'altra sera; immagino di essere tecnologicamente programmata a fare quello che sto facendo, a recepire parole, discorsi, informazioni; programmata ad interiorizzarli e ripeterli così come mi sono stati inculcati.
- Giordano, sei presente oggi? –
Segue la gomitata di Matteo, mentre io, con gli occhi sbarrati, impiego le mie energie a mordicchiare il tappo di una penna sfortunata.
- Ehm... Si prof, scusi, ci sono. –
- Bene. Dicevamo "Vino rimedio al dolore". Alceo... -
Rimedio al dolore. Strizzo le palpebre e fisso le labbra della professoressa, intenta a leggere un epigramma su alcuni dei temi tanto cari ai Greci antichi: la precarietà della vita, il vino come conforto alla sofferenza umana.
STAI LEGGENDO
Calamita
General FictionCi sottovalutano, ci credono una generazione perduta. Ci accusano di essere arroganti, superficiali, privi di valori. Ma siamo solo giovani, giovani curiosi, testardi, facili prede delle attrazioni pericolose. Siamo un fitto reticolo di meccanismi d...