La mia rivolta porta il tuo nome

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Sussurrava alle loro orecchie: «Non gridare. Non piangere. Esci a testa alta da questo regno». Ma gridavano, piangevano, si dimenavano cercando di rompere le catene che li tenevano appesi per i polsi. Sopravviveva ancora la speranza di potersi salvare, perché gli occhi bendati impedivano di vedere la voragine che si apriva ai loro piedi e che aspettava di divorarli. E lui si aggirava tra di loro, come una condanna travestita da perdono, facendosi trascinare dalle sue ali, che erano ormai sul punto di cedere per lo sforzo. L'aureola brillava, illuminando quella distesa di tenebre.
L'orizzonte era buio, il soffitto era buio, tutti quegli angeli erano ormai buio e il baratro era la promessa di un buio eterno.

«Non gridare. Non piangere. Esci a testa alta da questo regno.»
Poi stringeva con il pugno le catene. I palmi delle mani cominciavano a splendere, il metallo a fondere e i corpi a precipitare. E cercavano in tutti i modi di superare in forza la gravità, di spiccare il volo, ma le loro ali si erano ormai trasformate in polvere e l'oscurità iniziava a circondarli. Uno ad uno cadevano come gocce di pioggia, portando con sé i tuoni delle proprie urla.

Sognavano la redenzione, ma la redenzione presuppone un peccato, e un peccatore non merita redenzione.

«Non gridare. Non piangere. Esci a testa alta da questo regno.» Nessuno era tanto forte da seguire quel consiglio, neanche lui stesso: piangeva per ognuno di quegli angeli caduti. Li aveva amati nella loro purezza e continuava ad amarli nel loro peccato. Soffriva nel dover infliggere quel castigo, ma lui era solo una pedina nelle mani di una forza superiore, era solo il sicario assoldato per portare avanti quell'incarico di rimorsi e dannazione. Per settimane intere aveva visto angeli perdere le loro ali, fratelli trasformarsi in demoni, e adesso che rimaneva soltanto una catena da distruggere, la fatica dei giorni passati sembrava nulla in confronto a ciò che avrebbe dovuto ancora sostenere.

Per la prima volta dopo la guerra dei cieli, lo rivide, e il cuore gridava "Non lasciarlo cadere" e la mente rispondeva "Non c'è più posto in Paradiso per lui".
Un muro di silenzio si ergeva tra i due, perché quel prigioniero non gridava, quel prigioniero non piangeva. Rimaneva immobile, ad aspettare di essere dilaniato dal suo destino. Il suo corpo sembrava un campo di battaglia; ferite e sangue a tracciare i sentieri della sua sconfitta.

Il cuore suggeriva "Va' da lui", la mente ripeteva "Ricorda ciò che devi fare".

Si avvicinò lentamente e a ogni metro credeva che avrebbe ceduto al successivo. Quando furono ormai vicini, allungò le braccia togliendogli la benda e chiedendosi quale fosse la cosa giusta da fare.

«Lucifero» disse. Parlò a bassa voce, ma in quel silenzio il nome rimbombò, fino a smarrirsi in lontananza.

Il prigioniero ci mise un po' a notare la sua presenza, poi alzò lo sguardo. Quel viso era imperturbabile, eppure ci si poteva accorgere dell'ostilità adagiata sulla sua pelle e della speranza che si diffondeva dai suoi occhi.

«Mikael» rispose, con un filo di voce. «Mi dispiace» proseguì, spostando lo sguardo verso la voragine.

L'angelo si avvicinò di qualche centimetro e con le dita gli alzò il mento.

«Non guardare giù.»

Sorrise incerto, pulendogli il sangue che gli sporcava il viso.

«È così grave?» chiese Lucifero con lo stesso sorriso.

Mikael non rispose, lo abbracciò piano, per paura di fargli male. Il corpo di lui non soffriva, ma dentro, quell'abbraccio, era come veleno che si diffondeva, un veleno di cui sarebbe stato felice morire. Restarono in quella posizione per qualche minuto, affinché il calore sciogliesse il dolore.

Il cuore pregava "Liberalo", la mente ordinava "Liberatene".

«Mi avevi promesso che saresti scappato, in caso di sconfitta» mormorò con la testa appoggiata sulla sua spalla.

La mia rivolta porta il tuo nome | OneshotDove le storie prendono vita. Scoprilo ora