Nella scuola del centro c'era una ragazza che sedeva sempre in ultima fila, a destra, posto accanto la finestra.
Restava seduta lì, senza dire una parola, dall'inizio della lezione fino alla campanella che segnava il termine della mattinata.
Detta così, se fossi entrato nella sua classe a ricreazione l'avresti riconosciuta subito.
Il problema era vederla.
Si, perché era invisibile.
Nessuno faceva caso a lei, nessuno notava i suoi occhi sempre più rossi e gonfi a causa dei pianti.
Nessuno vedeva le sue occhiaie sempre più marcate a causa delle notti insonni, o i suoi capelli sempre più lunghi, dietro ai quali si nascondeva.
Nessuno faceva caso alle sue mani, sempre più pallide, o al modo in cui camminava, con il capo chino e lo sguardo perso.
Nessuno eccetto io.
Io, che ero invisibile come lei, una notte senza luna, priva di stelle, strisciai sotto il suo letto ed entrai nella sua mente.
La svegliai.
Ma non le interruppi i suoi incubi, dato che continuavano ed esistere anche quando spalancava gli occhi.
Io le diedi un obbiettivo.
Una soluzione.
Le dissi il segreto per farsi accettare da tutti.
E lei, accettò.
Decise di seguire la mia voce, di seguire i miei consigli.
Innanzitutto le assicurai che non aveva bisogno di nessuno; le persone deludono, ti spezzano, ti pugnalano alle spalle, ti sputano parole piene di veleno addosso.
E lei era così sensibile, troppo fragile per loro.
Isolarsi era molto, molto meglio.
Gli feci scoprire la sua forza interiore.
Se voleva poteva essere tutto ciò che desiderava.
Mi disse che voleva essere felice.
Le risposi che era facile; bastava smettere di mangiare.
Mi domandò come era possibile e io le promisi che doveva fidarsi di me.
Le sue porzioni si ridussero sempre di più, finché non si trasformarono in veri e propri digiuni.
Le sue gambe divennero sottili, talmente sottili che parevano spezzarsi quando correva, o camminava, per bruciare tutto ciò che le era rimasto in corpo.
Le sue ossa iniziarono a spuntare da sotto la pelle, e la sua sagoma divenne appuntita, spigolosa, scheletrica.
Più passava il tempo, più i suoi capillari e le sue vene si facevano visibili, e il suo colorito diventava giallo, e la sua pelle raggrinzita, secca e ruvida.
Ogni qualvolta che si pettinava, alla spazzola restavano avviluppati sempre più ciocche, perché aveva iniziato a perdere i capelli.
Ma non si poteva fermare ora, non era ancora abbastanza.
Sul suo volto si disegnava un sorriso ad ogni sguardo pieno di gelosia che gli sfrecciavano le sue compagne di banco.
Le sue dita divennero blu, e aveva sempre più freddo, perciò il suo corpo iniziò a produrre una sorta di peluria, come se fosse un cappotto, e le fu impossibile andare al mare o in piscina perché era come andare in costume al polo nord.
Ma tanto, lei non ci andava da prima del mio incontro.
Allo specchio continuavo a sottolinearle tutti i suoi difetti; erano tanti ma alla fine saremo riuscite ad eliminarli tutti.
“Guarda i tuoi fianchi!”, “hai ancora la pancetta”, “le tue cosce sfamerebbero l'Africa”, “stai forse ingrassando?”, “ma cazzo, il tuo stomaco é talmente pieno che non ti si vedono sporgere le costole!”.
E lei piangeva.
E piangeva.
E piangeva.
E sentivo il suo cuore bruciare di odio.
E di rabbia.
E di mille altre cose condensate assieme.
Sfruttavo queste sue emozioni per motivarla a percorrere più chilometri, a fare il doppio degli addominali del giorno prima, a correre più minuti.
A differenza di chi le stava accanto, io vedevo i suoi risultati e ne ero fiera “guarda! Hai perso un altro chilo! Sono certa che il prossimo mese ne perderai altri 5 se continuerai così!”, “brava, il numero sulla bilancia é sceso ancora! Che ti avevo detto? I tuoi sforzi daranno risultati”, “le tue gambe si sono assottigliate ancora, dai che ci sei quasi!”.
Io le stavo accanto, sempre.
Non la lasciavo mai sola.
Le insegnai che non poteva uscire nemmeno con la sua famiglia.
Un giorno volevano andare al cinema, e io le ricordai che loro avrebbero preso bibite, pop corn e altre schifezze simili. E probabilmente l'avrebbero costretta a mangiare.
Meglio evitare, no?
Così restava a casa ad allenarsi, non era mai abbastanza.
Ci si può sempre migliorarsi, no?
Alla mattina faticava ad alzarsi. Le girava spesso la testa. La vista era offuscata da macchie nere e vedeva sfocato. Il suo cuore rallentava ogni giorno. I muscoli lì aveva già bruciati e ora toccava agli organi interni. I suoi denti erano trasparenti, i suoi occhi infossati, le sue guance due voragini, il suo respiro breve.
Aveva sempre meno fiato e pensava sempre di più.
Iniziò a pesarsi sette volte al giorno, a digiunare per periodi sempre più lunghi.
Le mostrai come punirsi, se provava a trasgredire; le sue game erano piene di lividi, le sue braccia di morsi e la sua pancia di pizzicotti, di graffi.
Ero severa, ma era l'unico modo per raggiungere il suo scopo; la morte.
Stava morendo.
Perché l'unico modo per essere felici è andarsene da qui.
E io la stavo aiutando a scomparire, a diventare aria; se le le avreste chiesto quanto voleva adimagrure o cosa voleva diventare, non vi avrebbe saputo rispondere, perché lei puntava a dissolversi nel nulla,
lo stesso nulla che era per tutti.
Prima di andarsene scrisse un biglietto, indirizzato a nessuno in particolare ma a tutti
“Anche adesso, per voi, continuo a non essere abbastanza”.
Quando la ritrovarono, il giorno dopo in camera sua, dissero che era più simile a un mucchio di ossa che ad un cadavere.
-Ana
Se credi che una persona soffra di disturbi alimentari, ti prego, vai da quella persona, abbracciala, stalle accanto, mostrale che l'amore esiste, che c'è chi si preoccupa di lei, che non é invisibile.
Chiedi aiuto.
La voce nella sua testa la distruggerà.
I disturbi alimentari altro non sono che una profonda sofferenza, nati da una depressione, dove il proprio corpo, denutrito, lasciato morire, é il ritratto dell'animo stesso di quella persona.
Non essere indifferente.