Peonie Imperiali sul tuo comodino

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One shot
First Love, nei media

❝Chi può distinguere il mare da ciò che vi si riflette? O dire dove finisce la pioggia e comincia la malinconia.❞

— Murakami Haruki

— Murakami Haruki

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Peonie rosse. Sono peonie rosse quelle che ho lasciato vicino al tuo letto.
Ho scelto il rosso acceso perché ogni volta che ti venivo a trovare c'era troppo bianco. Bianche erano le pareti, bianca era la tua pelle, sottile come ostie, e bianchi erano i macchinari alla tua destra, che ti permettevano di respirare.
Bianche erano le tue labbra pallide e sciupate, ninfee senz'acqua che non possono far altro che seccare. Bianchi erano i bordi del letto, delle ruvide lenzuola che stringevo piangendo e si stropicciavano come carta fragile sotto la stretta delle mie dita.
Ho girato in tanti negozi di fiori, prima di trovarle di questo colore. Le suole delle mie converse sono consumate ai lati. Ho strascicato tanto i miei piedi in questi giorni. Forse dovrò buttarle, forse aspetterò che si formino buchi dove premono i talloni.

Oggi sono stato in ospedale e sono entrato nella stanza dove, fino a qualche giorno, respiravi piano grazie ad una mascherina appannata collegata a grandi e fredde macchine. Ho controllato i fiori sul davanzale. Si sono aggrinziti tanto, i petali erano scuri e accartocciati ai piedi del freddo vaso di vetro.
Il letto vuoto, fatto e senza pieghe. Era accecante e mi piace pensare che i miei occhi lacrimassero per quel colore troppo forte alla luce del sole, pur sapendo che non fosse quella la ragione. Vedere tutto intatto, senza te, è stato come ricevere centinaia colpi di spranghe nello stomaco, e mille e mille pugnali al centro del mio petto che conficcavano l'acciaio nella solita ferita.
Sentivo il cuore stretto. Ha fatto così male che su quel letto, i dottori, hanno costretto me a stendermi.
Mi son venuti in mente tutti i tubi e quei molteplici aghi che penetravano i dorsi tremanti delle tue mani. Sono ciò che odio, del mio ultimo ricordo di te.
Tu, che non dipendevi da nessuno, che sei sempre stata forte,
tu che hai imparato a vivere senza appoggiarti al sostegno di altri,
adesso ti ho vista aggrapparti
a macchine che ripetevano,
continuamente,
lo stesso bip.
E, ti prego, adesso sfila le lame che trapassano il mio corpo! Sto urlando forte contro muri che non rispondono! Con le bombolette ho scritto il tuo nome e ora quasi, delle mie ossa rotte, sento il rumore
che segue dopo averle scosse. Tiro calci alle pareti, dei supermercati. Se stringo la tazza la mattina, la mia mano sanguina tra i cocci di ceramica.
Non importa se farà male, voglio solo che tu lo faccia. Prendi subito dai manici i coltelli che curvano il mio corpo. Non importa se dalle ferite scorrerà il sangue, sulla mia carne. Io ti prego soltanto di non lasciarmi
agonizzante,
in questo modo.

All'uscita dall'ospedale ho trovato mio padre. E' venuto a prendermi e aveva il gatto tra le braccia. Il gatto che amavi tanto, piccolo e debole, e che ha smesso di mangiare perché, a casa, non accetta ciotole se non dalle tue mani.
Ho smesso di chiamare, mio padre, papà. Se servirà ancora, se mai dovessi ritrovare il controllo per parlargli, allora sarà da quel momento che comincerò ad usare il suo nome per intero.
Quante volte è venuto a trovarti, mamma?
Quante volte l'hai visto sedersi sullo sgabello, vicino al tuo letto?
E quante, invece, ha stretto la tua mano che cercava il calore che la mia non poteva darti?
Mamma, non pensarci. Non pensarci più. Io ero accanto a te, anche se tu non potevi vedermi.
Mamma, ero là, te lo giuro. Ero là vicino e c'ero davvero, c'ero davvero stavolta.
Mi dispiace così tanto, mio padre ha ragione: ho diciannove anni e sto già contando quanti giorni mi restano da vivere. Quasi mi diverto a segnare col rosso croci storte sulle mie pareti.

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