The worst disadvantage

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Ho deciso di condividere con voi la favola della buonanotte che Rosie vuole le racconti più spesso perché, alla fine dei conti, io e Sherlock avremmo comunque dovuto comunicare la notizia e, dato che in ben otto mesi non siamo riusciti a trovare il modo giusto di farlo, abbiamo deciso di usare il blog e le parole che fanno addormentare placidamente e magicamente nostra figlia.

Sherlock potrebbe sembrarvi fuori di testa ma, in realtà, l'uomo di cui mi sono innamorato è anche così come leggerete da qui a poco.



"Era un giorno tranquillo e il sole splendeva luminoso nel cielo londinese, stranamente terso e azzurro, la primavera era appena iniziata ma il freddo non voleva saperne di abbandonare noi poveri umani alla ricerca di un po' di tepore. Sherlock era alle prese con un caso ostico e tortuoso che lo costringeva a rimanere in quella sua dannata posizione, steso sul divano, con le gambe troppo lunghe che non riuscivano ad essere contenute dalla dimensione di quel giaciglio fin troppo sfruttato, con i piedi nudi e bianchi e le due dita delle mani congiunte tra di loro che appoggiandosi sul mento formavano un quasi perfetto triangolo, per troppe ore, troppi giorni...in quel caso per ben più di una settimana.

Non potevo più sopportare quella situazione, il tavolo imbandito di qualsiasi cosa che, normalmente, non avrebbe dovuto avvicinarsi nemmeno ad una casa di persone civili, Sherlock non cambiava vestaglia, non si radeva, non si pettinava, non mangiava e non dormiva da dodici giorni, da ben duecentottantotto ore, non si poteva continuare con quello sciopero infinito di funzioni vitali, avrebbe perso il senno, l'avrei perso con lui.

Il caso volle che dopo qualche ora il caro genio della sregolatezza ricevesse una chiamata da uno degli appartenenti alla rete dei senzatetto e che dopo nemmeno quaranta minuti ci ritrovassimo fuori casa con un borsone a testa intenti a salutare una piccola principessa restia a salutare i suoi papà ma felice di trascorrere del tempo con la nonna per elezione.

Non sapevo cosa ci fosse in quei borsoni, non conoscevo la meta, mi ritrovai in una macchina nera, direzione aeroporto, con una benda sugli occhi e le mani legate, ero con Sherlock e avrei dovuto essere tranquillo ma, proprio per la presenza dello spilungone al mio fianco, sapevo di dover tenere la guardia alta, sarebbe potuto succedere un dramma, qualcuno avrebbe potuto prenderci di mira ed io mi sentivo indifeso senza la capacità di poter muovere le mani come più gradivo ma, facendo attenzione, notai di aver dei nodi molto lenti, in caso di necessità avrei potuto liberarmi velocemente e senza problemi, come al solito, Sherlock aveva visto al di là del proprio naso.

Dopo molte ore di viaggio scendemmo dall'aereo privato di Mycroft e, pur non avendo riavuto indietro il dono della vista, mi resi conto di essere in un luogo molto freddo, più freddo dell'Inghilterra. Non ebbi modo di capire altro, dovetti camminare per un bel po' di tempo con un borbottante spilungone che trascinava i piedi ogni tre passi e che reclamava la mia attenzione con quel suo solito modo di pronunciare il mio nome. Ad un tratto Sherlock mi tolse la benda dagli occhi e non fui in grado di sopportare la luce, non subito almeno, ma, appena ne ebbi la capacità restai a bocca aperta, in poche parole si era ripresentata più o meno la stessa reazione che il genio era obbligato a sorbirsi ogni qual volta si cimentasse in una delle sue deduzioni.

Mi aveva portato in Norvegia, o meglio, in una baita innevata in Norvegia per il caso, mi disse che nei paraggi, in uno dei rifugi più a bassa quota, c'era un complice del suo primo sospettato e che con un po' di fortuna sarebbe riuscito ad acciuffare il capo di una rete terroristica londinese.

Solo dopo più di dodici ore, venti tentativi di scucirgli più dettagli inerenti al caso, quattro profferte di cibo ed un infinito silenzio forzato, riuscii a risalire al VERO caso. Il complice era lo stesso Sherlock, il primo sospettato e, quindi, il capo ero io e la rete terroristica era il cuore di un principe di ghiaccio che aveva paura di far scoppiare un kamikaze chiedendomi quello che mi avrebbe chiesto di lì a poco.

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