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Non c'ho dormito, non posso smettere di pensarci. Non posso risolvere subito 'sta cosa di Love perché qui contano tutti su di me e il casino l'ho combinato io, devo occuparmi prima della coca, anche se a ogni respiro mi si spezza la trachea e non mi arriva aria nella testa alla sola idea che qualcuno stia dietro a Lara, che potrebbe essere chi credo io, e se è lui, non è lì per lei.

Alle otto di mattina, col sole che picchia sulla sabbia nera e le facce sudate, io, Cisco, Robertone, Tarzan e Massimo che non si è ancora ripreso dall'incazzatura, trasciniamo i tre scatoloni incriminati nella casa di fronte, quella del tizio che sta a Rebibbia e che conosciamo bene, il vecchio giocatore d'azzardo con la passione per le nere.

«Se Gippo fosse qui ci aiuterebbe. Quindi facciamo finta che ce l'abbia offerto lui l'alloggio per la coca. Temporaneo.»

Parlo di Gippo come di un missionario solo per convincere me stesso e loro che uno che sta a Rebibbia non s'incazza se gli trovano la droga dentro casa, come se una cosa del genere non gli causerebbe un aumento di pena fino all'eternità.

«Beh, non è che gli stiamo proprio a fa' un favore», dice Massimo che rulla una canna con la schiena accostata al muro scrostato, «Ma tanto c'ha settant'anni e passa, non gli puoi dare altri vent'anni, manco ci arriva».

«Ce n'ha pure ottanta, se è per questo», interviene Robertone, «Ma l'importante è che portiamo via tutto prima di novembre, che quello lo rilasciano a novembre». E intanto sposta le ultime scatole per addossarle alla parete.

«Che, novembre?», interviene Cisco, «chesta roba sparisc chesta notta».

Massimo tira una boccata di fumo e non si sposta dal muro, «Oh, Cisco, statte calmo, che bisogna anda' a ruba' un furgone prima.»

Tarzan è ancora contrario, «Io dico teniamoc tutto e facimme e' milionàr.»

«Non se ne parla», replico e mi affaccio alla portafinestra che accede alla spiaggia, «la riportiamo alla rimessa stanotte se troviamo un trasporto adatto e lo rubiamo senza problemi. Sennò ci tocca ...».

Non finisco la frase che un botto pazzesco ci fa saltare tutti e ci giriamo in sincrono verso la porta d'ingresso che ha sbattuto così forte che lo stipite s'è sbriciolato.

Due scatti e un fucile da caccia slitta e si carica.

Un urlo: «Fuori da casa mia o vi sparo!».

Un fucile della prima guerra mondiale tra le braccia del vecchio Gippo, spettinato e pieno di barba incolta che pare un evaso da Alcatraz e che ora ci minaccia come farebbe un cecchino.

Ci mettiamo tutti sulla difensiva con le braccia protese in avanti a cercare di fermarlo e parliamo quasi in coro: «Oh, Gippo, siamo i vicini, calmati!».

Dico: «Non ci riconosci? Siamo quelli del Porto, cazzo, metti via quel ferro d'epoca!».

«Che vuoi fare, spararci?», urla Massimo, «che così, manco sei uscito che ce torni, al gabbio!»

Lui appare confuso, una via di mezzo tra svampito e incazzato. Non abbassa la mira ma parla balbettando: «Io non vi conosco, mi volete fregare, chi siete?».

Avanzo un passo alla volta a mani alzate, piano, «Gippo, sono Rio. Ti ho portato turbine e ventole per un decennio.»

Possibile che la galera l'abbia rincoglionito?

Robertone resta indietro, non molla gli scatoloni e parla col tono alto: «Non lo sapevamo che eri uscito, t'hanno abbonato un po' di mesi per buona condotta?».

∞ nessuno muore per sempre ∞Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora