1990. Los Angeles, California.
No, no. Non andava bene così. Era, non so, troppo artificiale?
C'era una volta, in una landa desolata della California...
Nemmeno. Non stavo scrivendo una cazzo di fiaba.
A Los Angeles il cielo era terso e limpido, il sole batteva sulle vetrate dei grattacieli esplodendo in una miriade di colori accecanti...
Forse...
Accesi una Lucky Strike. Inspirai il fumo, l'amore per l'arte, la brama di successo. Espirai, ma dalla mia bocca spirò solamente una cortina di fumo. Odiavo fumare. Ma Stephen King, Edgar Allan Poe, Charles Bukowski e buona parte degli scrittori della beat generation erano fumatori, quindi ritenevo giusto esserlo anch'io. Bisogna seguire l'esempio, sapete. Ammetto che c'era la disperata possibilità che avrei iniziato a farmi di coca come Robert Louis Stevenson, e, voilà, anch'io avrei scritto il mio libro in sei giorni e in sei notti, battendo i tasti della macchina da scrivere come un forsennato, in uno stato di perenne veglia. Non era un'ipotesi da escludere. Tuttavia in futuro - possibilmente in un futuro prossimo - quando i giornalisti si accalcheranno davanti ai cancelli della mia villa a Malibu (la quale non era ancora stata ancora costruita, ovviamente) con la speranza che conceda loro un'intervista, smetterò di fumare, lo giuro.
Prima però avrei dovuto pubblicare il mio romanzo. Il mio primo romanzo, quello d'esordio. Ah, già, prima ancora avrei dovuto scriverlo, e magari scrivere anche un incipit accattivante, o perlomeno decente.
Le mie fantasie dallo sfondo letterario erano nate e state modellate dalla mia mente malsana dopo numerose conversazioni con la bottiglia. In principio erano solo sussurri che udivo a malapena quando buttavo giù i primi sorsi di bourbon. A metà bottiglia i sussurri diventavano voci, un po' come quelle che sentono gli schizofrenici. 'Muoviti, idiota, prendi la penna in mano e diventa qualcuno', 'Vedi di fartelo alzare e fa' l'amore con le lettere, le parole, le frasi, e butta via quella bottiglia', così dicevano. Sapevano essere cattive, queste voci: mai una parola gentile o una frase d'incoraggiamento, nossignore. Ma non le ascoltavo, anzi, cercavo di farle tacere continuando a tracannare Beam Jem.
Invece, quando mi ero scolato anche l'ultima goccia del nettare magico, le voci mutavano lentamente in visioni di fama e gloria che vorticavano nella mia mente: la mia firma su un contratto di una prestigiosa casa editrice; file interminabili di lettori fuori dalle librerie per farsi autografare la copia del mio libro; io che discutevo in salette dall'arredamento vittoriano con altri scrittori sul futuro della letteratura sorseggiando brandy invecchiato di vent'anni e che ottenevo la loro approvazione grazie alle mie idee innovative e avanguardistiche; Hemingway che risorgeva perché Dio riteneva che non avrebbe avuto pace finché non avesse letto il mio romanzo.
Infine mi afflosciavo da qualche parte privo di sensi: sul pavimento, sul marciapiede, a letto - talvolta in quello di una prostituta o di un compagno di bevute -, sul cofano di una volante, e al mio risveglio accarezzavo i frammenti sfocati di quelle fantasie che ricordavo a malapena, tra una sigaretta e l'altra.
Alla sbronza seguente aggiungevo sempre nuovi dettagli a quelle fantasie, le modellavo, le palpavo, a volte con delicatezza, a volte con violenza, come fa un amante geloso con il seno della donna che ama, ma che è sposata con un altro uomo. Ci facevo l'amore, fino ad annegarci dentro e a perdere i contatti con la realtà.
Posai la sigaretta sul posacenere e la contemplai consumarsi, divenire polvere, cenere e fumo.La svolta avvenne stamattina, in un'economica stanza d'hotel che avevo prenotato per un lasso di tempo indeterminato, ovvero fino a quando non mi avrebbero sbattuto fuori. Sapete, era uno di quegli hotel che preferiscono mantenere una reputazione anonima e che si trovano in periferia, lontano da sguardi indiscreti, e dove spesso le stanze vengono pagate a ore, non so se mi spiego. Giacevo in una pozza del mio stesso vomito - non che fosse una novità - , reduce da una notte di follie, e il palato aveva il tipico sapore rancido dello sbocco; la fronte era imperlata da gocce di sudore. La gola era arida quanto il Deserto del Sahara, e ne uscì un colpo di tosse secca, seguito da un conato. I pantaloni erano fradici di qualche liquido biologico. Preferivo pensare che fossero solamente sporchi di vomito, ma li sentivo troppo umidi e appiccicati alla pelle per appurare questa ipotesi. Inoltre l'odore era quello della... be', sì, credo che abbiate capito a cosa mi riferisco.
Presumo che non fossi un bel vedere, ma non era importante.
La cosa importante era che mi sentivo diverso, in qualche modo.
La villa sull'Oceano Pacifico, i saloni letterari e il brandy d'annata non mi sembravano così distanti, irreali, come lo erano stati nelle mie fantasie. Raccolsi dal cestino un fazzoletto usato, intriso di sperma secco. Nel comodino, nell'angolo più remoto, nonché probabile tana di un ragno o di una colonia di scarafaggi, trovai una biro di cui non ricordavo l'esistenza. Aspettava solo che la impugnassi, come cinquecento anni fa i cavalieri brandivano le loro spade. L'inchiostro era quasi terminato, ma non mi scoraggiai, dovevo pur iniziare la mia carriera in qualche modo. Scribacchiai di getto su quel fazzoletto lezzoso le idee che mi tormentavano da giorni, ma che non osavo mettere nero su bianco: la passione che univa due anime dannate che erano sempre state dedite alla solitudine e all'autodistruzione, finché le loro vite non si sarebbero congiunte sulla spiaggia di Santa Monica mentre facevano l'amore al chiaro di luna, accarezzati dalla brezza marina che scompigliava di capelli di lei, e dallo scroscio delle onde che spingeva la spuma fino alle loro gambe avvinghiate facendoli rabbrividire, ridere. Era una storia che avrebbe potuto concludersi con un lieto fine, dico davvero, se non fossero entrati in gioco un accendino, un cucchiaio e una siringa, che avrebbero regalato a lui un viaggio di sola andata al cimitero.
Vomitai su quel fazzoletto tutto ciò che era rimasto intrappolato nella mia testa fino a quel momento; poi, quando non c'era più spazio a disposizione, presi a scrivere su una striscia di pezzi di carta igienica, sul pacchetto di sigarette e su qualsiasi altra superficie capace di assorbire inchiostro. La penna a sfera perdeva colpi, e pian piano si esaurì. Ma, io, non mi sentivo ancora vuoto, come presumevo che mi sarei sentito concedendo libero sfogo alla mia vena artistica.Come avrete dedotto, non navigavo nell'oro, tutt'altro; e poiché non ero disposto a vendere un mio rene - o ciò che ne rimaneva - fui costretto ad acquistare una macchina da scrivere di seconda mano da un rigattiere sulla Diciassettesima.
«A quanto viene questa?» chiesi, indicando una macchina da scrivere ricoperta da un velo di polvere.
«Quella? Gliela faccio a ventinove dollari, una miseria per quella Underwood. È ancora in buono stato, sa?»
Estrassi una banconota stropicciata dalla tasca sgualcita dei pantaloni, e immersi la mano in fondo alla tasca alla ricerca delle monete necessarie. Con un leggero senso di imbarazzo, appoggiai sul bancone una manciata di spiccioli. Sì, pian pianino la resurrezione di Hemingway si stava avvicinando. «Ecco, dovrebbero bastare».
Il rigattiere contò il denaro per un minuto buono, con fare sospettoso. Infine, li ripose nella tasca. «Tuttavia, nel caso fosse superstizioso, mi sento in dovere di riferirle che questa Underwood apparteneva ad uno scrittore squattrinato, me l'ha venduta il mese scorso». Mi squadrò dalla testa ai piedi. Voleva aggiungere 'più squattrinato di lei', magari?
«Lo è ancora? Squattrinato, intendo».
«No, non più. Ma solo perché si è ficcato in gola una quantità di quaalude sufficiente per stendere un rinoceronte. Una brutta faccenda. Era sulla prima pagina del Times, non ha letto l'articolo?»
No, non l'ho letto, pensai, ero troppo impegnato a bruciarmi il fegato. Ma mi limitai a dire che non l'avevo letto e augurai una buona giornata. Non volevo sapere nulla di quella storia penosa: quello scrittore morto di overdose, sarei potuto essere io.
Tornai nel sudiciume della mia stanza, a creare.Qualunque idiota è capace di mettere assieme uno straccio di inizio. C'è un numero infinito di combinazioni possibili per partorire un incipit, ma il problema è trovare e scegliere le parole giuste. Un vero e proprio dilemma.
Ero tentato di bermi una mezza bottiglia di vino per ricevere l'ispirazione direttamente da Bacco, lo ammetto. Ma sarebbe stato quasi come barare, o come chiedere l'aiuto dal pubblico a casa, e non era questa la mia ambizione.
Accesi una sigaretta, l'ennesima.
Il ticchettio dei tasti della macchina da scrivere era piacevole da sentire. Non mi sarebbe affatto dispiaciuto se mi avesse accompagnato per un viaggio lungo trecento o quattrocento pagine.
Ora, tutto mi era chiaro.A Los Angeles il cielo era terso e limpido, il sole batteva sulle vetrate dei grattacieli esplodendo in una miriade di colori accecanti che portavano alla mente una sola parola: speranza.
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A/N
Se questo racconto vi è piaciuto, vi consiglio la lettura del mio romanzo Finché Piove, il quale è stato influenzato da Sex, Drugs & Writing.
Buona lettura!
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Sex, Drugs & Writing
Short StoryUna raccolta di racconti che trattano di sesso, vita, letteratura, amore, whiskey scaduto, apatia, misantropia e scrittori a un passo dal baratro. Una prosa condita da tagliente cinismo.