Sarai sempre solo tu il confine

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Era strano.
Era tutto molto strano.
Era strana la sensazione che provava in quel momento, il senso di appagamento e contentezza che lo stava pervadendo. Era strano il sorriso che gli era spuntato non appena lo aveva visto varcare la porta di fronte a lui. Era strano che quello stesso sorriso fosse affiorato fino alle sue labbra così naturalmente, senza che lui se ne rendesse conto. Era strana la consapevolezza che difficilmente gli angoli della sua bocca sarebbero tornati al proprio posto in tempi brevi. Era strano starsene lì a fissarlo da lontano. Era strano guardarlo e sentirsi così completi, felici.

Filippo se ne stava lì seduto e sentiva di non voler muovere nemmeno un muscolo, per non dissolvere quel momento di gioia incontaminata che stava vivendo.
Guardava Einar così incredulo e allegro e si sentiva allegro a sua volta. Lo guardava con la sua maglia verde appena conquistata e si sentiva al posto giusto nel momento giusto. Si sentiva soddisfatto come se l'avesse ottenuta lui quella maglia.
Ma non era così. Era molto meglio.

Guardava quello che da un paio di mesi era diventato la sua metà inseparabile e si accorse di riuscire a immaginarne i pensieri: l'incertezza di essersi davvero meritato quella maglia, la paura per tutto ciò che c'era ancora da affrontare e quel maledetto timore di non essere mai all'altezza, di non essere mai abbastanza.

Eppure - anche se il ventiquattrenne non lo sapeva - andava ben oltre l'abbastanza. C'era qualcosa in più in lui. Oltre la voce dal sapore nostalgico, oltre gli occhi tenacemente blu. C'era sconfinata dolcezza e gentilezza, c'era la sofferenza di un'anima fragile. C'era dolore, passione e, sul fondo, un'infinitamente pura ed infantile evasione.

Filippo provava a capirsi, a spiegarsi ciò che stava provando in quel momento, ma non riusciva a comprendersi appieno. Era davvero possibile sentirsi così tanto appagati per un obiettivo raggiunto da qualcun altro? Si poteva davvero essere così tanto orgogliosi di qualcuno? Sì, orgogliosi. Come se la sua strada l'avessi percorsa tu, come se avessi dovuto evitare tu tutti i sassi e i fossi che aveva incontrato lungo il suo cammino, come se ogni sua ferita fosse rimarginata sulla tua pelle piuttosto che sulla sua.

Si poteva?

Evidentemente sì.

Lo fissava e non poteva che sentirsi felice. Strano ma felice.

Proprio in quel momento Einar si voltò verso il più piccolo, interrompendo i suoi pensieri offuscati dalla felicità: lo trovò già con lo sguardo fisso su di lui e un'espressione beata sul volto. Lo trovò strano.

Da quanto tempo aveva il suo sguardo incollato addosso? Da quanto i suoi occhi non si schiodavano da lui? Il solo pensiero che negli ultimi minuti avesse seguito ogni suo movimento gli fece provare un'inspiegabile sensazione, una specie di tepore che partiva dalle guance e si diffondeva in tutto il corpo.
Irama aveva quegli occhi cangianti sempre così irrequieti, trasparenti, vivi. Erano occhi da cui era difficile sfuggire, se ti guardavano davvero. Ti sentivi sempre indifeso sotto quello sguardo, quasi spiato, disarmato.
Di fronte a tale pensiero Einar si sentì ancora più in imbarazzo. Il sorriso che gli rivolse come risposta non doveva essere dei migliori, dato lo stato di sconcerto in cui si trovava, ma non fece in tempo a preoccuparsene perché un Simone fin troppo su di giri entrò in saletta assalendolo.

"Bro, sei stato grande, complimenti. Hai spaccato tutto!" disse Biondo, abbracciandolo. Poi si allontanò un attimo per guardarlo in faccia e, tutto sorridente, aggiunse: "Guardalo, oh... Sta in giostra!"

"Non mi sembra vero", rispose telegrafico Einar, sentendosi ancora e ulteriormente in soggezione, ma provando di nuovo ad abbozzare un sorriso sincero.

Seguirono altri abbracci e commenti da parte di molti dei suoi compagni, probabilmente incoraggiati dalle calorose esternazioni di Simone. Einar si trovò in un turbinio di gioia e di braccia in cui però - si accorse - mancavano quelle che aspettava di più.
Quando finalmente riuscì a riportare gli occhi sul divanetto rosso su cui poco prima si trovava elegantemente appoggiato Filippo, lo trovò vuoto.
Fu un attimo: un battito mancato, un pugno nello stomaco. Una non-presenza momentanea poteva davvero fare così male?

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