Lettera a una ragazza che (forse) avrei amato

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Ciao,

non è vero che non ti ricordi di me. Come potresti non ricordarti di me? Ci siamo conosciuti che eravamo ancora dei ragazzini. Avevamo quattordici anni e ricordo che stavi seduta davanti a me, in classe. Eravamo in quattro: tu, Francesca, io e Paolo. Poi siamo rimasti in tre, perché Paolo ha cambiato scuola. E durante gli anni abbiamo cambiato compagnie, almeno un po', abbiamo conosciuto altre persone nella nostra classe e con alcune abbiamo legato, con altre meno. Io fondamentalmente ero quello che aveva più problemi.

Come potresti non ricordarti di me? Io ero quello che veniva preso di mira, ero quello cui piaceva stare in disparte e in silenzio, ero quello non bello, non atletico, non interessante e ogni tanto mostravo pure i miei occhi sognanti. Non che quest'ultima sia una cattiva caratteristica, ma in quella pazza, fottuta classe di liceo, be', lì era il delirio.

Non ho mai imparato ad amare. Anche oggi, a vent'otto anni suonati non so come si faccia. Non riesco a dire a una ragazza quello che provo, non riesco a pronunciare quelle due cazzo di parole, quel "ti amo", quand'anche fossero tre, "ti voglio bene". Non ce la faccio, è più forte di me. Mi sembra di impazzire: divento rosso, sento il cuore che palpita nel petto e tuoni ritmati che mi esplodono nelle orecchie; mi sudano le mani, divento improvvisamente goffo, mi si secca la lingua e immagino che qualunque cosa io faccia o dica mi renderà una persona stupida per l'eternità, senza possibilità di rimedio.

Non ti ho mai detto nulla, o forse se te l'ho detto, l'ho fatto nella maniera più sbagliata e stupida possibile. Ma non averne a male ancora oggi. Te l'ho spiegato: non sono capace di esprimere i miei sentimenti. Altrimenti perché scriverei questa lettera?

Forse ti avrei amata. Forse, lo dico. Un "forse" grande come un grattacielo. Forse perché non mi sono mai pronunciato, non mi sono mai dedicato a te, non mi sono mai neppure accorto di te in tanti frangenti, concentrandomi su problemi inutili della mia vita, ma importanti all'epoca e pensando sempre ad altre ragazze come alle persone giuste per me. La cosa che troverai divertente, quasi sarcastica di questa bizzarra situazione, è che neanche con queste "ragazze giuste" sono mai riuscito a "combinare qualcosa", come direbbe qualcuno. Per me, con loro, o anche con te, era come essere un grassone, obeso, di duecento chili, con problemi respiratori e di cuore che un bel giorno, di punto in bianco si trascina, come una balena spiaggiata, fino a piedi dell'Himalaya e decide di scalare il Monte Everest. Quel grassone sarebbe morto dopo due passi o forse anche uno. E io... be', non penso che sarei andato lontano.

So riconoscere i miei limiti fin da quando avevo dieci anni. Alle elementari sapevo sempre che in una gara di velocità sarei riuscito a battere certi miei compagni e certi altri invece no. Perciò ogni volta che c'era da correre, cercavo di mettermi in gruppo con chi correva più veloce e in griglia con chi era più lento, per fare bella figura con la maestra di ginnastica.

Sembra un comportamento sciocco, ma a quei tempi ero un bambino. "Innocente" come hai detto tu, ricordando gli anni passati insieme al liceo. Significa che anche fino a diciannove anni sono sempre rimasto un po' bambino dentro e magari questa cosa non ti piaceva.

Non nego di aver provato qualcosa per te per più di un anno, ma come diavolo facevo a dirti: "Ehi, tu mi piaci, sai?" Come avrei potuto sbilanciarmi tanto se mi sentivo ancora così terribilmente insicuro e timoroso di conoscere la tua risposta? E poi, come facevo a spiazzare uno meno "innocente" e forse più "uomo" come il ragazzo con cui ti vedevi?

Se a dieci anni cambiavo fila quando c'erano le gare di corsa, a venti sceglievo il silenzio per evitare di fare la figura dell'imbecille davanti a te, oppure per non essere deluso dalle mie enormi aspettative. Non posso negare che una grossa componente inibitoria nella mia vita, almeno per quanto riguarda gli anni del liceo, l'hanno giocata i miei compagni di allora. Era terrorismo psicologico il loro. Come giocare ogni giorno, per nove mesi l'anno, al campo minato e sapere per certo che soltanto una fottutissima casella era disponibile per te da calpestare. Insomma, avevo una percentuale di errore quasi del cento percento. E a ogni errore, trac! Un putiferio infinito si alzava intorno a me e io ero inchiodato alla mia sedia come nell'occhio di un ciclone, senza possibilità di muovermi. Potevo soltanto subire. Subire e sopportare perché la mia era una lotta impari di cinque, sei, sette, dieci contro uno.

Mi inibivano. Mi inibivano tutti, come un farmaco su un canale ionico di una cellula. Mi inibivano e io non potevo fare nulla. E allora come sarei riuscito a dire qualcosa, a reagire. Come sarei riuscito a dirti: "Ehi, tu mi piaci, sai?"

Cazzo, se è stato difficile il periodo del liceo! Difficile davvero, ma poi è finito. E quella è stata la vera maledizione, perché ci siamo persi, tu e io. Ci siamo persi e non ci siamo quasi più né visti né sentiti. Più trascorreva il tempo, più noi due ci allontanavamo e se c'era qualcosa che io provavo per te, qualcosa di reale, quella dannata lontananza non faceva altro che aumentare il desiderio, mentre per te, forse produceva l'effetto opposto.

Non posso dire di aver sempre pensato a te, di non aver saputo vivere senza te in questi anni, però ogni tanto, anche piuttosto spesso, mi tornavi in mente e poi passavo intere settimane a domandarmi cosa sarebbe stato se... Non trovavo risposta. Ci eravamo persi, allontanandoci e io non avevo controprova per scoprire cosa sarebbe stato se. Una brutta cosa, non te la auguro.

Poi, ogni tanto, grazie a notizie di seconda mano, di amici o di amici di amici, riuscivo a sapere qualche novità. Di te e di lui, l'uomo che ti aveva conquistato. Erano anche belle novità, da un punto di vista squisitamente imparziale: la storia d'amore continuava, l'auto nuova era arrivata, c'era un lavoro che ti permetteva di guadagnare soldi veramente tuoi, si pensava a qualcosa di più e alla fine si arrivava alla convivenza. Tutte belle notizie, ripeto. Ma tu non eri mai felice.

Quelle volte, poche a dire la verità, in cui ci siamo sentiti e mai incontrati davvero, tu non parlavi di ciò che ti assillava la mente e in qualche caso dovevo cavarti le parole di bocca. Allora ti sfogavi per un po', mi raccontavi e io tentavo di essere comprensivo, di nascondere i miei veri sentimenti e di apparire il più amico ed equilibrato possibile, perché non potevo fare altro. Alla fine ci si salutava con l'augurio di rivedersi o, al massimo, se proprio non si poteva, di telefonarsi presto. Ti sentivo un po' più libera, più serena, anche se non avevo cambiato niente nella tua vita.

Invece quel "presto" diventavano mesi, a volte anni, un po' per colpa mia e un po' per colpa tua. Le nostre vite si sono allontanate sempre più e poi, dopo quasi tre anni che non ci vedevamo seriamente: boom! Esplode la bomba a orologeria. L'amica di sempre che mi racconta come non te la passi poi così bene, nonostante tutte le cose, apparentemente belle della tua vita. E a me dispiace, dico sul serio. Mi dispiace vederti triste, sapere che fai di tutto per tenere insieme una coppia che sta per scoppiare, che fingi di non accorgerti di molte cose sbagliate, che provi a risolvere i problemi e che ti fai andare bene anche ciò che detesti.

E allora penso: ma da quanto tempo non ci vediamo davvero tu e io? La risposta? Mai. Non ci siamo mai visti davvero. Intendo un incontro soltanto tu e io, senza amiche o amici. Io e te soli, per chiacchierare un po', sfogarci e stare insieme. Magari non saremmo mai stati destinati a frequentarci, a uscire insieme, a camminare mano nella mano, a baciarci, a fare l'amore, a vivere a costruirci una vita insieme, eppure mi piace pensare, ogni tanto, che se certi tasselli delle nostre esistenze si fossero incastrati nel modo giusto, forse, e sottolineo forse, le cose sarebbero andate diversamente.

Non so, giusto a questo punto, perché io ti stia realmente scrivendo questa lettera. Magari per fare un po' il punto della situazione. Magari per farti capire che anch'io tengo a te e che tu non sei mai sola, nonostante tutto questo tempo che abbiamo trascorso, lontani l'uno dall'altra. Magari perché voglio che tu tiri le somme della tua vita e, se non ti piace, provi a cambiarla. Magari semplicemente per rivelarti, una volta per tutte, nero su bianco, che io ti voglio bene, ti ho sempre voluto bene e tu sei la ragazza che (forse) avrei amato.

Adesso vorrei poter tornare indietro, col senno di poi, catechizzare il mio me stesso più giovane e fargli capire cosa fare, per non avere rimpianti in futuro. Ma forse, è troppo tardi.

Spero di risentirti e magari di rivederti presto, augurandomi che questo "presto" sarà tra poco.

Ti avrei amata

Il Tuo Affezionatissimo

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