Il ragazzo cieco

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Tutti conoscevano il ragazzo cieco. Tutti conoscevano Martìn, che andava in giro guidato da un piccolo bassotto di nome Achille e un bastone.
Dopo la morte dei suoi genitori, era sua zia che si occupava di lui. Nessuno sapeva il suo nome, o che tipo di voce avesse. Se tutti conoscevano Martìn, nessuno conosceva lei.
Era un'anziana così piccola e sottile che sembrava un fiore di cristallo, e praticamente invisibile.
Si faceva vedere solo ogni pomeriggio, quando apriva la porta di casa, facendo uscire Martìn e Achille. Li accompagnava fino al cancello, lo apriva, e li lasciava andare. Poi tornava a chiudersi in casa.
E Martìn si avviava verso i giardini pubblici.
I giardini erano un posto verde e fresco.
Colline, prati e fogliame verde, panchine rosse, cielo e laghetto limpidi, e un sentiero di ghiaia grigia o bianca.
Per Martìn invece era un paradiso di fruscii ricchi di verde, battito di foglie, voci e passi sulla ghiaia, e il suono dell'acqua azzurra. Non vedeva i colori da quasi due anni ormai.
Si dirigeva verso la panchina che era stata costruita proprio per lui, sotto una quercia, si sedeva, e...
... ascoltava.
Lasciava che i suoi sensi sani alleviassero quello malato.
Il vento muoveva l'erba, le foglie, l'acqua per fargli un piacere.
Achille abbaiava quando il silenzio era insopportabile per Martìn. Solo quando taceva tutto e Martìn voleva sentire altro.
Con il pallone mai fermo sul prato, correvano i bambini. Si giocava solo ridendo e vincendo, perché le parole di malcontento non ferissero l'orecchio delicato di Martìn.
Gli uccelli cinguettavano contenti, e a volte un gufo salutava con un chiurlo Martìn, prima di tornare con la testa sotto l'ala.
Tutto questo lo rendevano un ragazzo felice.
A volte capitava che, per sventura, i due vecchi bisbetici della città calpestavano la ghiaia e arrivavano bisticciando, portando con sé parole di offesa, voci arrabbiate , e disarmonia.
Il vento frusciava, allarmato, gli uccellini battevano le ali e fuggivano.
Il pallone cadeva a terra.
Achille abbaiava.
Ma i due vecchi non s'azzittivano, urlavano ancora di più, stringendosi nei cappotti, chiusi e ostili verso il mondo.
Questo faceva soffrire Martìn.
Stringeva a sè Achille e il suo bastone, portava le ginocchia al petto e si chiudeva in sè, come un albero che muore in inverno.
Allora scendeva il silenzio.
Il lago era di ghiaccio.
Le nuvole di piombo.
Il vento di pietra.
E i due vecchietti facevano silenzio. I loro vecchi occhi, le loro gole implacabili, le loro lingue affilate, le guance scavate, i cappotti neri, le gambe e le mani ossute, tutto di loro taceva.
Allora si stringevano le mani, facendole scrocchiare, mormorando parole di scusa. Si allontanavano chiaccherando, spalla a spalla, come amici.
Martìn scioglieva le spalle e tornava a sorridere.
Allora Achille abbaiava, gli uccelli e il vento tornavano ridendo, e le nuvole lasciavano cadere la pioggia scrosciando.
Correndo, con i vestiti e il pallone bagnati, i bambini tornavano a casa.
Martìn restava, sotto la quercia che lo riparava e gli sussurrava parole, come una madre che sussurra a un figlio.
Era così da anni.
Tutto cambiò quando arrivò Manuela.
Arrivò da chissà dove.
Dove abitava era ignoto a tutti.
Nessuno sapeva chi era.
I primi ad accorgersi di lei furono i cani e i gatti.
Sentivano la sua voce da ragazza giovane, i suoi passi, il suo odore di pelle umana e profumo di posti visti in un lungo viaggio.
Tutto questo sembrava provenire da una ragazza che però nessuno riusciva a vedere.
Poi se ne accorsero i padroni, i passanti, i cittadini. Sbattevano contro qualcosa che chiedeva scusa e si allontanava timidamente.
L'ultimo ad accorgersi di lei fu Martìn.
Era seduto sulla sua panchina quando sentì i suoi passi sulla ghiaia. Era un suono che gli fece drizzare le orecchie. Quando sentì la voce di Manuela chiedere se poteva sedersi, il cuore di Martìn fece una capriola.
Martìn si spostò e Manuela si sedette.
Cominciarono a parlare. E parlare. E parlare a lungo.
Scese il silenzio.
Ai bambini la voce morì in gola.
Il pallone era fermo sul prato.
Il vento gravava là dove si era fermato.
Gli uccellini non cantavano.
Non c'era suono se non le voci di Manuela e Martìn.
Erano le voci di due innamorati.
Andò avanti così per settimane, mesi forse.
Martìn non parlava se non con Manuela. Persino al negozio dove Martìn svolgeva le commissioni e prendeva il cibo per sè e sua zia, non rivolgeva più di poche parole.
Poi smise di sedersi sempre alla panchina, e si alzava, andando in giro per i giardini, a braccetto con Manuela.
Era come ringiovanito.
Di colpo non era più il ragazzo abbattuto, segnato dalla malattia che gli impediva di vedere. Era un innamorato, innamorato matto, e voleva guarire, vedere il colore degli occhi di Manuela e perdersi in essi.
Non sapeva la verità, nessuno aveva osato dirgli che Manuela non aveva nessuno colore.
Ma lui aveva toccato la sua mano, baciato la sua guancia, ascoltato la sua voce, respirato il suo profumo, e doveva vedere i suoi colori, il suo viso.
Così un giorno sua zia lo portò fuori città per tre giorni, a trovare un medico.
Manuela sapeva, e per tre giorni non tornò alla panchina.
Non tornò nemmeno quando Martìn arrivò, correndo, senza essere guidato da Achille o dal suo bastone, e ansioso di vederla per la prima volta.
Forse temeva di deluderlo profondamente.
Per una settimana Martìn andava alla panchina, aspettava, e tornava a casa col cuore a pezzi.
Poi un giorno, sentì i passi che conosceva bene.
Alzò di scatto la testa, ma non vide nulla.
Sentiva un respiro affannoso nell'aria.
Manuela era molto tesa.
I suoi passi si fecero faticosi.
Quando posò la mano sulla spalla di Martìn, lui capì.
Strinse la sua mano. Poi la avvicinò a sé, e l'abbracciò. Chiuse gli occhi.
Rimasero a lungo abbracciati, riconciliati.
Il sole splendette, il vento soffiò, e Achille agitò la coda, festoso e sorridente.
Gli uccelli cantavano canzoni, i fiori splendevano, i bambini ridevano.
La quercia sussurrò, ridente, nelle orecchie di Martìn e Manuela, parole di gioia.
Martìn e Manuela ascoltarono.

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