✣Episodio 27✣

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Jimin fissava la spessa porta in legno davanti a lui. Più rimaneva lì in piedi a cercare il coraggio di aprirla e più si accorgeva del battito del suo cuore che iniziava a impennare. Il suo tum tum gli riempiva le orecchie e ormai pensava fosse udibile per tutto il corridoio. Trasse un profondo respiro -non c'era motivo di prolungare l'attesa- e aprì l'uscio. «Non ti ho insegnato a bussare?» lo salutò suo padre alzando gli occhi da un giornale steso sopra la scrivania davanti a lui. «Buon giorno anche a te papà» rispose il ragazzo sospirando. «Qualcosa da nascondere?». A queste parole l'uomo rise e chiuse il giornale. «Sono stato io a chiamarti quindi non posso lamentarmi. Siediti pure Jimin.» e fece cenno verso la sedia in pelle al capo opposto della scrivania. «Non ti vedo più in giardino a curare i fiori papà, l'età si fa sentire?» scherzò Jimin con un lieve sorriso. Suo padre si portò le mani dietro la testa stiracchiando la schiena. «Dovresti ben sapere che ho tante cose a cui badare». Il ragazzo guardò le scartoffie ammassate ai piedi della nera scrivania. «Ammettilo, è l'età!» L'uomo si passò una mano inanellata sulla corta barba bianca che gli copriva il mento. «Può darsi. Quando un uomo raggiunge l'inverno della sua vita, non sarebbe ora che i suoi figli diventassero il suo bastone?». Lo sguardo dell'anziano signore si fissò sul giovane viso del figlio, l'espressione mutata. «...Che finalmente lo sostituissero.» L'atmosfera nello studio era improvvisamente raffreddata, Jimin lanciò un'occhiata di disappunto al padre. «Ma non ho fratelli, papà.» «Non scherzare Jimin, mostrami rispetto». L'atteggiamento dell'uomo era cambiato insieme alla sua postura che sembrava ora dimostrare il polso di un uomo ben più autoritario di quello che il suo sorriso gioviale dava a dimostrare. L'autorità di qualcuno che non si sarebbe piegato. «Papà, di cosa mi vuoi parlare?» «Tao è tornato. Immagino gli avrai già parlato, e suppongo ti abbia già aggiornato riguardo alle novità che ha raccolto in Cina» «Si esatto, ma penso che a questo punto non avrà più bisogno di» «Di tornare in Cina?» lo interruppe l'uomo sollevando un sopracciglio bianco. «Esatto. Vorrei che potesse finalmente rimanere e riposarsi un po' da questa caccia al fantasma.» concluse Jimin mentre stringeva i pugni posati sulle cosce, fissandoli. Che fosse intimorito da suo padre nell' esprime la sua speranza nei confronti dell' amico? «Jimin, sai benissimo che gli spostamenti di Tao non hanno un solo scopo. Capisco che si tratti di un tuo caro amico, ma non dimenticarti del patto con quella povera famiglia.» «Quindi dovrà partire...?» il padre lo interruppe nuovamente sollevando una mano a mezz'aria come a bloccare il flusso di parole prima che scivolasse dalle labbra del ragazzo. «Tuttavia. I tempi sono cambiati, e data la situazione non vedo altra alternativa che richiamare a raccolta tutte le pedine di cui siamo a disposizione. Ma certamente tu non vorrai saperne di alleggerire il carico che già grava su questa casa.» lo squadrò con una freddezza sferzante dritto negli occhi. Jimin sembrava mortificato. «Quindi, il Geco è davvero tornato.» «Ti lascio, è tempo che tu vada.» Jimin si alzò velocemente dalla sedia nera, la testa gialla pendeva bassa tra le due spalle, uno sguardo colmo di paure. Appoggiò con grazia la mano destra sotto quella tesa del padre, per prenderla e posare delicatamente le labbra su uno scuro e massiccio anello. «Salute al Mangiafuoco» sussurrò. Il rubino tondo brillò come una cometa infiammata di rosso.

Dovevo provare a finire quel maledetto esercizio se volevo avere qualche speranza di passare l'esame di fisica. Certo che nelle ultime settimane non mi era neanche venuto in mente di aprire mezzo libro, ed ora mi sentivo invaso da un'ondata di angoscia e disperazione ogni volta che l'idea del mio futuro universitario incrociava i miei pensieri. Dopo l'incidente del Blue Cherry non avevo mai smesso di frequentare le lezioni, ma la mia mente allo stesso tempo non era presente. Continuava a vagare e rincorrere le stesse immagini, che fossero l'accaduto nella stanza buia in cui ero stato relegato o il sorriso gentile di Jennie che mi confortava. La figura di Rose interruppe la mia catena di pensieri. Stava legando la chioma ramata in una coda alta e fluente, la posa delle sue braccia sollevate sottolineava la siluette del fisico esile fasciato da un corto abito nero. «Come sei carina». Distolse gli occhi dallo specchio per sorridermi sorpresa. «Oh grazie, che galanteria.» «Non ti vedo mai con la coda alta. O con un vestito corto. Hai un appuntamento scommetto.» Mia sorella abbassò lo sguardo con imbarazzo mentre un sorriso felice le danzava sulle labbra. «Jimin mi porta a cena fuori» Studiai il suo viso accuratamente truccato. «Non ti ho mai vista così felice.» «Anche a te le cose vanno bene, caro il mio fratellino» Le sorrisi per assentire. «Posso accompagnarti?»

 «Posso accompagnarti?»

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