L'incenso si consuma lieve liberando un profumo dolce e persistente. Le fiammelle dei ceri ondeggiano cogliendo un refolo di vento, che si infila nella stanza attraverso fessure invisibili. L'uomo al centro del circolo alza le mani senza mai staccare gli occhi dalle pagine consunte dell'antico tomo, che torreggia sul leggio di fronte a lui. Intona un canto in una lingua non fatta per la voce umana. Anche il ritmo sincopato stride, inadatto a essere ascoltato. Ma l'uomo è solo e nessuno può udirlo, il resto del mondo confinato all'esterno.
Attorno a lui si stringe l'ombra, appena dissipata dalla pallida luminosità delle fiammelle che danzano sui ceri, intrecciandosi con il buio e disegnando strane forme sul suo viso. Le pareti, pur così vicine, sono indistinguibili dalle tenebre e la sua voce echeggia come se lo spazio si fosse dilatato al di là delle possibilità fisiche.
L'oscurità d'un tratto sembra addensarsi alle sue spalle, ma l'uomo è troppo assorto nel rituale. I suoi occhi sono intenti a seguire i contorti segni tracciati sulle pagine ingiallite, le sue orecchie immerse nell'ascolto della nenia che va salmodiando. Il grumo di ombra si infittisce e comincia a prendere forma, incombendo lentamente su di lui.
La tenue luminosità dei ceri tremola, come a contatto di un'improvvisa corrente gelida. L'oscurità si fa più fitta, assorbendo ogni singolo raggio di luce, come nutrendosene e traendone forza maligna. L'uomo ha l'improvvisa percezione di quello che sta accadendo e sgrana gli occhi, tentando di impedire al rituale di perdere forza. Esso costituisce l'unica barriera che può tenere l'ombra fuori dal cerchio. Una volta spezzato, ogni altra cosa risulterebbe inutile.
Una pressione della quale è acutamente conscio sta costringendo la luce all'interno dal circolo e ne minaccia l'integrità. Gocce di sudore imperlano la sua fronte, mentre impegna ogni briciolo di forza nel rimanere immobile.
Un improvviso colpo di vento, giunto da chissà dove, afferra la pagina consunta dove è tracciato il rituale, girandola con beffarda lentezza davanti a lui. Gli occhi dell'uomo si spalancano per il terrore e la sua voce si incrina. Per un singolo istante la stanza viene avvolta da un silenzio sepolcrale.
E tanto basta.
Parte Prima
Capitolo Uno
Thomas Travers pigiò il tabacco nel fornelletto della pipa. Era seduto sul divano, ma non riusciva a trovare una posizione comoda, come se si sentisse un estraneo in casa sua. Sbuffò una boccata di fumo denso. Di fronte a lui, appoggiate sulla cappa del caminetto, immagini trascorse di una felicità che non riusciva neppure a ricordare. Si vedeva prendere la laurea, accompagnare una splendida donna all'altare, tenere in braccio una bambina dal viso rosato. Non riusciva a riconoscersi.
Quando la sottile barriera di fumo si diradò, intravide la moglie che lo osservava appoggiata allo stipite della porta, l'espressione a metà strada tra il dolore e il compatimento. Le valige ai suoi piedi testimoniavano che aveva finito di raccogliere le sue cose ed era pronta ad andarsene.
«Ho preso tutto, credo», gli disse, tentando di mantenere un'espressione serena. «Hai firmato i fogli che ti ho dato?»
«Kathrin… Kate», si corresse. Lei lo rimproverava sempre di usare il suo nome per intero solo per dirle cose noiose. «Tu lo sai che non sono d'accordo».
«Tom, non ricominciamo». Gli si avvicinò e si sedette sul divano. Abbastanza distante da non poter essere raggiunta da una carezza, notò lui. «Ne abbiamo parlato fino allo sfinimento e non abbiamo trovato un'altra soluzione. Anche per me questo è un momento doloroso, ma non c'è altra via se vogliamo tentare di ricostruire una vita dalle macerie che ci circondano da due anni».
Tom annuì, suo malgrado. La vita si era dimostrata arida come una tempesta di sabbia. Il loro matrimonio aveva cominciato a sbriciolarsi con la morte di Aileen, un fagottino di appena qualche chilo, portato via da un male più grande di lei. Il dolore aveva scavato un cratere nel suo petto e una trincea tra di loro. Il rapporto avrebbe potuto rinsaldarsi, certo. Si era detto mille volte che avrebbero potuto riprovarci. Invece era andato in frantumi.
Si alzò a fatica dal divano, come se sulle sue spalle gravasse l'intero peso di una famiglia che si stava dissolvendo. Raggiunse il tavolo dove erano posati i fogli che attestavano, in termini burocratici, la fine di tutto. Afferrò la penna e appose una firma incerta. Kate li prese e appoggiò la bella mano affusolata sulla sua in un ultimo gesto di affetto, seppellendo così l'amore di una vita. Si allontanò senza aggiungere altro.
Tom aprì una vetrinetta, tirò fuori una bottiglia di bourbon, senza curarsi di prendere anche un bicchiere, e si lasciò cadere di nuovo sul divano. La pipa si era spenta sul posacenere e il buon profumo di prima si era trasformato in uno sgradevole lezzo di bruciato.
Sembrava la storia della sua vita.
***
Il suono del telefono trafisse i timpani di Thomas Travers. Allungò la mano per afferrare la cornetta ma, nella nebbia di un risveglio arrivato troppo presto, brancolò a vuoto fino a che non fece cadere a terra la bottiglia di bourbon vuota e un paio di libri appoggiati sul tavolino accanto al divano.
«Pronto?»
«Ciao Tom». Una voce familiare, intrisa di stanchezza quasi quanto la sua. E di preoccupazione, sembrava.
«Adrian», mormorò riconoscendolo. «È proprio vero che la polizia di Washington D.C. non dorme mai».
«Sono le due del pomeriggio, Tom», gli disse Adrian Bennett «E io ho un maledetto bisogno del tuo aiuto».
«Kate è andata via ieri». Il ricordo gli riaprì una ferita più dolorosa dell'emicrania, che gli stava spaccando in due la testa. «Non credo di essere in grado di aiutare nessuno, nemmeno me stesso».
«Sì, Nancy me lo ha detto… Ti siamo vicini, Tom». Fece una pausa. Si sentiva che l'amico era in forte imbarazzo. «Non ti dimenticare mai che…».
«Sì, sì… Lo terrò a mente», tagliò corto.
«Tom, ti prego di credermi. Non ti disturberei se non avessi davvero bisogno del tuo aiuto. C'è stato un delitto… bizzarro, non so come altro definirlo. E il Procuratore Distrettuale mi sta con il fiato sul collo perché ha una maledetta paura che gli costi il rinnovo della carica».
Quel termine, bizzarro, penetrò attraverso l'emicrania e andò a solleticargli la curiosità.
«Che vuoi dire?», sospirò. Forse se si fosse distratto avrebbe allontanato i pensieri che lo angosciavano.
«Sylvester Blake era sbarrato all'interno di casa sua ed è morto nel bel mezzo di quello che sembra un rituale magico in piena regola».
«Causa della morte?»
«Sono in attesa dei risultati dell'autopsia, ma il medico legale era sbalordito».
«Perché?»
«Pare che il sangue dell'uomo fosse denso come resina. È come se gli fosse andato in ebollizione... Una morte atroce».
***
Thomas Travers si portò stancamente in bagno per darsi una rinfrescata. Lo specchio gli restituì un'immagine di sé peggiore di quella che ricordava. Le borse sotto gli occhi certo non miglioravano il suo volto pallido e scavato. I capelli, più lunghi del solito, erano ormai più grigi che neri. Decise di ignorare il suo aspetto. Si rase soltanto, tentando di non tagliare la sua pelle troppo secca. Poi uscì.
Fuori trovò ad aspettarlo il tardo autunno uggioso che lì, a North Bethesda, appena fuori Washington, arrivava sin dai primi di ottobre. Era carico di pioggia e foriero del gelo invernale che stava per piombare dal Canada. Si strinse il bavero e si diresse verso la Chevrolet parcheggiata in mezzo al vialetto di ingresso della villetta monofamiliare. Entrò nella vettura e partì in direzione della Capitale.
Il rado traffico della cittadina presto si intensificò e all'altezza dell'inizio di Connecticut Avenue cominciò a scorrere talmente lento da sembrare quasi gelatinoso. Percorse a passo d'uomo la lunga arteria per qualche chilometro. Prima di impantanarsi in maniera definitiva l'abbandonò dirigendosi verso George Avenue, che tagliava in due la zona residenziale a nord della città.
Fermò la macchina di fronte a una bella villetta circondata da un giardino molto curato. C'erano solo un paio di auto della polizia parcheggiate davanti, a testimonianza del fatto che ormai il grosso delle rilevazioni era stato fatto. Anche i curiosi erano già andati via.
Si chinò per superare la fascia gialla con su scritto "POLICE LINE - DO NOT CROSS" e fece un cenno col capo al poliziotto di guardia. O'Brian - così gli pareva si chiamasse - si sfiorò il cappello in un abbozzo di saluto militare.
«L'ispettore Bennett è dentro?», chiese dando una prima occhiata all'ingresso. Il poliziotto annuì.
La casa si presentava piuttosto ben arredata e tenuta. Famiglia borghese. Lo colpì la quantità insolitamente alta di libri. Ce n'erano centinaia allineati su librerie e scaffali. Si fermò a dare un'occhiata a qualche dorso di copertina. A differenza dei poliziotti, un criminologo, soprattutto se come lui specializzato in occultismo, considera sempre illuminante sapere cosa leggono le vittime.
Economia, antropologia, sociologia, storia… Di tutto. Afferrò un libro a caso e lo aprì. Lo ripose di lì a poco, quando vide Adrian Bennett fare capolino nella stanza. Il suo volto tondo era più pallido del solito e sull'ampia stempiatura luccicava qualche goccia di sudore. L'ispettore si diresse verso di lui, caracollando sulle gambette corte che sembravano mettere in crisi l'equilibrio del busto, dominato dallo stomaco imponente.
«Ti ringrazio per essere venuto, Tom», gli disse stringendogli la mano.
«Dov'è stato trovato il cadavere?»
«Nello studio, seguimi». Si avviò lungo il corridoio e si fermò all'altezza di una pesante porta di legno massiccio.
Tom lo raggiunse e si affacciò. Lo studio era molto diverso dal resto della casa e sembrava in qualche modo l'ambiente più vissuto. C'era una grande scrivania coperta di carte e di libri e due librerie colme all'inverosimile. Ma quello che lo colpì era lo spazio al centro della stanza, ottenuto probabilmente spostando di lato la scrivania. A terra c'era disegnata la sagoma del corpo ormai asportato, ma la scena era ben più complessa.
Accanto alle poche linee che descrivevano la posizione dove era stato trovato il corpo di Blake c'era tracciato un circolo del diametro approssimativo di un paio di metri. All'interno del circolo era stata disegnata una stella a cinque punte, ai cui vertici erano stati posti dei tozzi ceri color fuliggine, un paio dei quali ora giacevano rovesciati di fianco. Un forte profumo di incenso proveniva da un braciere ormai spento.
Tra l'entrata e il circolo era stato posto un pesante leggio di legno massiccio, completamente ricoperto di una fitta ragnatela di simboli. Il piano del leggio era vuoto.
«A parte la rilevazione delle impronte e l'asportazione del corpo, tutto è rimasto come era», gli disse Bennett.
L'ispettore prese una cartellina appoggiata su un ripiano e gliela porse. Conteneva dei fogli con i primi risultati dei rilievi effettuati e alcune foto. Tom cominciò a studiare le immagini. Il cadavere di Blake era stato trovato riverso a terra a faccia in giù, le sue braccia erano allargate e le sue mani sembravano artigliare il pavimento, quasi avesse voluto scavare con le unghie la fuga dalla morte. La foto successiva era un primo piano del volto: Blake aveva gli occhi spalancati e un'espressione di terrore scavata nei lineamenti.
«Cristo!», si lasciò sfuggire. «Siete sicuri che non ci fosse nessun altro dentro lo studio?»
«Porta sbarrata dall'interno. Abbiamo dovuto sfondarla per entrare». Adrian indicò un pesante chiavistello rotto. «E comunque non è stata trovata alcuna impronta che non fosse di Blake».
«Avete capito cosa ha provocato l'addensamento del sangue?». Tom sfilò una lente di ingrandimento dalla tasca e cominciò a osservare con cura le immagini. «È la prima volta che sento parlare di un fenomeno del genere».
«Anche il nostro coroner, se ti può consolare». Adrian Bennett scosse la testa. «Siamo ancora in attesa dei risultati dell'autopsia, ma l'ho visto in grande difficoltà… E ti assicuro che è uno che ne ha viste di tutti i colori. Pare che il sangue sia entrato in ebollizione provocando la sua coagulazione immediata. Ma come puoi notare il corpo non è stato esposto ad alcuna fonte di calore. La pelle è intatta e non ustionata».
Tom diede una rapida occhiata ai risultati dei rilievi. Poi si avvicinò al cerchio tracciato a terra, non prima di essersi infilato un paio di guanti in lattice.
«Un pentacolo», disse quasi a se stesso. «Sembrerebbe un rituale di evocazione».
«Sul leggio non c'era nulla?», chiese poi piazzandosi al centro del circolo per tentare di ricostruire la posizione di Blake.
«No, niente. Perché?»
«Mmm…». Tom continuò a guardarsi intorno, perplesso. «Sembra che Blake fosse intento in un rituale di evocazione. Vedi, il cerchio con la stella a cinque punte, il pentacolo, forma una sorta di barriera. Tiene all'esterno l'essere evocato e impedisce che esso si ribelli all'evocatore e lo aggredisca».
«E tu credi veramente che…».
«Adrian, non ti sto dicendo che qui dentro sia avvenuta veramente un'evocazione. Diciamo che ci sono tutti gli elementi per così dire "classici" di un rituale di questo tipo». Un attimo di sospensione. «Tutti... tranne uno».
«Quale?»
«Il libro. A cosa serve un leggio posto davanti a un Circolo, se non a sostenere il libro con le formule?»
«Questo farebbe pensare che non fosse solo nello studio e che qualcuno l'abbia sottratto. Però sarebbe l'unico indizio in questo senso: i rilievi finora sembrano indicare il contrario».
«Non lo metto in dubbio. Tu hai chiesto il mio parere e io te lo sto dando. Sta a te trarre le conclusioni finali».
Uscì dal circolo e cominciò a dare un'occhiata ai testi sugli scaffali. Qui la selezione era decisamente diversa. Trattati di Cabala, Demonologia, Magia Nera in edizioni antiche e moderne e in almeno cinque lingue diverse. Ne prese alcuni. Su diversi retrocopertina c'era stampigliata la scritta "Rose's Antique Books", seguita da un indirizzo di Georgetown.
Gli cadde lo sguardo sul tavolino. Un diario aperto e spostato di lato.
«Hai già dato un'occhiata a questo?», chiese prendendolo in mano.
«Credo sia pane per i tuoi denti. A parte qualche pagina qua e là, sembra scritto in una lingua che non ho mai visto».
In effetti la parte centrale del diario era scritta in una lingua strana, che non assomigliava a nessuna che avesse mai visto prima. C'erano due parole che l'aprivano, quasi fossero un titolo.
Sirbenet Xe
Per il resto solo le primissime pagine erano in inglese oltre all'ultima, che aveva la data del giorno prima:
Tutto è pronto, ma io lo sono? Non ho alternative e questo non mi aiuta neppure un po'. Ho studiato per mesi, ma mi sembra di essere come uno studente al suo primo esame. Mi sto per confrontare con un mondo che conosco appena e le cui leggi mi sfuggono. Ma non ho scelta, temo per la vita di Diana.
Le parole enigmatiche si interrompevano così, senza aggiungere alcun particolare che potesse aiutarlo.
«Hai un'idea di chi sia questa Diana?»
«Blake ha una nipote della quale ha ottenuto la custodia». Bennett prese i suoi appunti per consultarli. «È stata affidata alle sue cure alla morte della madre, avvenuta immediatamente dopo la sua nascita».
L'ispettore gli allungò una foto che aveva probabilmente sfilato da qualche cornice. Diana era una bella ragazza mora con la pelle molto chiara e dei luminosi occhi neri. Doveva avere meno di quindici anni.
«L'avete già interrogata?»
«Non sappiamo dove sia in questo momento», sospirò Bennett. «A scuola dicono che si era sentita poco bene e che, visto che non riuscivano a mettersi in contatto con lo zio, l'hanno fatta riaccompagnare a casa. L'ultimo a vederla è stato l'autista dello scuolabus verso le undici di questa mattina. Il suo identikit è stato diramato a tutte le pattuglie».
Tom si guardò attorno con aria vagamente spaesata. L'amico attese qualche istante.
«Stai cominciando a farti un'idea di quello che può essere successo?»
«Mah, in genere in casi di questo tipo si tratta di persone disturbate, gente che legge una mezza dozzina di libri di magia nera e poi decide di imitare quello che ha letto. Però queste messe sataniche presentano rituali rozzi, inconsistenti. Quanto alle vittime, sono dei malcapitati e basta, gente che finisce uccisa con un coltello, con un colpo in testa, per strangolamento...».
«...non sembrerebbe questo il caso...».
«Infatti. Peraltro non c'è traccia di violenza… Hai pensato a un veleno?»
«Non di tipo conosciuto, almeno stando ai primi rilievi. Comunque le analisi tossicologiche sono ancora in corso».
«...magari una malattia rara».
«Dio lo volesse», sospirò Bennet. «In quel caso l'indagine sarebbe chiusa ancor prima di iniziare. Il Procuratore me ne sarebbe grato».
Tom fece per ribattere qualcosa, ma tacque. Non condivideva la fretta di Adrian Bennet di archiviare il caso. Due poliziotti fecero capolino e chiamarono l'ispettore. Tom si attardò ancora qualche minuto nello studio, poi si infilò il diario in tasca e si diresse verso il salotto.
«Vado a visitare questa libreria antiquaria, vediamo se riesco ad avere qualche informazione utile».
L'ispettore Bennet gli rivolse solo un vago cenno di assenso.
Capitolo Due
Il dolore l'avvinghiava come se avesse avuto degli artigli conficcati nel suo ventre. Intorno a lei c’era un forte tanfo di rifiuti in decomposizione, di urina e di escrementi. Diana Blake si domandò se avesse fatto bene a rifugiarsi lì, ma non fece neppure il tentativo di alzarsi. La morsa che le trafiggeva l'inguine le impediva di muoversi e, comunque, non avrebbe saputo dove andare.
Faticava a impedire che la sua mente scivolasse nel torpore. Si trovava in un limbo, nel quale ricordava e sognava, senza essere in grado di distinguere con chiarezza tra le due cose: l'insegnante che, vedendola pallida, le aveva concesso il permesso di tornare a casa; i tentativi ripetuti di chiamare suo zio; il viaggio accucciata accanto all'autista del pullman scolastico.
Ne era scesa piegata in due, per tentare di contrastare il dolore crescente. Si era avvicinata all'ingresso di casa, sognando soltanto di sdraiarsi nel tepore del suo letto. Era arrivata a pochi metri dalla porta, quando la sua mente era esplosa. La strada, il vialetto d'ingresso, la pioggerella insistente erano spariti in un lampo, che era sembrato trasportarla in un luogo estraneo e conosciuto allo stesso tempo.
Si era ritrovata a osservare l'interno della sua casa da un'angolatura distorta e strana, con il campo visivo che le si era ristretto davanti agli occhi. Le era apparso lo studio dello zio, anche se lui non si era accorto della sua presenza. Aveva uno strano vestito - una specie di tunica nera - e intonava un canto stonato, con una voce che non sembrava neppure la sua. Era rimasto immobile a braccia aperte, con lo sguardo fisso su un enorme libro antico dall'aspetto sinistro. Accanto a lui si erano alzate lente spire di fumo denso da un braciere. Attorno ai suoi piedi c’era un circolo, con iscritta all'interno una stella a cinque punte. Su ogni punta un cero, nero anch'esso.
Diana non aveva fatto in tempo a domandarsi come fosse giunta lì, quando dall'oscurità alle spalle dello zio era emersa una figura orribile, scura come l'abisso, ben più delle ombre che gravano sulla la stanza. Si era girata verso di lei come se avesse percepito la sua presenza e un ghigno agghiacciante le aveva deformato il muso. Poi l’aveva ignorata e si era avvicinata a suo zio. Lei aveva tentato di avvertirlo, gridando per metterlo in allarme. Ma era stato inutile, la voce le era sembrata incagliarsi in gola.
Per qualche istante la creatura non era riuscita ad avvicinarsi a lui, come frenata da una barriera invisibile. Ma a un certo punto qualcosa si era rotto e la figura gli si era avventata contro.
Il dolore improvviso che l’aveva colta al ventre l'aveva allontanata bruscamente dalla scena. Non c'era bisogno di averlo visto, sapeva che lo zio era morto. Lo aveva sentito.
Quando era rientrata in sé aveva cominciato a correre, piegata in due per il dolore e per evitare che qualcuno la potesse scorgere.
Aveva corso fino a perdere l'orientamento. Si era ritrovata in una zona della città che non conosceva. I palazzi erano alti e fatiscenti e le era sembrato improvvisamente di essere l'unica ragazza in giro. Gli sguardi troppo interessati, da parte di un gruppo di adolescenti appoggiati a una macchina senza targa e priva di ruote, l'avevano indotta a prendere un vicolo laterale.
Da qui aveva seguito un itinerario tortuoso, guidata dal terrore e dal dolore. Alla fine si era infilata in un palazzo in abbandono e si era seduta nell'unico angolo non invaso dall'immondizia. Si era appoggiata alla parete, perché l'istinto le consigliava di proteggersi le spalle.
Ora le prudeva la pelle all'altezza dello sterno. Non c'era bisogno di guardare: sapeva benissimo che da quando era apparsa quella strana voglia, qualche mese prima, era arrivato anche il dolore.
***
Thomas Travers si accorse che stava fissando il vuoto e che i clacson alle sue spalle avevano cominciato a ululare impazienti. Accostò poco dopo l'incrocio e si abbandonò sul poggiatesta, chiudendo gli occhi. La stanchezza stava prendendo il sopravvento.
L'angoscia non sembrava volerlo abbandonare. Casa sua non era certo il posto più adatto a rilassarsi, a meno di non voler ricorrere all'ausilio del whisky. Sentiva che se si fosse lasciato andare ora non avrebbe più ripreso il controllo, ma avvertiva anche una crescente sensazione di disinteresse. Tanto forte da spaventarlo.
Per quanto poco riuscisse ad affilare la mente, capiva che aggrapparsi a quell'indagine poteva fare la differenza. Sospirò. In altri tempi non avrebbe dovuto farsi forza per interessarsene: la morte di Blake prometteva di essere assieme uno stimolo e una sfida.
L'unica traccia che poteva seguire, per ora, era quella che lo portava a questa certa Madame Rose, il cui indirizzo appariva stampigliato nei libri di Blake e il cui nome ricorreva anche nel suo diario.
Si infilò di nuovo nel flusso del traffico diretto verso il quartiere di Georgetown cercando di tenere la mente sgombra durante il tragitto. Lasciò l'automobile in un parcheggio a pagamento e si mescolò alla folla che si affannava nello shopping pomeridiano.
Percorse alcune viuzze laterali mentre l'oscurità fredda della sera autunnale calava come una cappa. Conosceva la zona, ma non ricordava ci fosse una libreria antiquaria. Giuntovi di fronte, capì il perché: il negozietto non aveva insegna, l'unico ingresso era seminterrato e per raggiungerlo bisognava scendere tre stretti scalini. Dalle finestrelle opache che occhieggiavano discrete poteva scorgere appena file di libri dalla copertina scurita dagli anni. La porticina a vetri dall'aria vetusta era chiusa e dalla strada non si capiva se in quel momento la libreria fosse aperta o no.
Scese i tre gradini e spinse delicatamente la porticina che non oppose resistenza. Un odore di polvere umida e inchiostro lo investì. Davanti ai suoi occhi apparvero scaffali e scaffali di vecchi libri dall'aria per lo più malandata. Una grande quantità di riviste erano ammucchiate alla rinfusa su due tavoli al centro dell'angusto locale. Più che una libreria antiquaria sembrava il retrobottega di un rigattiere. Nessuna meraviglia che non ci fossero clienti.
Avanzò e si aggirò tra tavoli e scaffali. Non sembrava che la libreria fosse specializzata in occulto. Forse Blake aveva comprato i libri su ordinazione. Stava per dare una voce e chiedere se c'era qualcuno quando si accorse di una vecchina che sembrava essersi materializzata al suo fianco.
«Buonasera, giovanotto», lo salutò la donna, guardandolo dal basso con gli occhi velati dalle cataratte.
Fece un passo verso di lui arrancando appoggiata a un bastone e aggiustandosi con una mano i capelli tinti di un rosso palesemente innaturale, quasi violaceo.
«Cosa la porta da queste parti, giovanotto? Non sono molte le persone che mi vengono a trovare ultimamente».
«Mi chiamo Thomas Travers, signora», le disse allungando la mano per stringergliela. Rimase sorpreso quando la donna gli rivolse il dorso della propria. Improvvisò un goffo baciamano.
«Può chiamarmi Madame Rose», sorrise in apparenza molto soddisfatta per il gesto di galanteria.
«Sono un consulente della polizia, signora».
Il volto della donna si rabbuiò.
«Sto indagando sulla morte di una persona che credo lei conosca piuttosto bene. Si chiamava Sylvester Blake ed è deceduto oggi in circostanze molto strane».
Impallidì.
«Sylvester!», sussurrò con un filo di voce. «Mio caro amico…».
«Vi conoscevate da molto?», chiese con delicatezza Tom, dopo aver atteso in silenzio qualche istante.
«Eravamo amici da più di quindici anni, ma lui era un uomo molto riservato. Negli ultimi tempi ho dubitato di conoscerlo veramente».
«Si riferisce a qualcosa in particolare? Ai libri che gli ha procurato? Al suo interesse per la magia nera?».
La donna annuì e sembrò aggrapparsi al bastone, come per farsi forza.
«Immagino che lei sappia che Sylvester ha una nipote, Diana. E forse sa anche che in realtà non sono parenti, benché lui l'amasse più di se stesso».
Fu il turno di Tom di annuire.
«Sylvester non mi ha mai raccontato come Diana sia entrata nella sua vita, ma all'epoca l'aiutai a ottenere il suo affidamento. Avevo compreso che era molto importante per lui. Anche se la mia libreria può sembrarle dimessa, una volta avevo clienti importanti e amicizie influenti».
«Capisco. Blake si è sempre interessato di magia nera?», chiese Tom. Voleva tornare all'argomento principale.
«Oh, no». Madame Rose scosse la testa con un lieve sorriso che le increspava le labbra. «Sylvester era uno studioso, questo sì, ma non ha mai mostrato alcun interesse per l'argomento. Piuttosto era un amante delle lingue antiche e passava lunghe ore sui testi che traduceva. Fino a qualche mese fa».
«E cosa è cambiato qualche mese fa?»
«Non saprei dirle». Lo sguardo della donna si fece più vacuo, come se stesse guardando indietro nel tempo. «Per lungo tempo lui e Diana hanno vissuto una vita tranquilla. Lei andava a scuola e lui passava le giornate sui suoi libri. Era piuttosto benestante, credo che avesse ricevuto un'eredità, per cui non doveva lavorare per vivere…».
«Poi successe qualcosa?». Madame Rose tendeva a divagare, come tutte le persone della sua età. Tom tentò di riportarla sui binari del proprio interesse.
«All'improvviso è cambiato tutto. Lui divenne agitato, nervoso e cominciò a chiedermi libri che neppure conoscevo. Antichi testi di magia nera e di evocazione demoniaca… Ma non mi chieda che uso ne facesse, non me l'ha mai spiegato».
«Non ha neppure un indizio da darmi?». La donna scosse la testa.
«Sylvester Blake era un caro ragazzo, ma negli ultimi mesi era ossessionato da qualcosa... un segreto. Immagino che tentasse di trovarne la soluzione in quei libri».
«Pensa che intendesse compiere dei rituali magici su Diana?»
«Temo che lei abbia frainteso le intenzioni di Sylvester e le mie parole». La donna gli riservò un sorriso amaro, questa volta. «Io non so cosa ci facesse con quei libri, ma certo non avrebbe fatto nulla di male a Diana. Semmai era preoccupato per lei».
Tom annuì. L'aria della libreria gli aveva seccato la bocca e il forte odore di inchiostro gli irritava la gola. Ma c'era ancora una domanda che voleva fare a Madame Rose.
«Lei ha mai visto questo diario?», chiese, sfilandolo di tasca e porgendolo alla donna.
Madame Rose lo prese e lo sfogliò, scuotendo la testa.
«Sylvester era una persona molto riservata, come le ho già detto», rispose. «Non mi avrebbe mai fatto leggere una cosa così personale come un diario».
«Ha ragione. Però forse mi può aiutare lo stesso. Blake era uno studioso di lingue antiche e lei gli ha procurato dei libri. Mi sa dire se riconosce la lingua usata nel diario?».
Madame Rose fissò più intensamente di prima gli occhi di Tom, poi prese gli occhiali da una tasca e se li infilò, chinandosi quasi a sfiorare con il naso le pagine. Osservò le prime due parole:
Sirbenet Xe