11. Legami inscindibili

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"Allora, dimmi, che tipo di lavoro fai in questa piantagione di fragole?".

Il ragazzotto si scosse dal suo silenzio e guardò nella su direzione. Era un tipo strano, su quello non c'era dubbio ma non aveva osato negargli un passaggio quando, sulla strada assolata per la costa, si era fermato per chiedergli se si fosse perso. I pedoni in America non sono cosa comune, tranne nei film, e i pedoni su una strada provinciale non solo solo rari, sono anche pericolosi. Per questo prima di fermarsi aveva tenuto pronto il numero della polizia. Fortunatamente non ce ne era stato bisogno e il ragazzo non si era rivelato essere uno squilibrato, ma un semplice studente del college che aveva deciso di impiegare la sua estate come raccoglitore di fragole in una piantagione di una specie di cooperativa per orfani.

"Dirigo piccoli gruppi di lavoro, di solito cinque o sette persone. È da anni che ci vado".

"Prima del college anche? Non è illegale?".

"Oh, no no. Ero ospitato. Anche se non sono orfano".

"Interessante, sai mi mette di buon umore scoprire che esistono ancora persone così al mondo, disposte a donare il proprio tempo o le proprie energie per una buona causa".

Sorrisero tutti e due.

"È importante fare qualcosa del genere. Per tutti, anche per chi lavora".

"Poi immagino che per un ragazzo grande e grosso come te non ci sia alcun problema a lavorare".

Lui rise. Una risata profonda. Se c'era qualcosa di certo, era che non dimostrava la sua età. Sembrava molto più vecchio. Forse erano gli occhiali, forse la barba folta e rosso fuoco esattamente come i capelli.

"Poi sono felice perché torno e là c'è anche la mia ragazza e quella che è stata la mia famiglia per tanti anni".

"La ragazza? Ma allora ci credo che eri disposto a tornare a piedi!".

La strada procedeva liscia sotto il sole cocente che appiattiva tutto con la sua luce imperdonabile. Le colline si facevano sempre più vicine e una folta pineta scura spuntava alle loro spalle, dividendo come uno spesso contorno il verde dell'erba dal blu scuro del mare che si stendeva all'orizzonte come un pigro gigante.

Si fermò solo quando il ragazzo non gli indicò una pineta parecchi metri più in là.

"È là, ma non si preoccupi, non voglio farle infangare tutta la macchina. Da qui posso andare da solo. È stato davvero gentilissimo".

"È stato un piacere mio..."

"Rob" rispose sicuro l'altro tendendo una mano per stringergliela con forza.

"Bhe, buon lavoro allora! E buona estate!"

La macchina blu scuro si allontanò per un'altra strada e Robert strinse con una mano lo spallaccio dello zaino da trekking e con l'altra il borsone dentro cui aveva stipato tutte le sue cose. Da giorni era tormentato da sogni terribili, tanto folli e macabri che aveva lasciato il college con due settimane di anticipo per correre al campo. Non aveva avvertito nessuno di niente, nemmeno dell'enorme difficoltà che stava affrontando nello studio e a scuola. Nemmeno di quanto gli mancasse la sua famiglia adottiva o di quanto gli mancasse Shoshanah. Robert non era bravo ad esprimersi e questa era una delle ragioni per cui andava tutto male. Non vedeva l'ora di togliersi la camicia a quadri e i jeans (che per altro gli stavano stretti) e mettersi la maglia arancio del Campo, non vedeva l'ora di conoscere le nuove reclute e nuotare nell'oceano. La cosa più impellente, tuttavia, era trovare Sue e Scarlett e parlare loro degli incubi. Iniziavano tutti allo stesso modo con una notte nera e infinita e qualcuno che si lamentava in modo orrendo, ringhiante. Poi vedeva una piccola figura avvolta in un'enorme trappola di fili neri che stringeva e stringeva fino a soffocare. E i lamenti di entrambe le figure continuavano solitamente fino a che non si svegliava di colpo, madido di sudore e spaventato tanto quanto il suo sciagurato coinquilino che non solo conviveva con il problema di un ipovedente in casa, ma anche di essere piccolo e basso nella stessa a casa con l'idolo della lotta greco romana.

Non che avesse accettato la proposta della squadra, oh no. Faceva parte del club di belle arti.

L'arco e la barriera che si poteva intravedere, se uno aveva gli occhi abbastanza allenati, gli diedero il loro muto benvenuto mentre qualche giovane semidio che si divertiva a bigiare le attività del campo vicino al confine occhieggiò dietro a un cespuglio. Tanti ragazzi erano nuovi, macchie di colore indistinto nella penombra dei suoi occhi, anche se mano a mano che si addentrava lungo la strada in terra battuta, agli angoli del suo campo visivo intravedeva i colori familiari della cabina uno, e poi la due e tutte le altre fino a che il rosso dei mattoni della nove non comparve sulla sua sinistra. C'era qualcuno vicino al muro, un qualcuno che lo conosceva anche fin troppo bene e che ebbe la creanza di urlare un saluto prima di corrergli incontro per abbracciarlo.

"Rob!"

Le braccia di Sia gli si strinsero al collo, calde e appiccicaticce ma gradite. Non gli serviva vederla. Sia era cresciuta in altezza un poco, e le erano cresciuti anche i capelli. La abbracciò di rimando lasciando cadere la borsa dei vestiti. Quelli non si stropicciavano, Sia invece, se lasciata da sola troppo tempo sì.

"Come stai? Ma non sei tornato in anticipo?".

Rob evitò la domanda cambiando argomento. "Hai un momento per aiutarmi a mettere giù le cose? Il mio letto è libero?".

La ragazza rise. Una risata argentina e tintinnante come la pioggia di farfalle che era in realtà.

"Certo, solo una ragazzina ha provato ad appropriarsene, ma il tuo allarme le ha dato una scossa mica male".

"Spero stia bene. Non sarà finita in infermeria!".

"No, non era così messa male. Ce ne siamo occupati subito assieme a Grant".

"Mi dovrai dire tutto quello che è successo in questi primi giorni, però dopo. Adesso devo trovare Sue e Scarlett".

Il viso di Sia, anche se non visto si oscurò notando come il tono di Robert si fosse fatto involontariamente greve. La barba lo faceva sembrare molto più vecchio e il fisico si era fatto più asciutto durante i mesi lontano dal campo. Sembrava fosse diventato così tanto umano che per un secondo Sia ebbe il terrore si fosse dimenticato come si fa ad essere un semidio. Così normale, così umano. "Okay va bene. Allora ti aspetto qui... lascia pure le borse".

"Ho fatto dei sogni ricorrenti e vorrei solo dirglielo. Non è niente di tragico, Sia".

"Lo so. Spero non lo sia, non voglio aggiungere problemi ai problemi".

"Ferma lì. Frena" la interruppe Robert e le mise una mano sulla spalla. "Ti giuro che quando torno dalla casa grande parliamo di tutto e ti do un regalo che ti ho preparato al college".

Tutte le ansie e i timori di Sia si sciolsero come neve al sole. Anche lo spettro di Callan Riddock, tornato al campo da qualche giorno sparì in uno sbuffo di fumo verde acido come il suo brutto caratteraccio, il tutto sostituito dal caldo fuoco della presenza di Rob che le ricordava quanto fosse anche lei figlia di Efesto e anche lei potesse brillare per astuzia, ingegno e anche per forza.

"L'ho pensato apposta per te e sono sicuro impazzirai" concluse con un sorriso ricordandole di chiudere la bocca che era rimasta semiaperta. "Okay, va bene aspetto al laghetto" rispose la ragazza annuendo tra sé e sé.

"Vado a occuparmi prima un attimo dei turni all'armeria e poi sono subito lì".

Corse via nervosa, come lo era sempre del resto, ma Robert non ebbe il minimo dubbio che avesse fatto la scelta migliore a designarla capocasa.

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